Dopo la riforma Dini sono stati emanati altri 25 provvedimenti sulle pensioni. Senza che mai fosse affrontato il riordino del sistema contributivo, tuttora affetto da errori e lacune che lo separano dal modello svedese. Cosa farà il governo Conte?
Le riforme previdenziali degli anni Novanta
In Svezia, i lunghi tempi della riforma contributiva furono motivati dalla non facile individuazione dei mezzi necessari a raggiungere gli ambiziosi fini del nuovo sistema, e cioè: 1) la “corrispettività” intesa come l’equivalenza individuale fra la prestazione goduta e la contribuzione versata; 2) la “sostenibilità” intesa come il pareggio tendenziale fra la spesa pensionistica e il gettito contributivo; 3) la “flessibilità” intesa come la possibilità di scegliere quando andare in pensione entro un intervallo di età prestabilito. La Pension Commission lavorò a porte chiuse per tre anni, finché nel 1997 la sua proposta fu convertita in legge senza modifiche né compromessi. Il modello svedese è stato il faro delle altre riforme contributive nord‑europee.
In realtà, la riforma italiana fu la prima al mondo. Per non tornare sulle orme del primo governo Berlusconi, che nell’autunno del 1994 era caduto su un’ipotesi di riordino del sistema retributivo, nella primavera successiva il governo Dini orientò la barca verso nuove idee circolate, per dirla con Michele Salvati, “in ambiti poco più ampi di quelli accademici”. In tempi di concertazione, fu chiesto l’assenso preventivo dei sindacati, che arrivò dopo un conclave di tre giorni. Fu quindi istituito un tavolo tecnico cui mi fu chiesto di partecipare. Sollecitato dalle forze politiche interessate a tornare alle urne senza la scomodità elettorale delle pensioni, il progetto contributivo fu approntato in poche settimane, ma la sua qualità risultò commisurata al tempo impiegato. Molte raccomandazioni dello scrivente furono giudicate “difficili da spiegare” o “politicamente inopportune”. Eppure, tutte diventarono capitoli fondamentali della successiva riforma svedese (vedi Il Sole 24 ore del 23 aprile 2018).
Nei 23 anni da allora trascorsi, l’incontinente legislatore previdenziale ha emanato 25 provvedimenti. Non sono mancati ripensamenti e inversioni a U, senza che mai fosse affrontato il riordino del sistema contributivo, tuttora affetto da errori e lacune che lo separano profondamente da quello svedese. L’estenuante gradualità della riforma Dini ha finora evitato conseguenze negative, ma le cose stanno cambiando perché tutte le nuove pensioni hanno ormai una componente contributiva destinata a crescere rapidamente.
Come garantire a tutti la flessibilità
Uno degli interventi necessari riguarda la flessibilità del pensionamento che la legge Fornero consente fra 63 anni e 66, in procinto di diventare 64 e 67 nel 2019 per effetto dell’aggancio all’aspettativa di vita. In realtà, la libera scelta è ostacolata da due requisiti aggiuntivi che occorre rimuovere: la maturazione di una pensione almeno pari a 2,8 volte l’assegno sociale e un’anzianità contributiva di almeno 20 anni. Inoltre, alla “flessibilità vigilata” hanno diritto i lavoratori destinatari di pensioni interamente contributive, che hanno iniziato l’attività dopo il 1995, mentre agli altri è imposta un’età pensionabile secca che nel 2019 diventerà di 67 anni. Nell’ancor lunga fase transitoria, si profilano, quindi, discriminazioni insostenibili. Il giorno in cui, a 64 anni, potrà andare in pensione chi ha cominciato a lavorare nel gennaio del 1996, sarà difficile spiegare a chi ha cominciato il mese prima che deve aspettare di compiere 67 anni.
La disparità può essere superata estendendo la flessibilità a tutti. La maggior durata delle pensioni liquidate a meno di 67 anni sarebbe compensata, per la componente contributiva, dalla riduzione del coefficiente di trasformazione. Mentre la componente retributiva dovrebbe essere assoggettata a un correttivo attuariale che, in altro contesto, proposi di basare sui coefficienti di trasformazione (Commissione Tecnica per la Spesa Pubblica, nota n. 10/1997). Ad esempio, chi volesse andare in pensione a 64 anni dovrebbe accettare una riduzione pari alla differenza percentuale che separa il coefficiente di tale età da quello dei 67 anni. Gran parte dei risparmi di spesa generati dalla legge Fornero sarebbe perduta nel medio periodo ma recuperata nel lungo.
