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Brexit and the City

La Brexit senza accordo avrebbe effetti pesanti per la City, ma anche per le banche e le assicurazioni del continente. Verrebbe a mancare quel “passaporto finanziario” che al momento facilita lo scambio di servizi tra le due sponde della Manica.

Finanza senza passaporto

Di giorno in giorno, lo scenario di una uscita del Regno Unito dalla Unione europea senza alcun accordo tra le due parti, che fornisca una cornice legale per limitarne gli effetti, diventa sempre più probabile. Un’uscita “no deal” avrebbe gravi conseguenze su molti fronti: dal commercio alla circolazione delle persone, al confine con l’Irlanda. Pesante sarebbe l’impatto sul settore finanziario, data la estrema rilevanza della piazza di Londra.
Nel caso di una “hard Brexit”, in cui il Regno Unito venisse a trovarsi fuori dalla European Economic Area (Eea), le banche e le assicurazioni (inglesi e internazionali) con sede a Londra perderebbero il “passaporto finanziario”, cioè la possibilità di prestare servizi negli altri paesi europei grazie alla autorizzazione ottenuta nel Regno Unito. Ciò potrebbe spingere molti istituti finanziari a trasferire la loro sede da Londra ad altre piazze finanziarie appartenenti alla Ue, per continuare a usufruire del passaporto finanziario. Il processo è già iniziato durante i due anni di trattative ed è destinato a subire una accelerazione in caso di fallimento delle trattative, come sembra stia accadendo.
Senza una sede legale nella Ue, la possibilità di fornire servizi negli altri paesi europei sarebbe condizionata a una serie di autorizzazioni da parte delle autorità dei singoli paesi. A loro volta, le autorizzazioni potrebbero essere rilasciate solo sulla base di accordi di cooperazione tra il Regno Unito e gli altri paesi europei, che riconoscano la sostanziale equivalenza tra la regolamentazione di settore britannica e quella comunitaria. È probabile che la Brexit inneschi una lunga serie di trattative bilaterali tra Regno Unito e singoli governi europei (oltreché con la Commissione UE) al fine di salvaguardare la prestazione cross-border di servizi finanziari tra Londra e il continente.

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Ma Londra resta centrale

Come si dimostra in uno studio (Osservatorio monetario, capitolo 4) realizzato subito dopo il referendum del 2016, l’utilizzo del passaporto finanziario è un fenomeno rilevante in entrambe le direzioni: le imprese continentali che ne usufruiscono per prestare servizi nel Regno Unito (sia in remoto sia stabilendo propri uffici a Londra) sono oltre 8 mila, mentre quelle residenti in UK che utilizzano il passaporto per accedere al mercato di altri paesi UE sono poco meno di 5.500. Perciò le conseguenze di una eventuale perdita del passaporto finanziario per la piazza di Londra andrebbero in due direzioni: gli effetti negativi sarebbero sia per gli intermediari che lì hanno sede sia per quelli che hanno sede negli altri paesi europei. Per questi ultimi, i costi saranno elevati finché Londra rimarrà una piazza finanziaria importante.

Vi sono però due elementi che potrebbero frenare la “fuga dalla City” delle istituzioni finanziarie. Il primo è naturalmente il costo del trasferimento di risorse fisiche e umane. Il secondo è l’effetto di rete: il vantaggio che ogni intermediario riceve dalla sua presenza nella piazza londinese deriva anche dalla presenza di un elevato numero di altre imprese finanziarie. Ciò crea un problema di coordinamento: per il singolo intermediario è conveniente spostarsi da Londra verso un’altra piazza finanziaria solo se lo fanno anche gli altri. Quando c’è un effetto di rete, l’incumbent – in questo caso la City – gode di un vantaggio competitivo su qualsiasi altro centro che si candidi a raccoglierne l’eredità: il vantaggio deriva semplicemente dal fatto di essere, al momento, la piazza finanziaria dominante in Europa. Quanto durerà questo vantaggio? Difficile dirlo. Certo è che quando il meccanismo si metterà in moto sarà piuttosto rapido: lo stesso effetto di rete, che può frenare la fuga dalla City nell’immediato, potrà creare una valanga quando il fuggifuggi comincerà.
Infine, occorre precisare che in realtà non esiste un solo passaporto finanziario. Ne esistono diversi, a seconda dei servizi offerti: bancari, assicurativi, di investimento. Di conseguenza, può facilmente accadere che una singola istituzione finanziaria detenga diversi passaporti. Guardando al numero dei passaporti richiesti per ciascun settore di intermediazione, emerge che quello più interessato è quello assicurativo, seguito da quello della gestione e distribuzione di prodotti di investimento e poi da quello dei servizi bancari (inclusi quelli di pagamento).

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  1. Henri Schmit

    L’articolo è un ottimo richiamo. Non se ne parla abbastanza. Da 30 mesi (!) si annuncia, si prepara, si comincia ad eseguire. Dublino e Lussemburgo per prodotti finanziari e assicurativi, Francoforte per la finanza, Amsterdam per gli headquarters delle mutinazionali, senza dimenticare Parigi. Poi ci saranno non si sa quante rilocalizzazioni industriali, nell’automotive, nell’aerospace, nel farmaceutico (e l’EMA non è a Milano), nella filiera alimentare. Dove andranno? Una cosa è certa : non in Italia. Di chi è la colpa? Di tutti coloro che (da 30 anni) non insistono sull’importanza per un paese in un grande mercato (unico, quasi globale) di creare condizioni valide (non semplicemente trucchi fiscali a breve respiro) per l’investimento privato; poco importa se domestico o foreign direct investment, ormai è quasi la stessa cosa (perché il domestico se ne va facilmente). Quanta ignoranza colpevole!

    • Ottimo commento! Condivido e sottoscrivo

    • Davide

      Condivido anch’io. I trucchetti fiscali di breve periodo non servono a nulla.
      Serve rispetto per gli investitori e proprietari privati, domestici o stranieri, piccoli o grandi.
      Basterebbe applicare il codice napoleonico, peraltro, e liberarci di tutto lo schifo socialista costruito in tempi più recenti.

  2. HHenri Schmit

    Scusate se abuso, ma l’intervento ieri del gov. di Bankitalia sulla finanza d’impresa afferma principi giustissimi, purtroppo evidenti, e lamenta un declino preoccupante degli anni nvestimenti privati aggravatosi di recente. Il problema è più ampio del contesto finanziario trattato da Visco. Nel 2007 ho partecipato a un incontro di grandi investitori immobiliari italiani con il vertice europeo della General Electric. Tutti erano pessimisti sulla crescita futura del paese ma assicuravano al colosso americano che gli avrebbero trovato “ottime opportunità”. Increduli della contraddizione gli Americani hanno concluso che conveniva privilegiare altre giurisdizioni per collocare i loro immensi mezzi. L’ingenuità degli operatori privati riflette bene la scarsa capacità e consapevolezza della mano pubblica. Tutti gli altri paesi del grande mercato unico (dalla Francia alla Slovacchia) fanno l’opposto: il governo promuove l’investimento estero FDI mentre il legislatore emana stabilmente, poco importa la maggioranza, misure per rendere il sistema paese più efficiente. L’Italia ha accumulato decenni di ritardo; servirebbe almeno un decennio di sforzi costanti per rimettersi in corsa.

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