Il decreto legge per ridurre la quota dei contratti a termine contiene norme che sembrano destinate solo ad aumentare il contenzioso giudiziale. E il forte incremento degli indennizzi per i licenziamenti potrebbe produrre effetti opposti a quelli voluti.
Politiche del lavoro prive di sperimentazione
Mettiamoci nei panni di una persona che aspira a un rapporto di lavoro che duri il più a lungo possibile, alla quale un’impresa offra un contratto a termine con la possibilità di scegliere tra la durata di 12, di 24 o di 36 mesi. Nella quasi totalità dei casi sceglieremmo il termine più lungo. Per questo aspetto, dunque, è molto difficile sostenere che il cosiddetto “decreto dignità”, vietando i contratti di durata superiore a 24 mesi e penalizzando quelli di durata superiore a 12 mesi, faccia un buon servizio ai lavoratori.
Mettiamoci, invece, nei panni di una persona che, avendo lavorato con un contratto che cessa al termine di 12 mesi, aspiri a continuare a lavorare per la stessa impresa. La prosecuzione del rapporto può avvenire o con una proroga oppure con la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Qui la questione da porsi è: “mi conviene che la legge vieti o penalizzi una proroga ulteriore, così l’impresa sarà costretta a ingaggiarmi a tempo indeterminato, oppure l’ostacolo farà sì che io venga lasciato a casa?”. In una parte dei casi è più probabile la prima ipotesi, in un’altra parte dei casi la seconda. Quale delle due ipotesi è la prevalente, nella realtà del tessuto produttivo?
Alla domanda, nel nostro paese, c’è una risposta “di sinistra”: “Se la proroga è vietata, è più probabile che il lavoro prosegua con la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato”.
E c’è una risposta “di destra”: “Se la proroga è vietata, la persona interessata perderà il posto, oppure il lavoro regolare si trasformerà in lavoro nero”.
Se fossimo un paese più pragmatico ed evoluto, la risposta dovrebbe essere cercata con lo stesso metodo con cui si studia l’effetto di un farmaco: cioè attraverso esperimenti scientificamente rigorosi, nei quali si confronta il comportamento di un campione di soggetti cui si applica il trattamento (il farmaco, la nuova norma) con quello di un campione statisticamente identico “non trattato”. Ma da noi il pragmatismo ha poco corso: siamo dunque condannati a veder variare il contenuto della norma a ogni stormir di fronda politica, con l’effetto di una volatilità della regolamentazione del lavoro che sicuramente costituisce un costo per tutti, se non altro perché riduce l’attrattività del paese per gli investitori esteri.
Torna la causale
Ad aumentare l’incertezza del contenuto della regola viene poi un’altra norma contenuta nel “decreto dignità”: quella che reintroduce l’obbligo della “causale”, cioè della verbalizzazione di un “giustificato motivo” per tutti i contratti a termine o relative proroghe che li portino a superare la soglia dei 12 mesi. Tutti sanno quanto scarsa sia la prevedibilità dell’esito della verifica giudiziale sulla “causale” indicata per un contratto a termine: dipende dalle infinite variabili di una istruttoria e discussione giudiziale sulle “vere esigenze aziendali”, e ancor più dall’orientamento del giudice che dovrà occuparsene, non conoscibile preventivamente. Tutti sanno che questa incertezza determina l’aumento del contenzioso giudiziale. Chi ne trae beneficio? Non certo le imprese, ovviamente. Ma neppure i lavoratori. Se davvero il loro interesse è nel senso della restrizione degli spazi per il contratto a termine, questa può essere imposta in vari modi che non implicano alcuna incertezza: per esempio restringendo la percentuale dell’organico aziendale che può essere impiegato a termine. La sola categoria che trae beneficio dall’incertezza del contenuto pratico della norma è quella degli avvocati giuslavoristi; i quali, infatti, hanno molto sofferto nell’ultimo quinquennio della riduzione di oltre due terzi del contenzioso giudiziale in materia di contratti a termine, conseguente alle riforme del 2012 e del 2015. Ora recupereranno.
