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Cina, la lenta marcia delle riforme

La prossima tappa del processo di riforma in Cina dovrebbe essere la liberalizzazione delle banche. Per venire incontro alle esigenze di piccole imprese e famiglie, che finora con i lori risparmi hanno sussidiato la grande industria pubblica e gli enti locali. Ma resta ancora molto da fare.

COSA RESTA DA FARE

Il congresso del Partito comunista cinese dello scorso autunno ha riacceso gli interrogativi sulla possibile evoluzione delle riforme finanziarie in Cina. Si pensa, in primo luogo, agli effetti che potranno comportare a livello internazionale. Ma le riforme rappresentano una grande opportunità di sviluppo, non solo economico, soprattutto per le imprese e la stessa popolazione cinese.
Finora le autorità centrali cinesi hanno concentrato la loro attenzione sulla stabilità del sistema finanziario, quindi sul capitale, e sulle metodologie di risk management. Gli interventi più recenti – fra cui la parziale liberalizzazione dei tassi di interesse, l’apertura ai privati degli investimenti nei settori tipicamente monopolistici (energia, trasporti, eccetera), nonché la creazione di un mercato obbligazionario high yield – sono stati modesti: molto resta ancora da fare ed è ragionevole attendersi che passi ulteriori siano attuati, ma con estrema gradualità. Potranno portare a una completa apertura e all’allineamento agli standard internazionali in ambito finanziario solo nel medio-lungo periodo.

BANCHE DA PRIVATIZZARE

Il primo passo è dato dalla privatizzazione delle grandi banche pubbliche. Mentre nei paesi europei le privatizzazioni sono state fatte soprattutto per la necessità degli Stati di raccogliere risorse, in Cina l’obiettivo sarebbe piuttosto quello di favorire un maggiore orientamento al mercato, quindi un’offerta più ampia ed efficiente alla clientela, imprese e famiglie.
Le maggiori quattro banche (Industrial and Commercial Bank of China, Bank of China, China Commercial Bank e Agricultural Bank of China), pubbliche, coprono ben il 50 per cento del totale attivo (Ta). Il loro sviluppo è stato rapido, tanto che hanno già raggiunto le più elevate posizioni in termini sia di Ta sia di capitale (secondo la classifica di TheBanker): ad esempio, Icbc era a fine 2011 la terza maggiore banca mondiale.
I principali indicatori sintetici sul grado di sviluppo delle banche – Ta/Pil, crediti/Pil e depositi/Pil – sono molto elevati in Cina, anche rispetto a molti paesi maturi: sono pari rispettivamente a 240 per cento, 125 per cento e 180per cento, mentre in Italia, ad esempio, gli stessi dati sono pari a 220per cento, 100 per cento e 60 per cento. Ciò può far pensare che le banche in Cina abbiano seguito adeguatamente lo sviluppo economico del paese. In realtà, da un esame più approfondito sull’utilizzo di prodotti bancari di imprese e famiglie e sul tasso di risparmio (e quindi sul reddito disponibile), nonché sul grado di innovazione e quindi sulla disponibilità di strumenti finanziari, emerge che rimangono ulteriori ampi spazi di crescita, specie appunto nel comparto retail e Pmi.
Se le riforme si realizzeranno, ciò sarà in primo luogo a vantaggio della clientela – delle imprese piccole e medie, non le maggiori – e delle famiglie. Finora, infatti, questi segmenti hanno sussidiato ampiamente il settore pubblico, le banche e le imprese pubbliche, innanzitutto, pagando tassi di interesse elevati. Anche la recente liberalizzazione dei tassi bancari è stata attuata ponendo un limite superiore ai tassi sui depositi e sugli impieghi. Si tratta di un provvedimento chiaramente a tutela delle banche, perché limita la concorrenza permettendo così agli istituti di contare su un ampio margine di interesse, mentre la clientela avrebbe interesse al contrario.
La clientela cinese risulterà avvantaggiata dalle riforme anche per la maggiore disponibilità di risorse che si libereranno. Attualmente infatti le Pmi, che rappresentano ben l’80 per cento del Pil nazionale, raccolgono solo un quinto degli impieghi bancari. Ed è da tempo che alle banche cinesi si muove la grave accusa di finanziare soprattutto le grandi imprese pubbliche e gli enti locali, direttamente o tramite l’acquisto di titoli pubblici, generando così consistenti inefficienze allocative.

