La guerra dei dazi ha reso più difficili gli scambi internazionali. Ma restrizioni al commercio sono già state introdotte a partire dalla crisi del 2008. Ora il G20 di Osaka potrebbe essere l’occasione per riaffermare la logica multilaterale del Wto.

Avanzi e disavanzi Usa

Il 28 giugno, i massimi rappresentanti dei G20, cioè delle venti economie più grandi del mondo, si incontrano a Osaka per fare il punto della situazione del pianeta. Di questioni scottanti sul tavolo ce ne sono più del solito. Tra quelle economiche, c’è senza dubbio la cosiddetta “guerra dei dazi” (cioè delle tasse sulle importazioni) tra gli Stati Uniti e il resto del mondo.

Nella narrazione comune la guerra inizia il 2 marzo 2018 con un tweet del presidente americano Donald Trump (figura 1): “Quando un paese (gli Stati Uniti d’America) sta perdendo molti miliardi di dollari con virtualmente tutti i paesi con cui è in affari, le guerre commerciali sono buone e facili da vincere”.

Figura 1 – La “dichiarazione di guerra” (2 marzo 2018)

Il tweet fa riferimento al saldo negativo tra esportazioni e importazioni americane, che in valore assoluto nell’ultimo decennio non è mai stato inferiore ai 400 miliardi di dollari e, proprio nel 2018, tocca la cifra record di 600 miliardi (figura 2). Il risultato negativo nasce da un buon avanzo negli scambi di servizi con il resto del mondo e un molto più alto disavanzo negli scambi di beni.

Figura 2 – Avanzi e disavanzi commerciali degli Usa

Fonte: Statista

Dagli altri paesi gli Usa acquistano soprattutto beni in cambio di servizi, ma, poiché comprano più di quello che vendono, continuano a indebitarsi. E lo fanno soprattutto nei confronti della Cina: dal 2001, anno in cui i cinesi sono entrati nell’Organizzazione mondiale del commercio e hanno quindi potuto godere dell’accesso privilegiato ai mercati degli altri paesi membri, il disavanzo commerciale degli Stati Uniti nei confronti della sola Cina è passato in valore assoluto da circa 100 a più di 400 miliardi di dollari (figura 3).

In linea di principio, indebitarsi nei confronti dell’estero non dovrebbe essere considerato né un bene né un male. Che sia l’uno o l’altro dipende infatti da che cosa il paese debitore fa dei soldi altrui. Non è però questo il punto, perché per l’amministrazione Trump un notevole disavanzo commerciale non va bene e basta.

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Figura 3 – Disavanzo commerciale degli Usa con la Cina

Fonte: Bbc

La guerra dei dazi non è un’invenzione di Trump

A partire dal 2018, al tweet di Trump sono seguiti i fatti, come riportato nel Rapporto annuale di recente pubblicato dall’Omc. Quanto mette in evidenza è in linea con le dettagliate informazioni fornite dall’iniziativa “Global trade alert” (Gta) dell’università di San Gallo. L’ultimo rapporto della Gta mostra che, tra dazi introdotti o minacciati sulle importazioni cinesi, a fine maggio 2019 circa l’87 per cento dei flussi di commercio dalla Cina verso gli Stati Uniti è diventato soggetto a qualche tipo di restrizione. In realtà, più o meno lo stesso valeva già nel 2018. Viceversa, per rappresaglia, circa il 91 per cento dei flussi commerciali dagli Stati Uniti alla Cina subisce oggi un simile trattamento restrittivo.

Se si guarda indietro nel tempo, si notano però due aspetti importanti. Il primo è ovvio: la guerra dei dazi ha effettivamente reso gli scambi internazionali più difficili. Il secondo è meno ovvio rispetto alla narrazione comune: anche prima della guerra dei dazi, di restrizioni al commercio ne erano già state introdotte parecchie, soprattutto a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008, e anche sotto l’amministrazione Obama. In altre parole, il ritorno al protezionismo non è un’invenzione di Donald Trump.

Non solo la guerra dei dazi non è un’invenzione di Trump, ma a ben guardare ha molto meno a che fare con i dazi di quello che si crede. Per quanto riguarda le grandi misure protezionistiche (“jumbo mesaure”) introdotte dai vari paesi dopo la crisi (figura 4), tra quelle “meno grandi” (che riguardano valori di commercio tra i 10 e 100 miliardi di dollari) i dazi pesano per circa il 20 per cento. Ma circa il 20 per cento è anche il peso dei sussidi alle imprese nazionali che competono con le importazioni dall’estero, mentre circa il 30 per cento è il peso degli interventi di sostegno all’export, tra cui i sussidi alle imprese esportatrici. Nel caso delle misure protezionistiche “più grandi” (che riguardano valori di commercio superiori ai 100 miliardi di dollari), il peso di quelle a sostegno degli esportatori è addirittura l’85 per cento, mentre dazi e sussidi alle attività che subiscono la concorrenza delle importazioni pesano entrambi solo circa il 5 per cento. Sono quindi i vari interventi di “doping” dei paesi a vantaggio dei propri esportatori a fare la parte del leone negli attuali conflitti commerciali globali. Il più importante ritorno al protezionismo da parte degli Stati Uniti dalla grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso è motivato dalla convinzione che gli altri paesi (e soprattutto la Cina) mettano in atto politiche di sostegno delle proprie imprese che falsano la libera concorrenza nei mercati globali.

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Figura 4 – La “guerra dei dazi” si combatte con i sussidi

Nota: “A” si riferisce agli standard sanitari, “D” alle misure di protezione contingenti, “E” alle licenze non automatiche e alle quote, “F” alle misure di controllo dei prezzi, “G” alle misure finanziarie, “I” alle misure sugli investimenti connessi al commercio, “L” ai sussidi (esclusi quelli alle esportazioni), “M” alle misure collegate agli appalti pubblici, “P” ai sussidi e incentivi alle esportazioni, “X” agli altri strumenti e “Tariff” ai dazi alle importazioni.
Fonte: Global trade alert

Il termine “guerra” è a sua volta fuorviante, perché dà l’impressione che alla fine qualcuno possa uscirne vincitore. In realtà una guerra commerciale è più simile a uno scontro frontale tra automobilisti: tutti si fanno male, soltanto qualche fortunato un po’ meno degli altri. Diversamente da quelle di Barack Obama, anche nella retorica le misure di Trump sfidano apertamente la logica cooperativa delle regole del commercio internazionale incarnate dall’Organizzazione mondiale del commercio, minandone la funzione di meccanismo condiviso di risoluzione delle dispute tra stati membri. In questo senso, Osaka può rappresentare un’importante occasione per riaffermare la logica multilaterale del meccanismo, evitando di ripetere gli errori che negli anni Trenta hanno aggravato e allungato gli effetti negativi della grande depressione.
Se servirà soltanto ad attenuare i toni dello scontro tra Usa e Cina (un grande “se”), sarà un’occasione persa.

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