Nonostante un piccolo emendamento dell’ultima ora che inserisce una pennellata polemica nei confronti della riforma voluta dal Pd, sulla politica del lavoro il “contratto” M5s-Lega è in sostanziale continuità con le tendenze dell’ultimo ventennio.
Capitolo senza eclatanti novità
A differenza dei capitoli “fisco” e “previdenza” del programma per il nuovo governo, quello dedicato al lavoro non presenta contenuti caratterizzati da clamorosa novità: al contrario, appare, nei suoi tratti principali, in linea con le politiche prevalenti dell’ultimo quarto di secolo. In questa parte del “contratto” si sente la mano esperta e la supervisione della senatrice Nunzia Catalfo, che ha affinato la propria competenza tecnico-politica nel settore specifico durante l’ultima legislatura nella sua veste di capo-gruppo M5s in Commissione lavoro, sempre distinguendosi nettamente da altri parlamentari della sua parte per i toni pacati, la ragionevolezza degli argomenti utilizzati e l’attenzione alle ragioni altrui.
Anche sulla materia calda della riforma dei licenziamenti salta all’occhio la rinuncia alla reintroduzione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che pure era stata proposta ultimamente dal professor Pasquale Tridico, primo candidato in pectore del Movimento alla guida del ministero del Lavoro. La realtà è che su quella proposta non solo la Lega, ma anche il M5s era profondamente diviso al proprio interno: la rinuncia a promettere l’abrogazione della norma del 2015 non è dunque casuale.
Soltanto nell’ultima rilettura tutta politica del testo del “contratto” qualcuno al vertice di M5s e Lega deve essersi reso conto del fatto che il silenzio totale sul Jobs act avrebbe potuto leggersi come una sorta di riconoscimento della bontà della riforma attuata dal partito avversario. Per questo, nel passaggio dalla penultima versione (messa online dal M5s giovedì 17 maggio) a quella definitiva di due giorni dopo, dopo le parole “Particolare attenzione sarà rivolta al contrasto della precarietà” è stato inserito l’inciso “causata anche dal Jobs act”, in modo da ripristinare un po’ di contenuto polemico. Ma non basta evidentemente il breve inciso per oscurare l’assenza di elementi rilevanti di discontinuità nei contenuti di politica del lavoro del documento programmatico rispetto a quelli dei governi precedenti.
Vediamo uno per uno i singoli paragrafi del capitolo.
Analisi paragrafo per paragrafo
Introduzione di uno standard retributivo orario minimo: in questo capoverso la sola novità di qualche rilievo è costituita dalla previsione del divieto del praticantato totalmente gratuito negli studi professionali. Invece, l’istituzione del salario orario minimo per i settori non coperti da un contratto collettivo nazionale applicabile era già prevista, in forma di delega legislativa al governo, nella legge n. 183/2014; sta di fatto, però, che la delega non è stata esercitata, a causa dell’opposizione congiunta di confederazioni sindacali maggiori e Confindustria.
Riduzione del “cuneo contributivo”: la misura è già stata disposta in modo strutturale e incisivo dalla legge di bilancio 2018 per i primi tre anni di lavoro dei giovani a tempo indeterminato, cumulabili con un precedente periodo di apprendistato. Una ulteriore riduzione graduale, questa volta a carattere universale, è prevista anche nel programma del Pd e in quello di FI.
Buoni-lavoro: il nuovo governo si propone di ripristinare una disciplina analoga a quella che è stata in vigore fino a un anno fa. Anche questa è una previsione opportuna, mirata a correggere la drastica restrizione operata di malavoglia nell’aprile 2017 su iniziativa del governo uscente per evitare il referendum abrogativo promosso dalla Cgil. Va osservato, semmai, che in quell’occasione il M5s non soltanto non prese posizione contro l’abrogazione propugnata dalla Cgil, bensì consentì che diversi suoi parlamentari, al Senato come alla Camera, prendessero posizione a sostegno di esso, contribuendo in tal modo a indurre la maggioranza all’abrogazione della normativa allora vigente.
Riforma e potenziamento dei centri per l’impiego: capitolo programmatico di importanza cruciale, presente anche nel programma del Pd (il quale, però, su questo terreno porta la grave responsabilità di aver lasciato che la parte della riforma del 2015 riguardante i servizi per l’impiego rimanesse pressoché totalmente inattuata). Proprio in considerazione della sua importanza, nonché della vicenda amministrativa che ha fatto seguito alla riforma della materia contenuta nel decreto legislativo n. 150/2015, qui sarebbe stata utile una maggiore precisione programmatica. Si intende puntare sulla sola iniziativa delle regioni, oppure riproporre il modello dell’Agenzia nazionale (Anpal) che opera d’intesa con le singole regioni, surrogandosi in via sussidiaria a quelle che non siano in grado di realizzare i livelli essenziali del servizio? E poi, qual è l’orientamento del nuovo governo circa la cooperazione tra servizio pubblico e operatori privati del settore, sulla quale si fonda il nuovo strumento dell’assegno di ricollocazione?
Contrasto alla precarietà: è il capoverso nel quale è stato inserito all’ultimo momento l’inciso polemico nei confronti del Jobs act. Ma se si esclude questo, per il resto il contenuto del paragrafo è, nella sua genericità, come il precedente, sostanzialmente in linea con le enunciazioni programmatiche dei passati governi.
Efficientamento del sistema della formazione professionale e della scuola secondaria tecnico-professionale: al pari del precedente, un capoverso dal contenuto condivisibile ma troppo generico. Qui salta all’occhio il silenzio sulla questione della rilevazione a tappeto dei tassi di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi: sarebbe la prima cosa concreta da fare. E non sarebbe difficile farla; ma incontra grandi resistenze negli apparati che gestiscono la formazione. La senatrice M5s Nunzia Catalfo, che viene dalla Sicilia, ne sa qualche cosa.
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Savino
Modificare l’assetto e le dinamiche del mercato del lavoro diversamente da quanto previsto dal jobs act è cosa pressocchè impossibile.
I CPI vanno attribuiti ad un Ente specifico, sfoltiti di personale anziano e riempiti di competenze specifiche quali psicologi del lavoro ed esperti in consigli su colloqui, curriculum e tirocini. Per loro deve prevedersi la stabilizzazione dei precari.
La domanda chiave è, oggi “chi seleziona il selezionatore di HR”?
Henri Schmit
In Italia la sfida principale del potenziamento dei CPI (cf Francesco Giubileo, il costo dei CPI, articolo del 17.04.2018 su Lavoce.info) è se saranno gestiti in modo funzionale (professionalità giuste, organigrammi aziendali piatti, stipendi moderati, gestione secondo obiettivi) o in modo clientelare come la maggior parte delle PA. Il rischio di questo tipo di abuso è universale, è la sua diffusione che penalizza l’Italia. Come evitare gli abusi, l’uso strumentale a fini clientelari?