Lavoce.info

A che punto è la notte della Brexit?

Il Parlamento britannico ha di nuovo respinto l’accordo con la UE per una Brexit governata. Il nodo è il backstop: inaccettabile per il Regno Unito, ma irrinunciabile per l’Unione. Anche il rinvio dell’uscita, appena approvato, comporta evidenti problemi.

Il nodo del “backstop”

“A che punto è la notte?” Chiede Banquo all’inizio di una delle scene più tormentate del Macbeth. E invero questa domanda shakespeariana è quella che l’Unione europea e il Regno Unito stesso si pongono di fronte alla sempre più incomprensibile e tarantolata trama della Brexit, marcata dalle ultime contorsioni di quello che fino a poco tempo fa era considerato tra i migliori sistemi politici-costituzionali del mondo.

Dopo aver visto respinto in maniera netta dal Parlamento l’accordo concluso con l’Unione europea per un recesso “soft”, ossia governato, Theresa May è ripartita alla volta di Bruxelles per cercare di eliminare dall’accordo ciò che lo rendeva inaccettabile ai britannici, il cosiddetto “backstop”. Si tratta di un sistema di controllo doganale effettuato tendenzialmente tra il territorio dell’isola britannica maggiore e quello dell’Irlanda del Nord destinato ad applicarsi dalla fine del 2020 nel caso in cui nessuna soluzione alternativa sia individuata per evitare la reintroduzione della frontiera fisica tra Irlanda del Nord e Repubblica irlandese. Il Parlamento britannico vi ha visto un rischio di frattura dell’unità nazionale del Regno Unito.

May tuttavia è tornata da Bruxelles con lo stesso accordo, semplicemente corredato da alcune tortuose dichiarazioni Ue destinate a rassicurare i britannici quanto alla buona volontà europea di trovare soluzioni alternative al backstop. Sennonché niente in queste dichiarazioni cambiava la sostanza dell’accordo perché se per gli inglesi il backstop rappresenta un rischio all’unità nazionale, per l’Unione la sua assenza costituirebbe una ferita intollerabile al mercato interno europeo: infatti, dato che il Regno Unito vuole avere la possibilità stipulare accordi commerciali diversi da quelli europei, la mancanza di dogane con la Ue avrebbe effetti distorsivi nel mercato interno europeo. Ma visto che nessuno vuole una frontiera fisica tra le due Irlande – nemmeno il Regno Unito – il controllo non può che essere nel “retro” di tale frontiera, vale a dire tra la “main island” e l’Irlanda del Nord. Qui sta l’incaglio, direbbe di nuovo Shakespeare: così come il backstop è indigeribile per il Regno Unito, è altrettanto irrinunciabile per l’Unione europea.

Leggi anche:  Concorrenza e crescita: un campionato globale

Le conseguenze del rinvio

Martedì 12 marzo, quando si sono visti ripresentare da May il medesimo “deal” per una soft Brexit, solo accompagnato da qualche ritocco cosmetico, i parlamentari britannici – che sono tutto fuorché sprovveduti- lo hanno respinto di nuovo a stragrande maggioranza. Cassato l’accordo per una Brexit governata, l’unica Brexit possibile era quella “no deal”, ossia un salto nel vuoto normativo che tutti considerano rovinoso dal punto di vista economico. Così mercoledì 13 marzo il Parlamento britannico votava – di stretta misura – un emendamento che chiedeva al governo di escludere una Brexit no-deal, non solo il 29 marzo – data fatidica in cui, a norma dell’articolo 50 del trattato Ue, scade il termine ultimo per concludere il negoziato – ma in qualsiasi altra data. In altri termini, il Parlamento britannico ha chiesto al governo di non arrivare mai a una Brexit non governata. Il governo May potrebbe ignorare la richiesta, dato che non è giuridicamente vincolante, ma dal punto di vista politico ciò condurrebbe il paese a una situazione di totale caos istituzionale.

Così giovedì 14 marzo, la situazione sembrava in stallo: se si rigetta la Brexit con il “deal” e si rende politicamente impercorribile la Brexit “no deal”, cosa rimane? Rimane la strada della richiesta alla Ue di una estensione del termine previsto dall’articolo 50 del trattato. E infatti, il Parlamento britannico ha votato un emendamento ai sensi del quale si prevede di esaminare un’ipotesi di nuovo “deal” il 20 marzo; se il nuovo “deal” dovesse venire approvato, l’estensione verrà richiesta fino al 30 giugno per ottenere i tempi tecnici di esecuzione delle norme necessarie al recesso. Se invece il nuovo accordo non dovesse essere approvato, l’estensione verrà probabilmente chiesta per un periodo più lungo.

La palla passa ora all’Unione. In base all’articolo 50, l’estensione può essere concessa, ma occorre il voto unanime di tutti i restanti 27 stati membri. Ovviamente, nessuno di loro vuole intralciare un processo decisionale già ampiamente sconclusionato di suo, ma i problemi che emergono all’orizzonte sono evidenti. Primo, il 20 marzo, il “deal” che May presenterà al Parlamento non potrà essere sostanzialmente diverso da quello cassato già due volte: perché allora non dovrebbe esserlo anche una terza? Secondo, se come appare probabile, l’intesa verrà di nuovo respinta, l’estensione dei termini di uscita comporterà che le elezioni del Parlamento europeo previste per il 23-26 maggio dovranno in qualche modo tener conto del fatto che il Regno Unito è ancora uno stato membro e quindi i suoi cittadini dovrebbero parteciparvi. Ma ha senso che i britannici eleggano i loro rappresentanti in un Parlamento in cui non vogliono stare e che dovrebbero abbandonare dopo pochi mesi? Quale legittimità avrebbero gli atti decisi col voto dei deputati britannici? Terzo problema, una estensione di lunga durata dei termini dell’articolo 50 avrebbe senso se il Regno Unito usasse quel tempo per riconsiderare radicalmente la sua posizione sulla Brexit, ad esempio tenere nuove elezioni o un secondo referendum. Altrimenti, il risultato sarebbe solo quello di prolungare l’agonia in altri mesi di sterili dibattiti ed emendamenti contraddittori. Sennonché della volontà di percorrere questa strada allo stato ci sono segnali assi deboli.
Insomma, la notte della Brexit non sembra aver ancora raggiunto la sua ora più buia.

