Lo yuan si è indebolito dalla seconda metà di aprile e da inizio giugno ha perso sul dollaro il 3 per cento. Ma non è la banca centrale cinese a orchestrare la svalutazione. Anzi le autorità di Pechino hanno molti motivi per preferire una moneta forte.

Nuove incertezze sullo yuan. E sull’economia

Il tasso di cambio cinese è di nuovo in una zona di incertezza dopo che lo yuan ha perso l’1 per cento sul dollaro nel fine settimana del 23 giugno, in seguito alla riduzione di 50 punti base delle riserve obbligatorie delle banche decisa dalla banca centrale cinese, la People’s Bank of China (Pboc). È comprensibile che tutto ciò sia comunemente percepito come il tentativo di compensare, attraverso una svalutazione, gli effetti negativi di una possibile guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma in realtà dietro i problemi dello yuan c’è molto di più. La moneta cinese si è indebolita sin dalla seconda metà di aprile e ha perso sul dollaro ben il 3 per cento da inizio giugno, raggiungendo così il livello più basso dallo scorso Natale, il 28 giugno era a 6,62.

Non è soltanto il timore di una guerra commerciale a incombere sulle prospettive di crescita dell’economia cinese – da cui deriva la forte perdita di fiducia nello yuan. I segnali di indebolimento della domanda interna sono numerosi da mesi e sono stati confermati dai dati recenti sugli investimenti fissi, sulle vendite al dettaglio e sulla produzione industriale, tutti peggiori del previsto. Secondo i dati Ceic riportati da Caixin, soprattutto i primi segnano il passo: 6,1 per cento di crescita tra gennaio e maggio rispetto al 7 per cento del primo quadrimestre. Anche l’investimento pubblico in infrastrutture – che include la costruzione di strade, ferrovie e altre opere pubbliche – è aumentato (solo) del 9,4 per cento nei primi cinque mesi di quest’anno, rispetto al +12,4 per cento del primo quadrimestre.

L’unico segnale positivo proviene dal settore immobiliare. Sebbene gli investimenti nello sviluppo e costruzione di immobili residenziali, che rappresentano la maggior parte della spesa nel settore, siano cresciuti allo stesso ritmo dei primi quattro mesi – +14,2 per cento – diversi indicatori anticipano un rialzo. La crescita dei nuovi alloggi residenziali si è attestata al 13,2 per cento nei primi cinque mesi di quest’anno contro il 9,4 per cento del primo quadrimestre, mentre le vendite sono aumentate del 2,3 per cento rispetto allo 0,4 per cento dei primi quattro mesi. Anche gli acquisti di terreni da parte dei costruttori sono diventati positivi, con un guadagno anno su anno del 2,1 per cento nei primi cinque mesi, dopo un calo del 2,1 per cento nel periodo gennaio-aprile.

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Oltre al settore immobiliare, contribuisce a sostenere la domanda di yuan anche l’avanzo di conto corrente, che però si sta visibilmente riducendo. Nel 2018 le importazioni sono cresciute molto più delle esportazioni: rispettivamente del 26 e 12 per cento. E a maggio 2018 l’avanzo commerciale è sceso sotto i 25 miliardi di dollari, rispetto agli oltre 40 nello stesso mese dello scorso anno (dati di Trading Economics).

Non è una svalutazione orchestrata

Questo però non deve far pensare che Pechino lasci svalutare lo yuan per guadagnare facilmente competitività. Infatti, una svalutazione non favorisce in modo significativo le esportazioni, soprattutto nel caso cinese. Secondo ricerche recenti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, i legami tra tasso di cambio e interscambio commerciale non sono più forti come un tempo: l’elasticità delle esportazioni al tasso di cambio è diminuita negli ultimi quindici anni (mediamente per un gruppo di 46 paesi inclusa la Cina) e il 40% di tale riduzione è dovuto alla partecipazione dei paesi al commercio internazionale attraverso le catene globali del valore. Oggi, con la frammentazione internazionale della produzione, il cambio debole riduce l’import, ma al contempo non ha un grande effetto sull’export. L’idea che la Cina possa volere una moneta debole per continuare a crescere al traino delle esportazioni ha quindi poco fondamento, innanzitutto perché l’elasticità dell’export al tasso di cambio è diminuita negli ultimi quindici anni e perché le esportazioni, soprattutto nei settori avanzati e high tech, contengono molti beni intermedi importati, ragion per cui il guadagno di competitività di una svalutazione viene vanificato dal contestuale aumento del costo delle importazioni. In più, nonostante la riduzione dell’avanzo commerciale totale, il surplus con gli Stati Uniti è aumentato.

Si potrebbe tuttavia obiettare che ridurre la dipendenza dalle importazioni di beni intermedi tecnologici è proprio uno degli obiettivi principali del piano “made in China 2025”, che punta ad aumentare il valore aggiunto nazionale. Da questo punto di vista, un cambio debole crea un sistema di incentivi coerente.

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Per ora, però, vi sono molti più motivi per preferire uno yuan più forte, ed è per questo motivo che la banca centrale cinese non sta orchestrando una svalutazione. La fuga dalla valuta cinese infatti origina dalla crescente divergenza nell’andamento dei tassi di interesse in Cina e negli Stati Uniti per effetto della stretta della Fed e di una politica monetaria invariabilmente espansiva di Pechino. Le incerte prospettive sulla domanda interna e sulla crescita, poi, rendono poco appetibili anche i titoli azionari, che sulla piazza di Shanghai hanno perso il 14 per cento dall’inizio dell’anno (Shanghai Composite Index), deriva pericolosa per le società cinesi, mediamente molto indebitate.

Nel 2015 un’analoga perdita di fiducia nello yuan era costata 1 miliardo di dollari di riserve alla Pboc. Quale sia il tasso al quale si impegnerà a intervenire non si sa, secondo molti analisti è 6,7. Di certo, oggi i tempi di reazione delle autorità monetarie cinesi sono più lunghi e le misure meglio calibrate. La politica monetaria sta diventando più raffinata.

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