Con l’accordo tra Disney e 21th Century Fox e l’annuncio dell’Apple TV+, il processo di riconfigurazione dei media è ormai completato. Ma le società nate dalle concentrazioni dovranno adattarsi all’evoluzione in atto se non vogliono scomparire presto.

Concentrazioni anti-Netflix

I servizi di video streaming come Netflix conquistano una parte sempre più consistente del tempo dedicato dagli individui e dalle famiglie al consumo di intrattenimento, sostituendo la televisione tradizionale e la pay tv quale prima modalità di accesso a film e serie. Al contempo, la consistente perdita di quote di ascolto da parte della cosiddetta tv lineare tradizionale e la riduzione dei ricavi a vantaggio delle nuove piattaforme di video streaming hanno di fatto trasformato il settore televisivo e dei contenuti audiovisivi, prima negli Stati Uniti e oggi in Europa e in molte altre parti del mondo.

Nei giorni scorsi, con la conclusione dell’accordo da 71,3 miliardi di dollari tra Disney e 21th Century Fox, e l’annuncio di Tim Cook sul lancio dell’Apple TV+ nel prossimo ottobre, il grande processo di riconfigurazione dei media a livello globale può dirsi ormai completato.

Lasciando fuori per il momento i grandi player asiatici, destinati però a svolgere un ruolo di primo piano nei futuri assetti di mercato, quello che emerge con chiarezza è il tentativo dei grandi conglomerati media e delle nuove piattaforme Ott (over-the-top) di rispondere alla “distruzione creativa” operata da Netflix nel mondo della produzione e distribuzione dei contenuti negli ultimi anni. Messa in ginocchio l’industria della pay tv e trasformata radicalmente quella cinematografica, Netflix non poteva pensare di rimanere ancora a lungo l’unico grande operatore in grado di offrire servizi di video streaming in abbonamento (serie e film in particolare) agli utenti di tutto il mondo.

Così, le grandi major americane, le piattaforme digitali online, le telcos, gli operatori via cavo, le grandi pay tv, insomma tutti i soggetti colpiti direttamente e profondamente dal ciclone Netflix, si sono riorganizzati negli ultimi mesi, annunciando il lancio di nuovi servizi e dando vita a un processo di consolidamento che non ha precedenti nella storia dei media. Si va infatti dagli 85,7 miliardi di dollari dell’acquisizione AT&T/Time Warner ai 71,3 miliardi di Disney/21th Century Fox, ai 39 miliardi di Comcast/Sky.

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Ma le dimensioni, seppure importanti, non sono il fattore decisivo, sono solo una delle condizioni per poter competere su scala globale: quello che più conta sono i nuovi servizi che saranno offerti, che dovranno essere quantomeno paragonabili, in termini di attrattività dei contenuti, a quelli attualmente offerti dalla società di Reed Hastings. Ha iniziato per prima Amazon (Prime video), a cui seguiranno, da qui all’inizio del prossimo anno, Warner acquisita da AT&T, Disney (insieme a Fox), Sky, acquisita da Comcast, e Apple (TV+). E anche qui gli investimenti in acquisizione dei contenuti sono impressionanti. Se al primato di Netflix, con 140 milioni di abbonati nel mondo, corrisponde un livello di investimenti pari a 12 miliardi di dollari, non paragonabili con quelli dei rivali di ieri, Disney mette ora sul piatto una cifra stratosferica – 23,8 miliardi -, seguita da Comcast con 21 miliardi e Warner Media con 14,3 miliardi.

Modelli di business diversi

Pur con l’obiettivo dichiarato di sottrarre a Netflix il monopolio del video streaming, le strategie e i modelli di business dei diversi attori non sono però gli stessi.

Disney, il cui nuovo servizio è previsto entro l’anno, si propone più di altri come l’anti-Netflix, sviluppando una strategia di piena contrapposizione. Ha infatti rinegoziato tutti i contratti, impedendo così al rivale di poter offrire i contenuti Disney, molto attraenti e dotati di un brand unico, che saranno invece in esclusiva sulla sua piattaforma, a un prezzo di abbonamento mensile analogo a quello di Netflix.

Amazon, al pari di Apple, sembra preferire una strategia di “accerchiamento”, investendo non soltanto in film e serie, ma anche nello sport e nei canali televisivi, riproponendo nell’online un modello simile a quello televisivo, con il vantaggio di una maggiore profilazione degli utenti, anche a fini pubblicitari e di sussidio del proprio core business (commercio elettronico, apparati). Apple sembra poi abbandonare la sua tradizionale strategia “proprietaria” (walled garden) e guardare più di altri al promettente settore dei video-game, quello che attrae di più i consumatori e presenta oggi i margini di crescita più elevati.

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AT&T si affida invece allo sfruttamento della enorme base di dati, grazie ai big data e all’intelligenza artificiale, puntando su un modello ibrido free e pay, il cosiddetto freemium, frutto della condivisione delle informazioni degli utenti della telco Usa, da incrociare con le preferenze di centinaia di milioni di consumatori dei contenuti Warner sparsi per il mondo.

Ciò che accomuna invece tutti è il progressivo passaggio dal modello classico business-to-business (B2B), con il produttore di contenuti (major) che cede i propri diritti, spesso in esclusiva, al distributore, secondo un meccanismo di sfruttamento temporale scandito dalle cosiddette finestre, e in cui l’operatore pay tv offre i propri contenuti agli abbonati in pacchetto (bundle) a un prezzo molto elevato, a un modello business-to-consumer (B2C) – anch’essa una novità assoluta imposta da Netflix – in cui viene eliminata qualunque intermediazione e il produttore offre direttamente i contenuti all’utente finale a un prezzo molto più basso. La trasformazione vede i soggetti internet nativi o tecnologicamente più evoluti (Netflix, Amazon, Apple) in grado di rispondere più rapidamente al nuovo ecosistema, mentre al contrario impone un salto culturale drammatico, di tipo darwiniano, alle nuove società frutto delle concentrazioni: dopo aver dominato il mondo per quasi un secolo, dovranno adesso dimostrare una straordinaria capacità di adattamento all’evoluzione in corso se non vorranno, in breve tempo, scomparire.

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