L’austerità basata sulla riduzione della spesa pubblica costa meno in termini di crescita di quella fondata sull’aumento delle entrate. Lo spiega, con un’analisi rigorosa, il libro di Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi in uscita per Rizzoli.
Una medicina necessaria
Esce il 29 gennaio, Austerità, un libro scritto da Alberto Alesina, Francesco Giavazzi e da me. Vorrei dare ai lettori de lavoce.info la mia visione del libro e del suo messaggio generale, costruito nei lunghi anni di lavoro sui dati dei piani di aggiustamento fiscale realizzati dai vari paesi Oecd nell’ultimo quarantennio.
Il messaggio è semplice: l’austerità può essere capita paragonandola a una medicina necessaria che dà effetti collaterali, che vanno minimizzati. Per l’economia, la malattia è l’alto debito pubblico. Si tratta di un male che viene ereditato dalle generazioni future, su cui manifesta i propri effetti più perniciosi.
L’approccio verso l’austerità che abbiamo seguito nel libro è quello di studiare i dati per capire quali siano gli effetti dei suoi diversi tipi e se esistano modi di applicare la cura che minimizzino i danni collaterali.
L’analisi dei dati ha prodotto un risultato robusto e facilmente sintetizzabile.
L’austerità basata sulla riduzione della spesa pubblica è meno costosa in termini di crescita ed è più efficace nella stabilizzazione del rapporto debito/Pil rispetto all’austerità basata sull’aumento delle entrate del settore pubblico. I piani di stabilizzazione fondati sui tagli di spesa hanno in media un piccolo effetto di contrazione sulla crescita e stabilizzano il rapporto debito/Pil, mentre l’effetto dell’aumento della tassazione è negativo, ampio e significativo sulla crescita, e non è accompagnato dalla stabilizzazione del rapporto debito/Pil. Il grafico che segue illustra il punto mostrando l’effetto sul Pil e sul rapporto debito/Pil di un aggiustamento fiscale dell’1 per cento rispetto al Pil di spese (linea blu) ed entrate (linea rossa).
Grafico 1
Questa evidenza è solida per un ampio raggio di diverse specificazioni del modello utilizzato per valutare gli effetti sulla crescita della politica fiscale. Inoltre, i risultati rimangono evidenti anche quando si tiene conto delle politiche monetarie, delle fluttuazioni delle valute e delle riforme del mercato del lavoro e del prodotto che hanno accompagnato gli aggiustamenti fiscali.
Effetti sull’incertezza
La comprensione di questi risultati richiede di andare oltre gli effetti della politica fiscale sulla domanda aggregata, dove l’impatto recessivo del taglio di spesa è più elevato di quello di un aumento della tassazione. È necessario invece considerare gli effetti distorsivi della tassazione sull’allocazione efficiente delle risorse e, quindi, della produzione. Soprattutto, è necessario considerare gli effetti della politica fiscale sull’incertezza. I tagli di spesa aumentano la fiducia delle imprese e dei consumatori perché danno un segnale di riduzione della dimensione del settore pubblico e dunque della minore necessità di rialzi futuri delle imposte, mentre un aumento delle entrate, che non agisce sulla crescita della spesa, non basta a stabilizzare il debito in maniera duratura e aumenta l’incertezza (si veda, ad esempio, Croce, Mariano M., Kung, Howard, Nguyen, Thien T. e Schmid, Lukas (2012) “Fiscal Policy and Asset Prices”, Review of Financial Studies). Il nostro libro sviluppa questo messaggio fondamentale illustrando con cura la costruzione dei dati e le risoluzioni proposte a problemi rilevanti per misurare i piani di aggiustamento fiscale e identificare il loro impatto macroeconomico. L’uso di modelli empirici è corredato dall’analisi della teoria e da diversi casi di studio.
Purtroppo, il dibattito sull’austerità si è trasformato in un confronto aspro tra i suoi detrattori e i suoi sostenitori. A questo proposito, il grafico 1 illustra una piccola probabilità di osservare effetti espansivi dell’austerità (realizzata mediante tagli di spesa) sulla crescita. Focalizzare il dibattito sulla questione è molto meno rilevante che concentrarsi sull’evidenza empirica di eterogeneità degli effetti delle varie manovre di aggiustamento fiscale. Ma tale evidenza potrebbe essere utile per minimizzare gli effetti collaterali della medicina necessaria.
Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi, Austerità, Rizzoli, 2019, 342 pag. 22 euro.
La versione in inglese del volume è pubblicata da Princeton University Press.
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Savino
Se ci si riferisce all’Italia, ha ragione il Prof. Cazzola quando afferma che questo Paese non ha mai visto un’effettiva austerità.
guido
ah la famosa “expansionary fiscal austerity” che i suoi co-autori ci hanno propugnato in questi anni è basta su quei puntini…solida evidenza empirica. Complimenti belle facce toste
Michele
Leggerò il libro con interesse. Dall’articolo però mi sembra sia trascurato un profilo essenziale: chi paga per l’aggiustame to di bilancio? I tagli di spesa – in genere – sono pagati dai più poveri che – più bisognosi di welfare – ne ricevono meno a causa di un taglio della spesa. Un effetto sperequativo. Invece gli aumenti delle imposte hanno – tendenzialmente – un effetto redistributivo a favore dei più poveri. Inoltre un incremento delle disuguaglianze deprime il potenziale di crescita a lungo termine, come stiamo ben sperimentando in Italia da più di 20 anni.
Davide K
Totalmente d’accordo con quanto espresso, avrei due domande.
1) Se si può valutare, anche empiricamente, il ruolo in tutto questo dell’eventuale inefficienza della spesa pubblica. Ad occhio, direi che tanto più alto è il gap tra efficienza del pubblico ed efficienza del privato, tanto più l’effetto indicato sarà marcato. Ed in Italia il quadro credo sia di un gap elevato.
2) Perchè in così tante università, a livello internazionale, continuino a dominare presunti “esperti” convinti del contrario. Qualcuno è ideologizzato e non è un bravo scienziato evidentemente. Non credo siano nè Giavazzi nè Alesina nè Favero.
Marcomassimo
Come tutti sanno la crescita dell’Italia si è “piantata” dagli anni dell’ingresso nell’Euro; prima invece era decisamente superiore a quella degli altri paesi europei; dopo è stata di gran lunga inferiore; la necessità di rinunciare alla svalutazione competitiva e di puntare sulla qualità totale del sistema paese è stato un cambio di paradigma a cui non ci siamo ancora adattati e forse non ci adatteremo mai dato il substrato antropologico del paese; un paese fondato sui particolarismi in cui “fare sistema” rappresenta per di più un insulto. Aggiungiamo che ora gli interessi sul debito sono nettamente più alti che altrove e ci troviamo “incravattati” a dovere; in questo senso le norme europee sono un terribile strumento sadomaso e per liberarci dalle spese folli fatte negli anni ’80 ci vorrà forse un secolo o due; mostruosità di tal genere nella Storia non si erano mai viste; anche dopo una guerra distruttiva, dal debito in genere si usciva in qualche anno e non lo si portava appresso per millenni; purtoppo come sempre il sonno della Ragione genera mostri.
Michele
Lei si sbaglia di grosso. Anche prima dell’euro la crescita dell’Italia era asfittica. La divergenza in negativo rispetto all’Europa, iniziata dopo il 1973, è stata in parte nascosta dal’esplosione del deficit pubblico e si è resa ampiamente manifesta già dall’inizio degli anni 90. Le svalutazioni competitive e il debito pubblico hanno nascosto i mali strutturali finché hanno potuto, poi si è rischiato il default. Nel 1992 il governo Amato fu costretto a prelevare forzosamente dai conti correnti degli italiani. La disoccupazione era già al 10% a metà degli anni 80’. Altro che crescita
Savino
Dopo il boom degli anni ’60, per cui erano state create le condizioni nei primi 15 anni post-bellici, ci si è cullati, scambiando il benessere con il colpo di fortuna. Sessanta anni dopo, non può più funzionare adagiarsi sugli allori, ma bisogna darsi da fare come i nonni e i bisnonni del dopoguerra.
Davide K
La crescita si è piantata (con la produttività del lavoro) quando è tornata la responsabilità di bilancio, dopo gli eccessi insostenibili visti per almeno due decenni in precedenza.
Come dimostrato dalla crisi del ’92, eccessi che ci avrebbero portati al fallimento.
Non ha alcun senso pensare che si sarebbe potuti andare avanti così. Così come non ha alcun senso pensare che non sarebbero venuti al pettine nodi dovuti all’irresponsabilità di spesa. In primis quella pensionistica, frutto delle “rivendicazioni” dagli anni ’70 in poi.
