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Jobs act: incentivi finiti e giovani ancora precari

Tra gli obiettivi del Jobs act c’era quello di ridurre la profonda segmentazione per tipologie contrattuali del mercato del lavoro, con i più giovani spesso assunti a tempo determinato. I dati sembrano indicare che i risultati non sono ancora arrivati.

Confronto poco rassicurante con il 2013

Valutare una riforma del mercato del lavoro è un compito complesso, che necessita di isolare l’effetto del provvedimento – nel nostro caso il Jobs act – dalla congiuntura economica. Un’attenta lettura dei dati ci consente tuttavia di osservare la direzione intrapresa dal mercato negli ultimi due anni.

Se guardiamo alla tipologia contrattuale con cui classi di età diverse sono impiegate, si vede come tra il 2013 e il 2016 la percentuale di giovani fra i 15 e i 24 anni occupata con un contratto a tempo indeterminato sia diminuita di circa un punto percentuale, passando dal 40 al 38,8 per cento. Di grandezza simile, ma di segno opposto, invece, il trend della percentuale dei giovani impiegati con contratti a termine, salita dal 44,5 per cento del 2013 al 46,9 per cento nel 2016.

Dinamiche analoghe si sono verificate nella fascia di età 45-54, dove nel 2016 la percentuale di lavoratori con contratti a tempo indeterminato si è assestata a quota 67,9 per cento e quella dei lavoratori a termine al 6,4 per cento, con differenziali rispetto al 2013 simili a quelli osservati per la fascia 15-24 anni.

I tassi di trasformazione dei contratti precari in contratti stabili, dopo un aumento che nel 2015 si è rivelato più marcato per la fascia di età più giovane, è tornato nel 2016 a un livello paragonabile a quello del 2013: 7,1 per cento per la fascia 15-24 anni e 15,3 per cento per la fascia 45-54 anni. Non sembra quindi che la più ampia quota di contratti precari tra i più giovani trovi un corrispettivo in un più alto tasso di trasformazione verso l’indeterminato.

I numeri suggeriscono come, in un contesto di debole ripresa, le decisioni delle imprese, soprattutto in relazione ai giovani lavoratori, siano ancora in gran parte orientate al risparmio di costo e non all’investimento in capitale umano. La forte flessibilità prevista per i primi tre anni del contratto unico a tutele crescenti – necessaria per valutare le reali competenze del lavoratore – sembra quindi non aver ancora scalfito in misura significativa il ruolo del contratto a tempo determinato.

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Figura 1

Fonte: Istat ed Eurostat

Un ritorno al precariato

La perdurante segmentazione del mercato è poi rafforzata dalle dinamiche delle nuove attivazioni. Se nei primi quattro mesi del 2017 il numero complessivo delle assunzioni di giovani è risultato più alto di quello dello stesso periodo dei tre anni precedenti, il quadro si fa meno roseo quando si considera la tipologia contrattuale che ha trainato l’aumento. Il numero dei contratti a tempo indeterminato è risultato non solo del 38 per cento più basso rispetto al 2015, ma anche inferiore dell’8 per cento rispetto al 2014, anno precedente l’introduzione della riforma.

La contrazione dell’indeterminato, per i giovani, è stata compensata dall’aumento delle assunzioni con il contratto di apprendistato (+11 per cento rispetto al 2014) e con il contratto a tempo determinato, che nei primi quattro mesi del 2017 ha raggiunto quota +39 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’aumento – in parte dovuto al fatto che la decontribuzione ha concentrato nel 2015 assunzioni a tempo indeterminato che altrimenti si sarebbero spalmate su un periodo più ampio – è riscontrabile anche considerando tutte le fasce di età, con un dato leggermente inferiore (+24 per cento).

Il ritorno dei contratti precari è stato quindi più marcato per i giovani rispetto al resto del mercato.

Decontribuzione: una misura incisiva per i giovani?