Incertezza dei costi e volatilità delle regole deprimono la domanda di lavoro
Una cosa, però, è certa: quel che muove il governo a varare il “decreto dignità”, per la parte di esso dedicata al lavoro, non può essere davvero la riduzione del flusso dei contratti a termine. Altrimenti non si spiegherebbe l’aumento del 50 per cento di tutti gli indennizzi (peraltro già mediamente superiori rispetto a quelli in vigore in tutti gli altri ordinamenti europei) previsti dalla riforma del 2015 in materia di licenziamento nei rapporti a tempo indeterminato. Per effetto dell’aumento, ora un imprenditore che si trova a dover ingaggiare una persona, senza avere alcuna certezza circa le sue competenze effettive e la sua capacità di rispondere alle esigenze aziendali specifiche, è esposto al rischio – se nel giro di uno o due anni le cose vanno male – di un esborso pari a sei mensilità della retribuzione: un forte incentivo ad assumere il più possibile a tempo determinato. È ragionevole prevedere che l’incremento del flusso delle assunzioni a termine prodotto da quest’ultima norma sarà più che sufficiente per neutralizzare il decremento prodotto dalle prime due.
Si dirà: “però l’aumento dell’entità dell’indennizzo ridurrà la probabilità di licenziamento a cui sono esposti i lavoratori stabili”. Senonché i dati disponibili mostrano che, di fatto, questa probabilità non è aumentata né a seguito della riforma del 2012 (legge Fornero), né a seguito di quella del 2015: la denunciata “precarizzazione dei posti di lavoro stabili” non si è verificata; e presumibilmente non si verificherà neppure il fenomeno inverso per effetto di un aumento dell’indennizzo.
Il solo effetto del “decreto dignità”, per la parte dedicata al lavoro, è dunque un aumento della volatilità della legislazione, che costituisce di per sé un vantaggio per il ceto forense, ma un disincentivo a investire nel nostro paese. Con il conseguente effetto depressivo sulla domanda di lavoro e in definitiva sul potere contrattuale dei lavoratori. Che cosa, poi, tutto questo abbia a che fare con la dignità del lavoro, resta un mistero.
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lucio
Ichino pone una questione cruciale: perché su certi temi in Italia non si fanno degli studi randomizzati? eppure nel campo economico sociale se si vogliono testare la validità di certe politiche o di certi interventi quel tipo di studi sono imprescindibili. Tutti si affannano a pubblicare articoli basati su analisi econometriche che pur validissime non possono che fornire correlazioni mentre applicate nell’ambito di studi randomizzati forniscono evidenze su casualità. Dispiace constatare che in Italia e in genere in Europa con qualche nordica eccezione il dibattito anche accademico su questi temi è ideologico o lasciato agli urlanti incompetenti, anche ieri all’incontro Di Maio Boeri su presentazione relazione Istat abbiamo assistito allo stesso spettacolo. Per quanto corroborata da dati la relazione Boeri è connotata da alcune importanti asserzioni ma prive di evidenza mentre la replica di Di Maio era del tutto priva di contenuti. Mi rendo conto che non si possa sottoporre a sperimentazione ogni singola proposta politica ma almeno su quelle principali non guasterebbe tentare. Il mondo accademico forse potrebbe fare di più per mostrare la via.
lucio
correttore automatico: causalità
Giovanni
Mi aspettavo che il professore motivasse tutto il suo excursus sul nuovo decreto, paventando una diminuzione degli investimenti stranieri in Italia. Peccato che questi ultimi non ci siano stati negli ultimi anni jobs act alla Renzi
o no.Insistere su questo tema è diventato ripetitivo, direi persino ridicolo considerati gli effetti ottenuti. Che sia la giustizia il problema? Che sia la mafia? Che sia l’incapacità di fornire servizi da parte della PA? Tutti temi su cui lei fa fatto orecchie da mercante! Saluti
Giuseppe GB Cattaneo
Il costo dei contratti a termine deve essere più alto di quello dei contratti a tempo determinato. Mi sembra un concetto di elementare buon senso. Naturalmente nel “libero mercato” questo non è possibile perché il lavoratore più bisognoso accetterà comunque il salario offerto dal mercato, che non tiene in nessun conto il costo sociale del lavoratore. Però esiste uno strumento per riequilibrare il costo del lavoro più disagiato: il reddito minimo universale (non il reddito grillino!) associato ad una flat tax sufficientemente alta, diciamo almeno il 30%. Tutto il resto è fuffa.
Giuseppe GB Cattaneo
Refuso – il costo dei contratti a termine deve essere più alto di quelli a tempo indeterminato (in proporzione alle ore lavorate naturalmente)
Jeriko
Come ha menzionato in chiusura l’unico vero potere contrattuale risiede nella possibilità di cambiare. La legislazione vigente è probabilmente sufficiente dal punto di vista dei lavoratori. Ora il governo deve impegnarsi a creare le condizioni affinché nascano nuove imprese ( e/o imprese estere investa in Italia)
domenico da binasco
Luciddissimo esame di fatti e di comportamenti. Ma un articolo come questo resta nell’ambito degli addetti ai lavori, ci sarebbe bisogno di alte grida, con gran clamore mediatico, della Confindustria che invece ha fatto solo qualche sussurro. Confindustria che rappresenta le aziende italiane che , per capacità manifatturiera, sono le seconde in Europa, ma che demagoghi da due lire, ignoranti e velleitarui continuano a considerare fonti di molti mali.
Savino
Bisognava, in passato, saper dire dei no alla classe imprenditoriale e non spingersi oltre nella regressione di alcuni diritti. Questo è imperdonabile per molti politici, giuslavoristi e sindacalisti.
Ora è troppo tardi, poichè, da oltre 10 anni, la carenza di crescita economica e sviluppo mette tutti negli stessi guai, imprenditori e lavoratori.
E’ inutile fare il guerrafondaio del mercato del lavoro, come fa Di Maio, oggi, che la guerra è finita e restano solo le macerie su cui, insieme, dover ricostruire.
Luca L
dovevano rendere più facile e conveniente l’assunzione a tempo indeterminato, invece hanno solo reso più macchinoso il rinnovo di un contratto in scadenza tanto che al datore di lavoro conviene più assumere direttamente un nuovo lavoratore ripartendo da zero piuttosto che rinnovare un contratto in scadenza…..
E non pensate che siccome il “lavoratore è già formato” questo costituisce un deterrente al turn over….1) perchè la gran parte dei lavori di massa sono lavori fungibili (operai generici, commessi, magazzinieri etc) 2) perchè le aziende comunque assumono sempre ormai persone con esperienza e già formate per quella mansione…
Henri Schmit
Condivido appieno la critica dell’ex senatore Ichino, forse troppo tenera. Trovo solo inappropriato l’uso pseudo-scientifico del termine di volatilità, propria ai prezzi, mentre per la normativa è più corretto parlare di assenza di direzione e di incertezza. in grave difetto che caratterizza il paese da 25 anni. Da alcune misure demagogiche di contorno a riforme sostanziali serie della precedente legislatura siamo passati a misure essenzialmente teatrali, nella migliore ipotesi irrilevanti, ma più spesso nocive all’investimento e all’impresa e quindi sfavorevoli ai lavoratori (a parte l’aumento condivisibile del tetto dell’indennità di licenziamento). Non immaginavo che l’incoerenza, l’inconsistenza e l’incapacità potessero raggiungere questi livelli! Ma dove sono rimasti tutti gli esperti della società civile che dovevano consigliare i nuovi governanti?
