A quasi due anni dall’esplosione delle primavere arabe, solo l’Egitto, la Libia e soprattutto la Tunisia hanno realizzato significativi progressi in termini di libertà politiche e civili. Miglioramenti più marginali si sono avuti in Giordania e Marocco. Tutti gli altri paesi del Golfo, eccetto Oman e Kuwait, hanno visto ridursi le libertà. I regimi monarchici sono più stabili delle repubbliche e negli Stati ricchi di materie prime non agricole l’evoluzione democratica è quasi nulla. Scarso rispetto dei diritti politici e civili nelle democrazie uscite da guerre civili cruente.

A quasi due anni dall’esplosione delle primavere arabe è giunto il momento di trarre un primo, non facile, bilancio. Un’immagine d’insieme ci è data dal grafico recentemente pubblicato da Freedom House (figura 1). (1)Mostra come, fra i paesi Mena (Middle East and Nord Africa), solo l’Egitto, la Libia e soprattutto la Tunisia hanno realizzato significativi progressi in termini di libertà politiche e civili, giacché sono riusciti ad abbattere i precedenti regimi, hanno tenuto libere elezioni, verificate da osservatori internazionali, e stanno riscrivendo le loro costituzioni. Progressi più marginali sono stati compiuti dalle monarchie non petrolifere della regione, Giordania e Marocco, che hanno varato blande riforme istituzionale. Tutti gli altri paesi del Golfo, con l’eccezione dell’Oman e del Kuwait, hanno, invece, visto ridursi le libertà o lievemente o addirittura pesantemente, come nel Bahrain, nello Yemen e in Siria, che per altro già partiva da una situazione particolarmente negativa.

Figura 1. Variazione degli indici di liberta dei paesi Mena fra il 2011 ed il 2012

REGOLE CONFERMATE

Nel complesso i paesi Mena sono comunque rimasti molto indietro rispetto a tutte le altre regioni del mondo sia in termini di percentuale della popolazione che vive in paesi privi di libertà (oltre l’80 per cento), che in termini di percentuali di nazioni che possono definirsi non libere (oltre il 70 per cento). Per la verità l’unico paese della regione che può fregiarsi dell’aggettivo libero continua a essere Israele, che però presenta caratteristiche del tutto peculiari, mentre sono classificati parzialmente liberi solo il Libano, il Kuwait, il Marocco e da quest’anno, per la prima volta, anche la Tunisia (vedi grafico 2). In altri termini i paesi arabi rimangono un’assoluta anomalia nel panorama internazionale, specialmente dopo quella che Samuel P. Huntington definì “la terza ondata di democratizzazione”, che all’inizio degli anni Novanta portò la libertà in numerosi paesi che allora venivano chiamati “secondo” e “terzo mondo”.

Figura 2. Percentuale degli Stati e della popolazioni non liberi divisi per aree geografiche