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I RISCHI DEL DISORDINE FINANZIARIO

La riforma finanziaria potrebbe portare inoltre a un più ordinato e controllato sviluppo della finanza nel paese. L’attuale “disordine” finanziario in Cina è evidenziato dal fiorente affermarsi di intermediari non bancari e dello shadow banking, cioè dell’attività che ha di fatto natura bancaria, ma non è sottoposta a vigilanza e ad autorizzazione. Il fenomeno assume una dimensione significativa, specie nel comparto mutui, che ha registrato negli ultimi anni una crescita esponenziale, portando all’aumento dei prezzi delle case. Molte crisi finanziarie sono nate proprio da squilibri generati in questo settore e quindi i timori di una bolla speculativa appaiono più che mai fondati.
Un altro ambito dove emergono distorsioni nella gestione bancaria è la rapida diffusione di strumenti di wealth management, ossia di strumenti legati al repackaging di prodotti di securitisation, che vengono utilizzati dalle banche come strumenti di raccolta, a fianco dei depositi, il cui ammontare in circolazione ha raggiunto circa il 10 per cento di questi ultimi.
Un ulteriore elemento di criticità emerge dal livello del cost-income ratio, l’indice che rapporta i costi operativi ai ricavi. Nelle maggiori banche cinesi è il più basso a livello mondiale, attorno al 30 per cento nel 2011, mentre nei più importanti gruppi bancari europei si colloca sopra il 62 per cento. Poiché nelle banche la maggior parte dei costi è rappresentato da salari e stipendi, evidentemente quelle cinesi possono sostenere dei costi comparabilmente inferiori nel confronto internazionale. Anche sotto questo profilo, pertanto, una crescente apertura/concorrenza potrebbe favorire un aumento dell’indice, quindi ragionevolmente salari più “equi”.
Una maggiore concorrenza potrà comportare un calo della redditività, a vantaggio però della clientela che potrà pagare minori costi per interessi e commissioni o ricevere tassi più alti sui depositi: la redditività delle più grandi banche pubbliche è attualmente fra le più elevate al mondo, con il Roe oltre il 22 per cento e il Roa pari all’1,4 per cento nel 2011, contro ad esempio un Roe del +5,5 per cento nei cinque maggiori paesi europei.
Cosa rimane da fare e cosa è più urgente ora? Sviluppi sulla governance, innanzitutto con l’apertura agli investitori privati, nazionali ed esteri, dovrebbero essere continui seppur lenti. Oltre all’urgenza di disciplinare nuovi strumenti previdenziali, emerge la necessità di favorire lo sviluppo di più sofisticati mercati dei capitali – compreso un mercato dei bond degli enti locali – e di offrire un sistema di garanzia dei depositi.
Le riforme finanziarie in Cina però dovranno essere accompagnate da altre, ben più ampie, in tutti i settori economici e politici del paese; e, prima ancora, in ambito sociale e della libertà personale. Purtroppo, è opinione di molti analisti politici che i nuovi leader rappresentino una forte continuità con il passato e che non ci siano elementi per ritenere probabile una accelerazione delle riforme economiche e politiche, almeno nel breve periodo.

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  1. marco

    Mi sembra poco fondato dal punto di vista storico il presupposto sul quale è costruito l’articolo ovvero che per migliorare le sue perfomance economico- finanziarie la Cina debba evolversi nella direzione dei nostri sistemi europei- Penso sia vero infatti esattamente il contrario ovvero siamo noi che abbiamo sbagliato mettendo i mercati al di sopra dello stato togliendo regole certe che ne bloccassero le degenerazioni in nome della globalizzazione e che dovremmo quindi un po’ “cinesissarci”- Probabilmente la Cina è riuscita a salvarsi dai crolli delle tigri asiatiche degli anni passati proprio per la sua impermeabilità finanziaria all’afflusso dei capitali esteri e grazie al controllo esercitato su quest’ultimi, oltre che grazie alla non convertibilità della moneta sovrana – Ci manca solo che anche la Cina ci causi qualche bella crisi economica! Penso invece che la Cina dovrebbe puntare sullo sviluppo del mercato interno, sul modello statunitense piuttosto che continuare a insistere sull’attuale modello basato sulle esportazioni.

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