Il Rapporto Istat 2018 si concentra sulle “reti”. Danno vita a un welfare informale che inasprisce diseguaglianze sociali, inefficienza nella gestione delle risorse e dei processi di crescita. Il mercato del lavoro ne è un esempio, specie per i giovani.
L’Italia del Rapporto Istat
È certo non voluto, ma è senz’altro indicativo il fatto che il “contratto-agenda” del possibile futuro governo di M5s e Lega sia stato reso noto lo stesso giorno in cui è uscito il Rapporto annuale dell’Istat sulla situazione economica e sociale dell’Italia. Da un lato, il ritratto delle difficoltà del paese reale, le diseguaglianze (sociali, territoriali, generazionali) crescenti, i timidi segnali di miglioramento dopo la crisi; dall’altro, la politica, con gli esiti delle elezioni (che risentono di tale quadro e bocciano le forze tradizionali) e le ricette proposte dai due partiti usciti vincitori (con scarsa visione e molto generiche).
In attesa di vedere quali azioni potrebbe produrre la cura dell’eventuale nuovo governo e valutarne gli effetti, concentriamoci per ora sulle condizioni del paziente sottoposto alle analisi dell’Istat.
Un miglioramento dell’occupazione lento e diseguale
Da qualche anno l’Istituto nazionale di statistica non si limita a fornire dati e descrizioni nel suo Rapporto annuale, ma propone anche una chiave di lettura. Nelle edizioni passate le lenti attraverso cui si è osservato il paese sono state quelle delle generazioni e delle classi sociali, nel Rapporto annuale del 2018 è quella delle “reti”, intese nella loro accezione più ampia: “strutture fatte di nodi e relazioni tra persone, tra persone e attori sociali (imprese, istituzioni, gruppi formali e informali) e tra attori sociali”.
In Italia, tra le reti sociali domina quella rappresentata dai legami familiari e parentali. Senza un welfare efficiente, chi non ha una tale rete solida rischia l’esclusione sociale, chi invece riesce ad aggiungere ai “legami forti” familiari anche la ricchezza diffusa dei cosiddetti “legami deboli” (le relazioni interpersonali oltre la sfera parentale) ha molte più possibilità di migliorare le condizioni di benessere e realizzare i propri obiettivi personali e professionali.
Questo welfare informale (in parte familiare e in parte “fai da te”), mancando regia e sinergia pubblica, produce però sovraccarico sulla rete familiare, inasprimento delle diseguaglianze sociali, inefficienza nella gestione delle risorse e delle potenzialità del paese nei processi di crescita.
Un esempio particolarmente rilevante, in questo senso, è quello del mercato del lavoro.
L’Istat segnala un andamento positivo dell’occupazione negli ultimi quattro anni, senza però aver recuperato pienamente il livello del 2008 e con una distanza che rimane ampia rispetto alla media europea. A veder peggiorare di più la propria condizione durante la crisi e a trovarsi ora con una più lenta risalita sono i residenti nel Mezzogiorno, i giovani e gli appartenenti alle classi sociali più basse. Le difficoltà di miglioramento e le diseguaglianze persistenti trovano coerente riscontro nel tasso di Neet (gli under 30 che dopo la fine degli studi non riescono a inserirsi nel mondo del lavoro). Su tale indicatore l’Italia presenta uno dei valori più elevati in Europa (circa 2,2 milioni) con una riduzione appena dell’1,1 per cento (in valore assoluto 25 mila) nel 2017. Di entità maggiore, tanto per capirci, è stata sia la riduzione delle nascite, sia il numero di giovani che hanno abbandonato il paese in cerca di migliori opportunità altrove.
Integrare reti sociali e offerta formale
Se negli altri paesi i giovani sono considerati risorse sulle quali l’intera società (attraverso un’adeguata regia politica) deve investire per produrre con essi nuova ricchezza, in Italia sono in misura maggiore costo a carico dei genitori. La lunga dipendenza economica dalla famiglia di origine e il maggior ruolo delle reti sociali nel trovare lavoro ne sono il triste riscontro empirico. Secondo i dati del Rapporto Istat, il canale più utilizzato dai disoccupati per la ricerca di un impiego è quello informale (rete di parenti, amici e conoscenti), seguito dall’iniziativa personale attraverso la consultazione di annunci, invio di curriculum e uso delle piattaforme online. Solo una minoranza si rivolge ai canali formali istituzionali (servizi per l’impiego). Chi appartiene alle classi sociali più basse e vive nei contesti più svantaggiati tende maggiormente a usare solo la rete familiare e le relazioni più strette. Chi usa solo quel canale ha però più bassa probabilità di trovare un lavoro coerente con la propria formazione e adeguatamente remunerato. Più che far incontrare in modo ottimale caratteristiche e competenze offerte dal giovane con il profilo richiesto sul mercato, il canale delle conoscenze personali porta alla collocazione più direttamente raggiungibile attraverso la rete, il che oscilla dal lavoro nero a una posizione anche molto al di sopra delle proprie doti.
Sono invece i canali formali, dove presenti ed efficienti, quelli che maggiormente consentono di accedere a un lavoro in linea con il proprio profilo, aiutando allo stesso modo le aziende a intercettare i candidati che meglio possono essere valorizzati nella posizione che offrono.
Il “reddito di cittadinanza”, uno dei punti più discussi del possibile accordo giallo-verde, può essere uno strumento di effettivo aiuto non solo se emancipa i giovani-adulti (soprattutto delle classi più svantaggiate) dall’aiuto economico delle famiglie, ma se incentiva e impegna all’inserimento attivo nel mondo del lavoro. Obiettivo possibile solo portando i centri per l’impiego su livelli di copertura e standard di qualità europei. È soprattutto su questo impegnativo punto che si gioca la credibilità del possibile prossimo governo nei confronti delle nuove generazioni.
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Savino
I giovani, a differenza dei loro sciagurati genitori, non vogliono nè raccomandazioni nè assistenzialismo.
Vogliono, invece, che le loro capacità vengano giudicate in modo obiettivo e veritiero.