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Le rivoluzioni arabe hanno per altro confermato tre regolarità che la letteratura economico-politica aveva già messo in luce. Primo, le monarchie registrano una percentuale di “rivoluzioni” nettamente inferiore a quella osservata nei paesi repubblicani e presentano regimi molto più stabili. (2) Infatti, i regimi monarchici riescono a creare una migliore cultura politica che favorisce il consenso e rassicura le élite; a coordinare meglio gli interessi delle principali famiglie ed etnie; a utilizzare la religione come elemento di legittimazione. A questo proposito ricordiamo come i sovrani del Marocco e della Giordania sostengono di essere discendenti del Profeta (Sharifs), mentre quelli dell’Arabia Saudita si fregiano del titolo di custodi dei luoghi sacri.
Secondo, gli stati ricchi di materie prime non agricole si dimostrano particolarmente restii a evolvere in senso democratico. (3) Infatti, questi paesi tendono ad avere un basso, se non nullo livello di tassazione, che non autorizza i loro cittadini a pretendere troppo dai governanti in base al principio “no taxation without representation”; un alto livello di spesa pubblica, sovvenzioni e sussidi che anestetizzano la popolazione; una spropositata spesa per la difesa e la sicurezza che permette uno stretto controllo del territorio; un’ampia tendenza ad aiutarsi reciprocamente; una forte concentrazione della ricchezza. A questo proposito basta ricordare che ogni cittadino del Bahrain si è visto accreditare 4mila dollari sul proprio conto corrente nelle prime settimane della rivolta, l’Arabia Saudita ha subito stanziato 130 miliardi di dollari in opere pubbliche e sussidi e aiutato finanziariamente la Giordania e il Marocco (5 miliardi di dollari). Inoltre, sotto le bandiere del Gulf Cooperation Council, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono intervenuti militarmente in Bahrain per sedare le rivolte, hanno offerto alla Giordania e al Marocco di entrare nel Gcc e stanno proponendo la creazione di unostato sovranazionale unitario o una confederazione in tutti i paesi del Golfo in modo da controllare meglio ogni possibile rivoluzione.
Terzo, le democrazie che escono da guerre civili cruente, specie di natura etnico-culturali, sono mediamente meno rispettose dei diritti politici e civili di quelle che nascono da rivolte pacifiche. (4) Questo è ciò che si è osservato in Iraq, preoccupa in Libia e soprattutto in Siria, dove nessuno dovrebbe avvalorare la tesi del “tanto peggio tanto meglio” o “lasciamo che si ammazzino tra loro”. Il terrorismo e la violenza sono merci troppo facilmente esportabili.
IL CASO EGITTO
Un’ultima considerazione merita la situazione egiziana, da sempre uno dei paesi guida della regione con i suoi ottanta milioni di abitanti e una delle scuole sunnite più prestigiose (AL-Azahar). In un clima istituzionale ancora confuso, le elezioni presidenziali dello scorso giugno hanno visto prevalere il candidato del partito Libertà e Giustizia (braccio politico della Fratellanza Musulmana) Mohamed Morsi, eletto con poco più del 50 per cento, ma anche una forte presenza salafista e un deludente risultato delle forze laiche e moderate troppo frammentate. Una speciale commissione sta riscrivendo la costituzione che un referendum dovrà ratificare, fra le numerose polemiche per la scarsa presenza delle rappresentanze laiche e copte. Poi si dovrebbe rieleggere il parlamento, che è stato sciolto la scorsa primavera dalla Corte costituzionale, pochi mesi dopo la sua elezione.
Dopo i primi mesi in carica, Morsi viene giudicato persona onesta con buone intenzioni. Ma l’opposizione gli rimprovera il fatto che nel suo gabinetto non vi siano laici o copti, che ha azzerato i vertici militari e messo al loro posto persone a lui vicine e soprattutto asservito l’informazione ufficiale. Tuttavia gli si riconosce anche un forte pragmatismo in politica estera ed economica. Infatti ha saputo tenere buoni rapporti con gli Stati Uniti, ma anche con la Cina e i paesi del Golfo. Sta tentando di riprendere il controllo del Sinai in mano a bande terroristiche estremamente violente e non ha rotto gli accordi con Israele. Vuole accettare gli aiuti internazionali e in particolare quelli americani (i salafisti no), aprirsi agli investimenti esteri, liberalizzare l’economia e abolire i sussidi che stanno dilaniando il bilancio pubblico. Dal successo di queste iniziative dipenderà non solo gran parte del futuro dell’Egitto, ma anche della democrazia nell’intera regione.
(1) Freedom House (2012) “Freedom in the World 2012”.
(2) Victor Menaldo, 2011“The Middle East and North Africa’s Resilient Monarchs”, University of Washington Working Papers.
(3) Samuel P. Huntington, The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century (Norman:University of Oklahoma Press, 1991); Ross, Michael. 2009. “Oil and Democracy Revisited.” UCLA; Barro, Robert, (1999), “Determinants of Democracy,” Journal of Political Economy, 107(6), 158-183.
(4) Matteo Cervellati, Piergiuseppe Fortunato e Uwe Sunde, 2011, “Democratization and Civil Liberties: The Role of Violence During the Transition” IZA DP No. 5555

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