Le condizioni di “uscita” dei concessionari di autostrade, aeroporti e terminal portuali sono una giungla che andrebbe dipanata. Le soluzioni dovrebbero permettere di evitare ingiustificati arricchimenti sia del concessionario sia del concedente.

Una giungla da dipanare

La revocabilità della concessione ad Autostrade per l’Italia è già stata discussa su lavoce.info da Angela Bergantino e Diego Piacentino. Vorrei qui soffermarmi invece sul tema delle condizioni di “uscita” dei concessionari.

Nelle autostrade, aeroporti e terminal portuali vi è una giungla che andrebbe dipanata, dove queste condizioni cambiano da settore a settore e da caso a caso. In particolare, nelle convenzioni autostradali e aeroportuali si rinvengono le condizioni più disparate: dall’applicazione tranchant del metodo reddituale a quello patrimoniale e infine all’esclusione di qualsiasi indennizzo, nemmeno per opere e spese sostenute.

Razionalità ed equità vorrebbero invece che venissero fissati criteri uniformi per situazioni omogenee. Sono due le metodologie per stabilire l’indennizzo: patrimoniale o reddituale (o un misto delle due). Schematicamente, la prima si basa sul valore residuo delle immobilizzazioni autofinanziate, la seconda sul cash flow atteso, attualizzato e al netto dell’indebitamento finanziario, dal momento dell’uscita a quello della conclusione naturale della concessione, ossia la redditività prospettica.

Va da sé che alla scadenza naturale della concessione il criterio da impiegare è esclusivamente patrimoniale, posto che il gestore uscente non può pretendere un indennizzo aggiuntivo per una redditività che, oltrepassando l’orizzonte della convenzione, non gli spetta.

Quando l’interruzione è anticipata

Più complesso e controverso è il caso di anticipata interruzione della concessione (per il momento quale che ne sia la causa), dove al gestore uscente viene meno il cash flow atteso fino alla scadenza naturale, con il conseguente trasferimento di esso al concedente che potrà capitalizzarlo a carico del concessionario subentrante. È qui che si trova la giungla.

L’impostazione da seguire dovrebbe mirare a evitare ingiustificati arricchimenti sia del concessionario sia del concedente e basarsi sull’applicazione di criteri omogenei fra le condizioni di uscita del gestore e quelle realizzate al momento della sua entrata. Possiamo schematicamente distinguere due casi.

Il primo è quello in cui l’affidamento della concessione o la privatizzazione di una società concessionaria abbiano seguito procedure a evidenza pubblica, dove è ragionevole assumere che il prezzo di entrata sia stato fissato tenendo conto delle prospettive di redditività per l’intera durata della concessione. Simmetricamente andrebbe calcolato – dunque su base reddituale – il valore residuo della concessione in caso di interruzione anticipata (per il momento seguitando a prescindere dalle cause): ossia il valore a cui il concessionario uscente rinuncia e trasferisce al concedente.

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Il secondo è il caso in cui l’affidamento sia stato conferito senza il pagamento di un prezzo oppure per un prezzo calcolato unicamente su base patrimoniale. Simmetricamente, il gestore uscente dovrebbe essere indennizzato solo per il valore residuo delle immobilizzazioni acquisite a suo tempo o realizzate a suo carico nel corso della concessione.

Veniamo ora alle cause dell’anticipata interruzione della concessione: in sintesi, la risoluzione del contratto per responsabilità del concessionario oppure per responsabilità del concedente o comunque per sua decisione non imputabile a inadempimento del primo.

Di base, i criteri indicati sopra andrebbero comunque mantenuti, ma in caso di revoca per inadempimento del concessionario, oltre al risarcimento del danno emergente, il valore reddituale residuo della concessione (oppure il valore residuo delle immobilizzazioni, nel secondo caso menzionato) andrebbe decurtato, a titolo di sanzione, di una quota aggiuntiva proporzionata alla gravità dell’inadempimento.

Detto per inciso, al di là della base giuridica che sembra alquanto debole, trovo ingiustificatamente punitivo il proposito di cui si discute oggi di azzeramento, in caso di decadenza, di vigenti clausole contrattuali che prevedono l’applicazione del criterio reddituale: in sostanza la “confisca” a prezzo zero per il concedente, che così sommerebbe al prezzo di entrata all’epoca incassato il valore terminale della concessione.

Va da sé che, per quanto complesso, per contenere il rischio di controversie, andrebbero fissati in anticipo, nelle convenzioni, i criteri di determinazione della sanzione in relazione alla gravità dell’inadempimento. Quest’ultima si riflette nell’entità del danno emergente – per il concedente e più in generale per la collettività (in questo caso non necessariamente solo economico) – che appare comunque meno difficile da quantificare e dunque sembrerebbe ragionevole proporzionare a questo la sanzione. Figuratamente: al concedente il risarcimento del danno, “alla collettività” la sanzione.

Vi è però un altro aspetto da chiarire, che riguarda le assunzioni a base della stima del lucro cessante, se dovuto, e che prescinde dalle cause di interruzione anticipata del rapporto. Si hanno due opzioni estreme al riguardo. Con la prima (“opzione massima”), la redditività cessante verrebbe stimata in base a quella consuntivata nel periodo precedente, tenendo conto del regime regolatorio pattuito dalla convenzione e da sue successive modifiche, ed eventualmente aggiustata per il trend. Per la seconda (“opzione minima”) la redditività attesa è quella “incorporata” nel prezzo di entrata a suo tempo pagato, cosicché al concessionario uscente è dovuto il valore residuo di quel prezzo, rivalutato sulla base di un appropriato indice dei prezzi, ma abbattuto dell’ammortamento finanziario “maturato” fino alla interruzione, a cui andrebbe aggiunto il valore residuo dei beni reversibili realizzati a suo carico, l’investimento nei quali non era previsto al momento della stipula della convenzione. Fra i due estremi vi possono essere numerose varianti, difficili da sistematizzare a priori nelle convenzioni e che potranno essere, di caso in caso, oggetto di negoziazione. Tuttavia, individuare fin dall’inizio una “forchetta” di soluzioni gioverebbe alla trasparenza. Resta il principio richiamato all’inizio: ricercare soluzioni che non si risolvano in ingiustificati arricchimenti per nessuna delle due parti e che non abbiano il sapore di regalie oppure di pene esemplari che (da Cesare Beccaria in poi) si spera siano state bandite.

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