Leggi anche:  Per la Commissione il rebus maggioranza

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Nuovi armi dell'Ue contro il denaro sporco

Precedente

Legge Pillon: divorzio e castigo. Per le donne

Successivo

Il Punto

  1. Henri Schmit

    A mio parere si sovrappongono due problemi, uno di merito e uno di procedura democratica, entrambi belle lezioni per tanti. Sul merito dopo quasi tre anni tutti si rendono conto quanto è difficile separarsi per motivi impulsivi da un progetto forte come l’UE. Le opzioni non sono 2 ma almeno 4, no deal, accordo senza o con unione doganale e remain, tutte perdenti o difficili, anche il remain a causa del referendum. May vuole forzare la mano ai Brexiters ponendoli davanti all’aut-aut: m(a)y deal or remain (che si rischia anche con un lungo rinvio). Corbyn non ha alcuna linea, solo nuove elezioni l’interessano. Non c’è alcuna maggioranza per nessuna delle 4 soluzioni. Hanno sbagliato di chiedere ieri un voto sul secondo referendum, ora più improbabile. Chi comanda o ha l’iniziativa (control, dicono loro)? Non più il governo ormai. Piuttosto il Parlamento cioè qualsiasi maggioranza trasversale. Ma su quale quesito? Troppe iniziative creano solo confusione. Troppi sono i gruppi, troppe le fazioni, almeno 8 ben distinte. Che cosa ha fatto tramontare il Westminster-model fondato su legge elettorale e regime maggioranza-minoranza? Ovviamente l’uso imprudente, plebiscitario, del referendum “solo consultivo”, lui stesso figlio di profonde divisioni all’interno dei due principali partiti tradizionali. Comunque vada l’esito per l’UK sarà negativo (no voice; decrescita, disinvestimenti) se no disastroso (disintegrazione del Regno Unito). E questo è un danno anche per noi, Europa e Italia.

  2. Mohamed Mahmoud

    Gli Stati che avranno onori e oneri di rimanere nell’UE non dovrebbero concedere uno spostamento della deadline. Hard Brexit sia.

  3. Roberto Convenevole

    Per l’Italia il danno economico della Brexit sarà grande (crollo delle esportazioni di Parmigiano e di Prosecco in primis, ecc.) ma la sconfitta politica è gigantesca. Fu infatti l’Italia negli anni ’60 del secolo scorso che volle fermamente l’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea per bilanciare lo strapotere tedesco. Ricordo una vignetta su Le Monde che mostrava il generale de Gaulle con il chepì che diceva ad una Europa stilizzata “ Ma petite Eurosix, tu n’as pas l’age pour savoir compter jusqu’a Sept!”. Pertanto ha ragione Henri Schmitt a dire che per l’Europa il danno sarà importante. Ma dovrebbe anche ammettere che la fermezza granitica della Commissione europea nella trattativa dipende soprattutto dalla volontà della Germania di non farsi sfuggire l’occasione che su un piatto d’argento che i capricci della Storia le stanno porgendo: levarsi definitivamente dai piedi gli Inglesi! I sentimenti democratici dell’odierno popolo tedesco contano poco rispetto al famoso capitalismo renano ed al suo intreccio con l’amministrazione statale. Noi Italiani, che abbiamo una amministrazione pubblica di serie C rispetto agli altri, dovremmo capire che oggi più che mai questa lacuna andrebbe colmata. I tedeschi hanno quello che avevano i Romani: una amministrazione statale efficientissima che ragiona in termini secolari nei rapporti internazionali e si prende cura dei miserabili a livello sociale dal Cameralismo in poi.

    • Lorenzo

      Condivido e non riesco a capire come in Italia siamo del tutto inconsapevoli di questo (tant’è vero che alle scorse elezioni è uscita un “non” maggioranza che ha prodotto un governo bicefalo che vuol condurre all’atomizzazione politica ed economica la nazione stessa).

  4. Alessandro Pagliara

    Tanti problemi per nulla. Davvero il problema è la dogana fisica?? Oggi che la maggior parte delle transazioni è informatizzata. Comunque grande rispetto alla democrazia inglese che rispetta il parlamento fino alla fine.

    • Pietro Manzini

      Gent.mo
      trattare così superficialmente il problema del confine fisico è sbagliato. Se le transazioni sono informatizzate (tutte?), le merci e le persone continuano ad avere la loro fisicità. Il confine tra le due Irlande è artificiale e attraversa arbitrariamente piccoli paesi e comunità, che risultano così artificilamente spezzati (da decisioni statali/sovrane). Fino all’accordo del c.d. del Venerdì Santo conlcuso 20 anni fa, le due irlande e il RU erano funestati da una sorta di guerra civile a bassa intensità, che, per decenni, ha prodotto decine di morti. Il problema è stato risolto grazie all’eliminazione delle bariere fisiche determinata dal mercato unico europeo. La dimenticanza della storia, anche recentissima, è un’altra delle follie sovraniste che ha prodotto la Brexit. E’ per non riportare le bombe nelle citta irlandesi e inglesi che si cercano soluzioni alternative alla frontiera fisica.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén