Da Apple a Starbucks, l’evasione delle multinazionali costa ogni anno decine di miliardi ai paesi europei, distorcendo la concorrenza e aggravando i bilanci pubblici. Per contrastare il fenomeno entra in vigore la direttiva anti-elusione: sarà efficace?

La direttiva anti-elusione

Il 10 gennaio la Commissione europea ha annunciato di aver avviato un’indagine riguardo al trattamento fiscale di favore che Nike avrebbe ottenuto dall’Olanda. Si tratta dell’ultimo di una lunga serie di cosiddetti tax ruling (accordi fiscali) finiti sotto la lente di Bruxelles. Dal 2015 a oggi, infatti, sono state numerose le sanzioni comminate dalla commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, per indebiti aiuti di stato riguardanti forme di elusione fiscale da parte di imprese multinazionali. E uno studio del 2016 pubblicato dal Parlamento europeo stima, in maniera conservativa, che il gettito evaso annualmente dalle multinazionali nei paesi UE ammonti a 160-190 miliardi di euro.

Per arginare il fenomeno, la Commissione ha presentato nel gennaio 2016 la proposta di direttiva anti-elusione, che è stata successivamente approvata dal Parlamento e dal Consiglio ed è entrata in vigore dal 1° gennaio di quest’anno. La direttiva, articolata in sei punti principali, recepisce in buona parte le raccomandazioni del report Ocse del 2015 sul contrasto all’erosione della base imponibile e al trasferimento degli utili (Beps).

Il primo obiettivo è evitare il trasferimento degli utili verso paesi a tassazione inferiore, cosa che avviene principalmente attraverso il meccanismo del transfer pricing. Spesso, infatti, i gruppi multinazionali creano una holding o sussidiaria in un paese con minor tassazione e vi trasferiscono i profitti delle altre società del gruppo manipolando artificialmente il prezzo delle transazioni infragruppo.

La direttiva introduce poi limiti alla deducibilità degli interessi passivi. Un’altra prassi per eludere le tasse consiste proprio nel fare prestiti ad alto tasso d’interesse da una società del gruppo residente in un paradiso fiscale a un’altra residente in un paese europeo con alta tassazione, così che gli oneri fiscali di quest’ultima siano ridotti sensibilmente grazie alla deducibilità degli interessi.

Un altro punto riguarda la switchover rule, ovvero prevenire la doppia non tassazione di alcune forme di profitti. Ad esempio, si mira a contrastare la prassi delle multinazionali di acquisire il controllo su sussidiarie residenti in paradisi fiscali che distribuiscono dividendi senza che siano tassati né nel paese estero, né nel paese Ue.

Problema dirimente per quanto riguarda le imprese ad alto tasso di innovazione, è invece la proprietà degli asset intangibili, quali i brevetti. Spesso società europee e statunitensi, sebbene realizzino la ricerca e sviluppo in patria, poi attribuiscono i diritti di proprietà intellettuale a sussidiarie residenti in paradisi fiscali. In questo modo i profitti conseguiti con la vendita dei prodotti possono essere trasferiti pagando generose royalties infragruppo alle sussidiarie nei paradisi fiscali.

Inoltre la direttiva introduce la clausola generale antiabuso, in base alla quale gli stati membri non devono applicare accordi volti a ottenere un vantaggio fiscale per le società senza valide ragioni commerciali. Molti dei casi di elusione fiscale all’interno dell’UE hanno infatti avuto origine proprio da accordi di favore concessi da paesi quali Irlanda, Olanda e Lussemburgo a imprese multinazionali, in maniera non conforme alla disciplina sugli aiuti di stato.

Infine viene introdotta una chiara regolamentazione degli strumenti finanziari per evitare i disallineamenti da ibridi per evitare la doppia non tassazione causata da differenze nelle regolamentazioni tra diverse giurisdizioni. Tale normativa verrà introdotta nei confronti dei paesi extra-Ue dal 2020.

I casi di elusione in Europa

Oltre al recente caso Nike, anche Ikea e altre multinazionali operanti nel Regno Unito sono sotto indagine da parte della Commissione per elusione fiscale. Le tecniche utilizzate rientrano tra i casi sopracitati: profitti trasferiti a sussidiarie offshore o fondazioni esenti da imposte attraverso operazioni infragruppo (come il pagamento di interessi o le royalties). Alle varie sanzioni della Commissione (tabella 1) si sommano quelle comminate per iniziativa dei singoli paesi (ad esempio caso Google). Sebbene manchi ancora una normativa a 360 gradi, i primi germogli si intravedono in iniziative come la web tax italiana che recepisce la proposta di direttiva europea.

Tabella 1 – Sanzioni comminate dalla Commissione europea negli ultimi anni

Fonte: Commissione europea, press release database

A far scuola è stato il caso Apple (figura 1). Nel 2016 la Commissione sanzionò l’azienda per 13 miliardi di imposte non pagate tra il 2003 e il 2014. Apple aveva infatti stabilito due sussidiarie in Irlanda, Apple Sales International e Apple Operation Europe, che avevano siglato un cost sharing agreement con la casa madre Apple Inc. in base al quale avrebbero pagato ogni anno il 60 per cento dei costi di ricerca e sviluppo. Apple ha sfruttato il fatto che queste sussidiarie non erano tassabili per il fisco statunitense, in quanto registrate in Irlanda, ma nemmeno per il fisco irlandese, poiché il management era gestito dalla California e la regolamentazione irlandese ritiene una società imputabile fiscalmente laddove risiede il proprio management. Il cost sharing agreement estendeva alle sussidiarie irlandesi il diritto di proprietà intellettuale sui prodotti Apple. In base all’accordo ottenuto con l’Irlanda tutti i profitti dalle vendite negli store dei vari paesi UE venivano registrati automaticamente a Dublino. I profitti confluiti nelle sussidiarie erano successivamente sottoposti all’imposta sulle imprese solo in minima parte, mentre per la maggior parte venivano internamente attribuiti a una sede centrale esistente solo sulla carta e perciò senza residenza fiscale. Di conseguenza, la tassazione effettiva sugli utili si ridusse dall’1 per cento del 2003 allo 0,005 per cento del 2014. Nel frattempo, parte degli utili veniva trasferita in California per finanziare la ricerca.

Figura 1 – Caso Apple

Fonte: Commissione europea, press release database

Resta il fatto che confrontando il regime di tassazione sugli utili delle imprese, persiste una forte disomogeneità tra i paesi europei, che crea squilibri all’interno del mercato unico (tabella 2). I dati Ocse riportano sia l’aliquota ufficiale, somma della tassazione dello stato centrale più quella locale (in Italia Ires più Irap), sia l’aliquota effettiva media elaborata secondo il modello Devereux-Griffith. Quest’ultima tiene conto dei diversi regimi di deduzione degli interessi e degli ammortamenti, ma non di incentivi ambientali o alla ricerca e sviluppo che possono influire sulla tassazione effettiva. Inoltre si tratta di un modello che stima ex-ante il peso della tassazione su un ipotetico investimento tenendo conto di diversi scenari di inflazione e tassi d’interesse, nonché di una struttura del capitale in parte a debito e in parte azionaria. Bisogna tenere conto che i risultati possono differire da stime effettuate ex-post sui dati di bilancio.
A tutto ciò va aggiunta la difficoltà di raggiungere accordi di cooperazione con i paradisi fiscali extracomunitari.

Tabella 2 – Tassazione sul reddito da impresa nei paesi europei

Fonte: Ocse, Corporate Tax Statistics

Cosa avviene negli Usa

La situazione non è molto diversa Oltreoceano come testimoniano i dati del Financial Times. Nel 2016 le imposte effettive che i giganti hi-tech americani hanno pagato sui profitti all’estero sono state sensibilmente inferiori rispetto a quelle sui profitti domestici (figura 2). Donald Trump ha risposto con un massiccio taglio alle imposte nella speranza di riportare in patria i profitti parcheggiati all’estero: da un lato riducendo l’aliquota sul reddito d’impresa dal 35 al 21 per cento, dall’altro offrendo un’aliquota agevolata al 15,5 per cento al rimpatrio una tantum dei profitti detenuti offshore. Infatti la regolamentazione statunitense, prevedeva che i profitti ottenuti all’estero non venissero tassati finché non rimpatriati sotto forma di dividendi alla casa madre (worldwide method), facendo sì che le imprese accumulassero centinaia di miliardi di profitti offshore, come avvenuto per Apple in Irlanda. Dalla riforma Trump si adotta invece il sistema territoriale, ovvero si pagano le tasse nel paese dove si producono gli utili.

Figura 2 – Tassazione effettiva sui giganti hi-tech Usa

**La parte tratteggiata si riferisce alla stima delle tasse da pagare sui profitti all’estero da rimpatriare.

Fonte: Elaborazione del Financial Times

E il trend da due decenni a questa parte è di una progressiva riduzione della tassazione sulle imprese multinazionali, soprattutto su alcuni settori che riescono a eludere maggiormente le imposte grazie alle operazioni infragruppo e alla contabilità degli asset intangibili (figura 3). Una concorrenza al ribasso tra paesi che va a discapito di altre forme di tassazione e del welfare state.

Figura 3 – Tassazione effettiva sulle principali multinazionali

Fonte: Financial Times

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