La pensione di anzianità resta un problema
Resta l’annoso problema della pensione d’anzianità. Pur trascurando l’aggravante del “lavoro precoce”, dal 2019 gli uomini potranno accedervi a 58 anni e tre mesi, che risultano dalla somma del requisito contributivo di 43 anni e 3 mesi e dell’obbligo scolastico di 15 anni. Mediamente, un uomo di quell’età vive per altri 25 anni e lascia un coniuge che gli sopravvive per 12, cosicché le attuali tavole di mortalità consentono di stimare in 37 anni la durata complessiva della prestazione pensionistica. Per effetto della longevità crescente, la durata effettiva risulterà perfino superiore, tendendo a uguagliare quella della contribuzione. Con la differenza che i contributi ammontano al 33 per cento del salario, mentre il calcolo retributivo genera una pensione diretta pari all’80 per cento e una di reversibilità pari al 48 per cento. Pur trascurando aspetti importanti, questi semplici dati bastano a denunciare insostenibilità e privilegio. Quantomeno, la componente retributiva della pensione d’anzianità dovrebbe subire la stessa correzione che, nella proposta dello scrivente, opera su quella della pensione di vecchiaia.
Il governo Conte propone “ricorsi” di vichiana memoria. Infatti, vuole superare lo “scalone‑Fornero” con l’infelice “sistema delle quote” che, in stridente contrasto con la “flessibilità contributiva”, il governo Prodi inventò per superare lo “scalone‑Maroni”. Vuole anche rilanciare la pensione d’anzianità generalizzando il requisito contributivo di 41 anni, ora riservato ai lavoratori precoci. Infine, sembra voglia sopprimere l’aggancio all’aspettativa di vita dei parametri anagrafico‑contributivi per l’accesso alla pensione (quota 100 compresa?) che un governo a partecipazione leghista ben fece a introdurre per contrastare il declino dei coefficienti di trasformazione.
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mariorossi
Per quanto sono d’accordo nel giudizio sulla riforma proposta dal governo, vorrei fare notare che l’autore in qualche senso commette lo stesso errore di cui accusa gli autori delle riforme originali.
Non e’ vero che l’aspettativa di vita e’ una solo funzione dell’anno di nascita. Vi e’ ormai una letteratura ben sviluppata sul fatto che per esempio l’aspettativa di vita e’ funzione del reddito, per cui ignorare questa componente in pratica rende il sistema previdenziale piu’ attraente per i piu’ abbienti. Un sistema che cerchi di essere veramente fair dovrebbe cercare di aggiustare anche questo parametro.
Giuseppe G B Cattaneo
Concordo, l’aspettativa di vita è funzione del reddito. Ma gli errori della classe politica e dei professori in materia attuariale sono enormi.
sandro Gronchi
Mario Rossi solleva un punto interessante che però non è discusso nell’articolo. A parità d’età compiuta al pensionamento, non c’è dubbio che la durata della prestazione, da cui dipendono i coefficienti di trasformazione, a sua volta dipenda dall’anno di nascita. Quando si dice che la longevità è in aumento si intenda dire proprio questo, cioè chi nasce dopo vive mediamente più a lungo. Ma dipende anche dallo ‘stato sociale’ più che dal reddito soltanto. Ad esempio, tutto lascia pensare che gli insegnanti di liceo siano più longevi degli operai benché il reddito sia quasi lo stesso. Dipende inoltre da una quantità di altri fattori quali il genere, lo stato coniugale, l’attività lavorativa svolta, l’estrazione geografica, etc. Tener conto di tutti è teoricamente possibile ma tecnicamente complesso. E la complessità sconfinerebbe inevitabilmente nella opinabilità. Questa è la ragione per cui nessuno l’ha fatto tra i paesi che hanno scelto il sistema contributivo. Il tema è tuttavia dibattuto dagli studiosi perché investe la ‘corrispettività’ che il sistema contributivo ambisce a raggiungere. Il contributivo italiano è senza senso perché non fa dipendere i coefficienti neppure dall’anno di nascita.
loretta bongiorni
Nessuno parla più dei 20 anni minimo di contributi, con il raggiungimento del 67 anno di età, almeno per quanto mi riguarda. Il punto è che non riusciamo tutti a lavorare per almeno 35 o 41 anni, non perché non vogliamo ma perché non riusciamo. Generalmente che vive questo grave contesto è un manager ” trombato ” a tarda età, che non riesce più a riciclarsi, anche se disposto ad accontentarsi ( credete anche molto ) I contributi versati solitamente sono parecchi. Ma con quota 100 andremo/ò in pensione intorno agli 80 anni. Rimpiangiamo tutti la legge Fornero!!! Non credo che faremo passare la riforma leghista senza lottare. Per fortuna che volevano aiutare tutti…..
Savino
Il continuo stop and go crea delle diseguaglianze tra fasce della popolazione.
C’è gente che ha lavorato 42-43 anni e oltre e non ha ancora raggiunto l’obiettivo, mentre, ora, sarebbe sufficiente quota 100, magari con 35-36 anni di contributi.