Mariano Cirino
Tutto interessante ma a chi spetta fare “esperimenti scientifici” per corroborare il pragmatismo della politica? Non spetterebbe anche e soprattutto ai ricercatori, alle università, alle imprese che vogliono innovare? Oppure dovrebbero essere “esperimenti scientifici statali” cioè finanziati con le nostre tasse? Aspetto risposta per capire l’orientamento Su questa difficile problematica Grazie
giorgio ponzetto
Condivido ile critiche di Ichino ma faccio osservare che sia pure con soluzioni discutibili e da rivedere, il decreto affronta un problema che esiste e che troppi fra quanti in questi giorni sui media lo criticano,sembrano non avere ben presente o sottovalutare e cioè l’uso improprio e il il grande abuso che da imprese e agenzie viene fatto del contratto a termine e a cui andrebbe posto un freno. Si è passati dalla situazione degli anni 70 quando la legislazione era estremamente e assurdamente restrittiva sui contratti a tempo determinato alla situazione opposta in cui ,partendo dalla giusta esigenza di garantire alle imprese la necessaria flessibilità, si è consentito una abnorme crescita del lavoro precario
Accade cosi che i contratti a tempo determinato siano utilizzati per coprire posizioni stabilmente presenti in azienda e poco legate a andamenti congiunturali, che servano di fatto per continuare per mesi e mesi il periodo di prova, per risparmiare sui costi, ad esempio facendo scadere il contratto prima della pausa estiva per poi rinnovarlo alla ripresa, evitando cosi di pagare le ferie al lavoratore. Che ci sia la necessità di porre un po’ di ordine mi pare evidente da quanto succede in giro, senza bisogno di particolare ricerche o indagini comunque sempre utili
Henri Schmit
Trovo questo commento il più intelligente, di più ampia veduta, perché affronta il problema fondamentale, ignorato nella validissima critica del prof. Ichino: se decido in base all’alternativa fra un contratto a t. determinato o nessuno contratto, allora vince sempre la maggiore libertà per l’impresa del contratto a t. determinato. come proteggere (nel mondo di oggi) i dipendenti? Chiedere l’indicazione di un giustificato motivo per tutti i contratti a termine o relative proroghe che li portino a superare la soglia dei 12 mesi è assurdo perché crea incertezza. Piuttosto che decidere in base al numero delle volte che si può rinnovare un contratto a t. determinato potrebbe essere più utile ragionare sul tempo: se qualcuno lavora esclusivamente e a tempo pieno per un’impresa oltre un certo tempo, perché non dovrebbe beneficiare di tutte le garanzie di cui gode un dipendente a t. indeterminato? L’impresa farà di tutto per non superare il tempo massimo legale che non può essere troppo lungo. Senza una regola del genere l’abuso è troppo facile, in nome alle nuove esigenze del mondo del lavoro. Nuove si, ma sorrette da garanzie, minime, chiare e certe, che non cambino ogni anno o con ogni legislatura.
arthemis
inoltre: se viene scaricato sul lavoratore parte del rischio di impresa, tale rischio va remunerato (= tempo determinato deve costare di più di quello indeterminato)
Enrico D'Elia
Il prof. Ichino pone una questione seria, che però doveva essere affrontata sin dall’inizio del processo di precarizzazione iniziato almeno 30 anni fa. Tuttavia il problema non è lo studio delle preferenze e delle reazioni di lavoratori e imprese, ma piuttosto quello del modello produttivo che si è andato affermando in Italia, basato su piccole imprese che operano spesso in regime di subfornitura e quindi devono adattarsi istantaneamente ad una domanda mutevole e volatile. Strutture di questo tipo hanno sempre meno bisogno di personale stabile, a prescindere dalle regolamentazioni del mercato del lavoro, e quindi troveranno qualche modo (legale o meno) per evitare di assumere a lavoratori tempo indeterminato. In queste condizioni, l’unica strada per stimolare la domanda di lavoratori a tempo indeterminato è quella di stabilizzare il fatturato delle imprese tramite una politica industriale intelligente e qualche commessa pubblica. Il resto rischia di essere solo l’ennesima grida manzoniana contro la peste della precarietà.
Alessandro Piu
Nella discussione sulla riforma del Jobs Act, con innalzamento degli indennizzi a favore del lavoratore licenziato in modo illegittimo, mi sembra si dimentichi il termine “illegittimo”. Non vedo nulla di sbagliato nel penalizzare l’imprenditore che licenzia “illegittimamente”. Anche l’obiezione che il datore preferirà non assumere a tempo indeterminato, seppure valida, nasconde un difetto grave dell’impresa italiana: non essere cresciuta dimensionalmente, crogiolandosi nella “bellezza” delle piccole dimensioni. Imprese di piccole dimensioni e poco managerializzate, non sono in grado di competere in un mondo globalizzato, se non grazie alla riduzione dei costi (lavoro in primis), a parte pochi casi di eccellenza. Prima o poi, l’impresa decotta non potrà comunque essere salvata. La sua unica speranza sarebbe aumentare di dimensioni, quotandosi, fondendosi, trovando partnership, unendosi. Una cosa che però l’imprenditore italiano ha dimostrato di non voler fare. Sulla riduzione del contenzioso verificatosi negli ultimi anni, poi, mi sembra che i commenti che si leggono in questi giorni, omettano di considerare quanto questo sia dovuto in parte anche all’inutilità di fare causa, per un lavoratore, sapendo che nella maggior parte dei casi uscirebbe perdente. Infine, la riforma Jobs act, prevedeva anche il rafforzamento delle politiche attive. Poi però Renzi è finito nella polvere e siamo rimasti con una mezza riforma, la metà peggiore per chi lavora.
Bruno Perin
Il contrattto a termine ha una sua precisa funzione: quella di affrontare un bisogno produttivo temporaneo. A questa funzione tutto deve subordinarsi. Per questo motivo tutti i ccnl hanno da decenni definito le causali e i costi.E’ quindi ovvio che la filosofia del Degreto sia ideologica con scarsi effetti pratici o con l’aumento del lavoro irregolare o nero.
E’ possibile presumere che in futuro ci sarà un crollo di contratto a termine, con la soddisfazione dei proponenti, che giustificheranno il lavoro nero come “endemico” per l’Italia.
L’incremento statitico di questi anni sul lavoro a termine è motivato da tre fattori: 1) una legge che lo regolamenta meglio che in passato; 2) la cresita occupazionale di registra in settori tipicamente soggetti al mercato di breve termine; 3) la mancanza di previsione industriale di commesse a lungo termine.
In questo contesto ci sono le forme specupative del lavoro, sempre esistite. Costoro non hanno grandi necessità di avere personale specializzato o qualificato ma semplicemente esecutivo e di facile e immediata sostituzione e la differenza sta nel costo sostenuto non nella qualità del rapporto.
Se però il governo punta a soluzioni ad effetto, qualsiasi ragionamento di merito non troverà ascolto e poco interesserà capire quali conseguenze potrà causare una legge. Come seriemente ha evidenziato Ichino.
Michele
I contratti a tempo determinato sono di danno allle imprese prima ancora che ai lavoratori. Diseducativi. Si deve tornare al vecchio statuto dei lavoratori. Le vere esigenze delle imprese sono al massimo 1 o 2 lavoratori a termine ogni 100 dipendenti.
InvecchiatoMale
Molte critiche potrei fare a questo articolo del prof. Ichino; scelgo questo passo
“Se davvero il loro interesse è nel senso della restrizione degli spazi per il contratto a termine, questa può essere imposta in vari modi che non implicano alcuna incertezza: per esempio restringendo la percentuale dell’organico aziendale che può essere impiegato a termine”.
Dico solo che il ministro Poletti (espressione politica delle idee del prof. Ichino) ha tolto la sanzione della conversione in caso di superamento delle quote.
Ecco l’ipocrisia di chi sostiene di non favorire la precarietà.
Michele
Le due idee base di un approccio “pragmatico ed evoluto” alla regolamentazione del mercato del lavoro: 1) ridurre il contenzioso attraverso l’eliminazione di ogni regolamentazione alla attività dei datori di lavoro. Se non ci sono regole non c’è nulla da contestare. Si potrebbe poi anche introdurre direttamente una norma secondo cui il datore di lavoro ha sempre ragione in ogni caso di contestazione; norma che certamente ridurrebbe il contenzioso giudiziale. 2) mettiamoci nei panni di un disoccupato. Mi conviene che la la legge consenta un contratto per un giorno o solo per qualche ora, così che – magari – anche domani l’impresa decida di assumermi per un giorno o per qualche ora, oppure rimanere a casa disoccupato, senza reddito, senza indennità di disoccupazione e con la famiglia affamata? Nella quasi totalità dei casi sceglieremmo la prima opzione.
Bruno
Tante, tantissime parole che mi ricordano le discussioni sul sesso degli angeli o sulla cuadratura del cerchio. Come moderni alchimisti, tanti qui credono che siano le virgole di qualche leggina a poter proteggere meglio i lavoratori.
La realtà e’ completamente diversa: e’ la produttività di un economia (e indirettamente la competitività di un paese) a proteggere i lavoratori!
Se la torta e’ troppo piccola, se ne fa una piu grande o si perde tempo (anni) a discutere di come dividerne le briciole e chi dovrà restare più o meno affamato?
Mi fa pena leggere tanti commenti da lotta di classe dell’anteguerra. Gli imprenditori non sono peggiori (né migliori) della media del paese in cui vivono, ma date le condizioni in cui operano, cercano di adattarsi al meglio che possono alle difficoltà. Nonostante tutto, gli imprenditori sono e restano l’asse portante dell’economia di un paese. Dire che che sono dei furboni che se ne approfittano e’ da ignoranti e ideologicizzati. Se le cose vanno male per i lavoratori e’ perché l’economia non gira: e’ infinitamente più facile per il governo metterci una pezza sopra con l’ennesima legge cretina che affrontare il VERO problema.
Chiaramente nessuno fra quelli che non si troveranno d’accordo con le mie parole perderà un solo secondo a pensarci su… saro anch’io uno pagato dalla Troika o uno che si e’ gia trovato la pappa pronta nella vita… O un Berluskoniano!
Intanto lo scenario Greco si avvicina…
Un emigrante (15 anni fa…)
domenico schiesari
20.08.2018
Buongiorno
Avrei la necessità di una migliore comprensione di due mie considerazioni fatte a seguito della lettura di un documento della CGIA di Mestre (2016) e di un articolo apparso in un quotidiano (2017) sulle cause possibili della Brexit.
a. l documento della CGIA di Mestre del 2016 denuncia che una somma di 103 miliardi di euro l’anno proviene dal lavoro sommerso. L’ISTAT (sempre del 2016 mi pare) comunica l’esistenza di circa 4 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà.
La prima domanda che mi sono posto è quanti liberi professionisti (sono un ingegnere libero professionista), piccoli artigiani, piccoli commercianti, ecc., vivono al di sotto della soglia di povertà. La seconda domanda è se siamo in grado di individuare coloro che effettivamente hanno bisogno di aiuto non solo economico, ma anche, e soprattutto, di sostegno allo sviluppo del tasso di scolarizzazione e di conseguente professionalizzazione dei minori
b. l’anno scorso ho letto un articolo di un sociologo inglese che sottolineava come una possibile causa dell’esito del referendum sulla BREXIT possa imputarsi alla riforma scolastica e del mercato del lavoro voluta dalla Thatcher. A seguito di tali riforme il ruolo sociale di operatori professionali come meccanici, elettricisti, idraulici, ecc. è scomparso nell’organizzazione della società. Conseguentemente è emerso un atteggiamento molto negativo nei confronti delle cosiddette “elite”. Non ritengo che rispolverare le corporazioni, molto importanti da un punto di vista socio-politico al tempo dei comuni, ma invece solleciterei il sindacato a sostenere con forza questa rivendicazione di ruolo, rivendicazione forse più importante di quella salariale (vedi il punto a.).
grazie e cordiali saluti
Domenico Schiesari
Padova