Sugli interessi si sbaglia: prima dell’euro la spesa per interessi rispetto al pil era molto più alta. Oggi è sostanzialmente ai minimi da 30 anni.
Peraltro avrà certamente notato come il Giappone, con la sua moneta “sovrana”, abbia un debito altissimo da un sacco di tempo, e non risolve nulla anche facendo deficit in abbondanza.
Pentangeli
Oddio quanti slogan semplificatori si leggono da queste parti.
Negli anni ’80 la spesa primaria italiana è rimasta pressocché invariata (= spesa dello Stato per beni e servizi e investimenti). Dire “Politica spendacciona” è semplificatorio oltre che sbagliato, come anche sostenere che “il debito pubblico” sia di per sé una malattia: questa è ideologia. I parametri in economia sono valutati a fronte di altri parametri anche extra-economici. La sostenibilità e l’utilità strategica di emettere debito dipendono da tante variabili.
Il debito aumentò negli ’80 per causa della voce spesa x interessi, per via della politica di tassi alti voluta dal sistema monetario europeo per allineare i paesi prima dell’euro, con l’Italia che doveva sostenere un cambio quasi fisso.
Con l’euro certo non c’è più svalutazione competitiva. Ma la svalutazione reale c’è, eccome. Per esempio quella praticata dalla Germania grazie alle riforme Hartz 2003 onde diminuire il costo del lavoro e dare un boost all’export. A spese della cooperazione e dell’armonizzazione europea però.
Carlo
Vorrei chiedere agli autori cosa pensano delle politiche di austerità estrema seguiti dai governi britannici negli ultimi anni. I servizi sono stati tagliati così all’osso che, ad esempio, i Council (comuni) non hanno i soldi per fornire assistenza medica e psicologica alle famiglie con figli disabili o autistici; i tagli selvaggi alle forze dell’ordine e ai ‘youth centres’ si sono accompagnati, guarda caso, ad ondate di crimine violento da parte di gang motorizzate. Solo coincidenze? I modelli econometrici tengono conto di tutto ciò?
Davide K
Le gang hanno un’altra origine. Si rivolga a chi è venuto prima di Cameron ed ha agevolato un’immigrazione che ha distrutto il tessuto sociale.
Carlo
Ah, quindi meno polizia meno servizi per le famiglie meno servizi per i giovani (dalle biblioteche agli youth centres chiusi) etc etc sono completamente irrilevanti?
Davide K
Quindi non ha senso pretendere lo stato di polizia, o spese pubbliche folli, per evitare che gli immigrati degenerino nel crimine.
Ma continuate pure a negare l’evidenza. Salvini ringrazia. Poi non vi lamentate della sua politica economica però. Nè della Brexit. Nè di qualsiasi altra cosa succederà nei prossimi anni.
Carlo
Faccio fatica a seguire. 1) ho criticato i tagli alla polizia 2) le gang sono di ragazzi inglesi, non di immigrati
Guido Iodice
“il grafico 1 illustra una piccola probabilità di osservare effetti espansivi dell’austerità”
Quindi dopo tanti anni si ammette che l’austerità espansiva è fondamentalmente una bufala. Mi chiedo quanti altri anni ci vorranno per rivedere anche questi “risultati”.
Motta Enrico
Nell’articolo si definisce qual’è la malattia (il debito pubblico), si spiegano i due modi per curarla e i diversi risultati, ma non si definisce cosa sia l’austerità. Riduzione del rapporto deficit/PIL? Ma di quanto, e a che livelli? Pareggio di bilancio? Oppure per austerità gli autori intendono altro? Spero in una risposta ….sennò devo leggermi tutto il libro.
marcello
forse è così anche perchè aumentare le tasse fa aumentare la evasione!?
invece tagliare la spesa è universalistico…
Matteo
Tanti e tanti anni fa, il mio, già allora, mitico trentacinquenne professore di filosofia, in una di quelle sue memorabili lezioni in cui evidenziava con forza l’importanza dell’economia nella storia del mondo, infine, sconsolatamente constatava che: “L’attuale scienza economica, però, è quella disciplina che studia i motivi per i quali le analisi fatte fino ad oggi sono sbagliate.”
Ahimè!, pare che la situazione ancora non si sia schiodata.