Poi, la maledizione del nostro sistema è stato il retributivo ed un modello pensionistico, fino al 1994 circa, che faceva acqua da tutte le parti, senza poter fare calcoli precisi e con le somme date in eccesso rispetto ai versamenti effettivi. Quota 100, invece, non potrà che essere col contributivo. In più, adesso che dovranno andare, si stima, mezzo milione di statali in pensione nei prossimi 4-5 anni gli si fa questo ulteriore favore della quota 100, mentre la questione lavori usuranti e stata solo parzialmente (sotto campagna elettorale) affrontata.
Lorenzo
Sono pienamente d’accordo che “la maledizione del nostro sistema è stato il retributivo ed un modello pensionistico, fino al 1994 circa, che faceva acqua da tutte le parti”. Su quel sistema hanno proliferato tutti, dai politici ai sindacalisti al singolo individuo. Non per niente coloro che hanno intrapreso la strada della riforma verso il contributivo sono additati tra i peggiori mali della nostra società.
Savino
Ha ragione il Prof. Boeri e non è retorica.
Gli italiani ci devono sentire anche da quell’altro orecchio.
Non è possibile continuare ad avere una nazione solo per i senior.
Francesco Maria
Per chi ha subito tutti e 25 i provvedimenti nell’arco della propria carriera lavorativa, un cambiamento in più o in meno non è un gran problema. Il vero problema è la mancanza di libertà: il lavoro (e quindi la pensione) sono decisioni personali ed ognuno di noi coi propri soldi dovrebbe fare quello che desidera. I contributi sono denari propri e quindi dovremmo poter decidere sulla base delle proprie condizioni economiche quanto lavorare e quando andare in pensione ricevendo la rendita calcolata su quanto versato. Certo prima del 1996 avevo un’ipotesi della mia vita che sono stato costretto a modificare numerose volte coattivamente.
RASERA GIAMPAOLO
Ma perchè non viene data a tutti la possibilità di calcolare l’intero percorso pensionistico con il sistema contributivo flessibilizzando l’uscita ? Esattamente come gli assunti post ’95 ? Non si risolverebbero tutti i problemi di equità del sistema ma sarebbe sicuramente meglio della situazione attuale (per i futuri pensionati) con un sistema rigido infarcito di mille deroghe: se si ha la fortuna di entrarci bene, altrimenti si aspetta..e spera. Il ricalcolo contributivo per tutti nel lungo periodo consente tra l’altro risparmi, nel breve le risorse si trovano..basta la volontà politica. Ad esempio raffreddando le crescite delle pensioni (piove sul bagnato..) Secondo il Sole 24 ore nel periodo 2006\16 l’imponibile Irpef pro capite dei dipendenti si è incrementato dell’8% mentre quello dei pensionati del 31%.
Giuseppe GB Cattaneo
Mi permetto di postare un commento che esula dai singoli temi toccati nell’articolo perché personalmente ritengo che il sistema pensionistico italiano nel suo complesso, comprese quindi anche le casse previdenziali dei professionisti e indipendentemente dal metodo di calcolo contributivo o retributivo, nel lungo periodo sia insostenibile perché è basato su un vero e proprio errore metodologico. E non mi riferisco all’intrinseca difficoltà di prevedere l’evoluzione delle variabili attuariali (demografica, tecnologica, politica, etc.) della quale nessuno, politici e consulenti, ha tenuto debito conto, bensì dello stravolgimento della finalità intrinseca al principio della previdenza publica.
La previdenza publica ha il compito di promuovere il risparmio al fine di assicurare che tutte le persone anziane abbiano un reddito dignitoso. Ma lo Stato non è tenuto a garantire il mantenimento delle differenze nel tenore di vita dopo la cessazione del lavoro. Non è materialmente in grado di farlo senza trasferire ricchezza dalle classi più povere alle più ricche.
MASSIMO GANDINI
a dire il vero oggi avviene il contrario. Chi non ha mai pagato contributi o li ha pagati di importo irrisorio (ovvero la stragrande maggioranza dei sedici milioni e mezzo di pensionati italiani) riceve un sostanzioso “regalo” previdenziale . Chi ha versato più contributi generalmente otterrebbe addirittura un beneficio dal ricalcolo con metodo contributivo
gianfranco
purtroppo l’italia è il paese degli orticelli e siccome nel passato si ha voluto accontentare tutti,o non scontentare nessuno,con quindi la complicità di tutti gli attori,governi,sindacati e via elencando
con i cambiamenti sociali,economici e generazionali avvenuti ,i nodi sono venuti tutti al pettine e le conseguenze le pagano e le pagheranno chi lavora da poco o chi deve ancora iniziare a farlo.