È stata una settimana cruciale per il Regno Unito. Né la drammatica e umiliante fine della carriera di Theresa May, né il terremoto elettorale delle europee hanno risolto il dilemma della Brexit. Hanno solo reso più chiare le alternative.

I risultati delle elezioni europee

Una settimana decisiva per il Regno Unito. Né la drammatica e umiliante fine della carriera di Theresa May, né il terremoto elettorale delle europee hanno risolto il dilemma della Brexit, hanno solo reso più nitide le alternative.
Dopo le europee, sia i brexitisti sia gli europeisti cantano vittoria. Nigel Farage e i duellanti per la leadership dei tory strillano che gli elettori vogliono la Brexit. I promotori del secondo referendum sommano i voti dei partiti e si dichiarano in maggioranza.
Riassumo in modo schematico i risultati dei partiti, in ordine per voti ricevuti.
Il carisma di Nigel Farage gli permette di migliorare la già eccellente prestazione del 2014, passando dal 26,8 con l’Ukip al 31,7 per cento con il Brexit party, con il primo posto in Galles e in tutte le circoscrizioni inglesi tranne Londra, dove è terzo.
I Lib-Dem, in coma profondo dalla disfatta elettorale del 2015 che li portò da 57 a 8 deputati, si affermano come il secondo partito, passando dal 6,7 al 18,6 per cento dei voti e 16 eurodeputati.
Il Labour perde poco più di 10 punti percentuali, fermandosi al 14 per cento, con 10 seggi.
Anche i Verdi festeggiano, ottenendo 7 seggi e l’11,1 per cento dei voti.
Con l’8,7, i tory ottengono la più bassa percentuale di voti dalla nascita del partito, nel 1678, e sono ridotti a 4 eurodeputati.
Ukip, trasformato in un’accozzaglia di squadracce fasciste, finisce nel dimenticatoio, passando dal 26,8 al 3,6 per cento, e perde tutti i 24 rappresentanti che aveva a Strasburgo.
I nazionalisti scozzesi passano in Scozia dal 29 al 38 per cento, per un totale nazionale del 3,4 per cento e 3 seggi, uno solo meno dei tory.
Il nuovo partito formato da 11 deputati tory e laburisti pro-Ue, “Change-Uk” inciampa al primo ostacolo, fermandosi al 2,7 per cento.

Cambia il primo ministro

Asciugate le lacrime, Theresa May andrà a Buckingham palace per rassegnare le dimissioni il 7 giugno, subito dopo la visita di Donald Trump, degna conclusione del suo mandato a Downing Street.
Immediatamente dopo inizieranno le primarie per la scelta del suo successore. Con un voto a eliminazioni successive, i deputati sono chiamati a selezionare i due candidati da presentare ai membri del partito, cui spetta poi la decisione. Sembra non esserci dubbio che Boris Johnson vincerebbe a mani basse contro ciascuno degli altri aspiranti. D’altra parte, ha molti nemici in Parlamento, quindi, nonostante sia dato come favorito dai bookmaker, non è sicuro che verrà presentato ai membri del partito per la scelta finale: successe così all’ultima elezione, quando l’idea di un pagliaccio a Downing Street sembrò forse eccessiva. I deputati scelsero invece la religiosa, pacata e morale May, ligia al dovere, ma introversa, priva di carisma e di immaginazione, legnosa, senza capacità di motivare, inflessibile, rigida. Dopo l’entusiasmo dei primi giorni, il catastrofico esito di quella scelta potrebbe senz’altro convincere un numero sufficiente di deputati a optare per l’esatto opposto di May, sperando così di tenersi la poltrona.

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Johnson, come altri candidati, ha dichiarato che il 31 ottobre il Regno Unito lascerà la Ue con o senza accordo. Fa però i conti senza l’oste, impersonato in questo caso dalla sciagurata decisione di May di indire nel 2017 elezioni generali che hanno lasciato i tory senza maggioranza. Anche contando i voti degli unionisti irlandesi, basta che cinque o sei deputati tory siano disposti a seguire il ministro dell’Economia Philip Hammond, rischiare l’espulsione e votare insieme all’opposizione la sfiducia al governo per andare a nuove elezioni politiche. La promessa di Farage di presentare il suo Brexit party in tutti i collegi parlamentari implica che molti tory rischierebbero di perdere voti e dunque il seggio, se il paese andasse alle urne ancora come membro della Ue, analogamente a quanto è successo alle europee.

Ma rimane l’impasse

D’altra parte, non è chiaro a cosa possa condurre il cambio di primo ministro. È ovvio che per tornare a negoziare con la Ue, un nuovo governo dovrebbe ammorbidire le sue posizioni. Ma è altrettanto ovvio che per avere un briciolo di speranza di convincere la stampa brexitista e i faragisti duri, un nuovo governo dovrebbe irrigidire le sue posizioni: in questo momento non vedo proprio termini di un accordo accettabili sia al Daily Telegraph sia a Bruxelles. I candidati alla leadership dei tory sembrano avere l’illusione che la situazione attuale sia semplicemente dovuta all’incapacità negoziale di May: Dominic Raab, ex-ministro per la Brexit, sembra certo di poter convincere la Ue a essere più “equa” verso il Regno Unito; magari invitando Michel Barnier e Guy Verhofstadt per un caffè nella sua linda e raffinata cucina.

Intanto, nel Partito laburista, Jeremy Corbyn è sempre più isolato: nonostante le disastrose elezioni locali del 2 maggio, dove ha perso 6 province e 84 consiglieri rispetto a un già pessimo risultato nel 2014, nonostante la percentuale di voti ottenuti alle europee sia di gran lunga la più bassa in ogni elezione dal 1918, nonostante tutto il suo stato maggiore, i ministri ombra dell’Economia, degli Esteri, dell’Interno, quello per la Brexit e il vice-leader lo implorino di cambiare corso, Corbyn tergiversa imperterrito, fermo nella sua preferenza per la Brexit e continua a rifiutare un nuovo voto. Neanche qui vedo ancora una via d’uscita: ogni possibile opzione – accordo, uscita senza accordo, referendum, elezioni – è bloccata da almeno un gruppo con potere di veto.

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L’ambiguità dei laburisti e l’estremismo dei tory amplia lo spazio per i pro-europeisti: i Lib-Dem e Change-Uk stanno già considerano un patto elettorale. L’ammissione di Lord Heseltine, già ministro sotto Margaret Thatcher, di aver votato Lib-Dem, accusando il suo partito di tradimento di una generazione, quelle simili di Alastair Campbell, la fidata eminenza grigia di Tony Blair, e di George Osborne, ministro dell’Economia di David Cameron, potrebbero costituire una spallata decisiva contro la tragica coalizione di stampa di destra, gruppi di populisti disonesti e ingenui rappresentanti di una sinistra nostalgica.

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