Considerando le assunzioni a tempo indeterminato, si nota come l’intensità del picco nel 2015 – l’anno con la maggiore decontribuzione – sia stato decrescente in base alla fascia di età, con ai due estremi il notevole aumento degli under 24 (+80,2 per cento) e il minore incremento per gli over 50 (+50,1 per cento). Il crollo del 2016, anch’esso decrescente per fascia d’età, ha poi riportato i dati a un livello simile a quello del 2014. Ciò sembra suggerire che il ruolo giocato dalla decontribuzione nel boom dell’indeterminato del 2015 sia stato particolarmente importante per i lavoratori più giovani, elemento confermato anche dalla più alta quota di assunzioni con esonero sul totale di quelle a tempo indeterminato (dati Inps 2015: 67,4 per cento per gli under 24 contro 50,1 per cento per gli over 50).

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Figura 2

Fonte: Osservatorio sul precariato, Inps

La decontribuzione così come prevista nel 2015 e nel 2016 può essere ritenuta un’opportuna misura anticiclica, e quindi transitoria. Se la finalità è però quella di ridurre la persistente segmentazione per fasce d’età, allora un provvedimento appropriato può essere la decontribuzione selettiva, sulle classi di età più giovani. Oltre a perseguire un obiettivo di equità, questa misura favorirebbe negli anni un aumento strutturale dell’investimento in capitale umano sui lavoratori più giovani, elemento importante per la crescita del paese nel lungo periodo. L’appropriatezza della misura è poi rafforzata dal fatto che le classi più giovani sono risultate più sensibili allo sgravio del 2015 e dalla constatazione di come il ritorno dei contratti precari sia stato particolarmente marcato per questa fascia di età.

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  1. Savino

    Per dare il lavoro ai giovani ci vuole solo Etica, nel fare impresa senza aspettarsi un extraprofitto selvaggio e nella consapevolezza che, arrivata una certa età, si può vivere del proprio senza egoismi.
    Tutto il resto sono solo chiacchiere.

    • Aston

      Questo sarà possibile quando anche lo Stato avrà una sua Etica nell’imposizione fiscale senza aspettarsi una extratassazione selvaggia rispetto a tutti i paesi civili. I numeri sulla pressione fiscale parlano chiaro.

  2. Amegighi

    Mi permetto solo una considerazione/domanda: le imprese che non investono in capitale umano (soprattutto giovane ed innovativo) non sono sostanzialmente imprese che vivacchiano cercando di mantenere lo status quo senza innovarsi ? E l’industria che è sostenuta da questo tipo di imprese può veramente essere definita un’economia “occidentale”, tecnologica (o per dirla secondo qualcuno “2.0”), basata sull’innovazione, invenzione, progettazione e visione a lungo termine, o invece un’industria di tipo antico basata sulla dimensione di grosse imprese e sulla rete precostituita di piccole e medie imprese che gravitano intorno dipendendo da essa ?

  3. fulvio krizman

    Se “be competitive” vuol dire agire solo sulle retribuzioni con le conseguenze sociali che già stiamo osservando,credo che per il nostro paese il futuro sarà tutt’altro che roseo.

  4. Michele

    “Valutare una riforma del mercato del lavoro è un compito complesso” e richiede tempo. Valutare invece una marchetta elettorale come il jobact è cosa veloce: 20 mld regalati alle imprese finanziati con aumento della tassazione per ottenere nulla in cambio dalle imprese, neanche maggiori investimenti. 20 mld che vanno dalle tasche dei contribuenti (i.e. Lavoratori dipendenti) a quelle delle imprese, che poi le tasse neanche le pagano.

  5. bob

    Un incentivo una-tantum da questo risultato. Una politica industriale di sviluppo e di lungi iranti linee guida darebba altre prospettive.

  6. Aston

    Arriverà il giorno in cui si metteranno al centro della discussione questi benedetti “contratti stabili”? Nel comparto del commercio ad esempio come si possono pretendere impennate nella “stabilizzazione a tempo indeterminato” quando per un dipendente sono previsti 14 mensilità (più ovviamente la mensilità di liquidazione) per 11 mesi lavorati e con un cuneo fiscale da follia?

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