Promuovere l’accesso ai servizi per l’infanzia è una buona ricetta per sostenere la fecondità e l’occupazione femminile. Ma non deve essere solo una misura contro la povertà, bensì un autentico sostegno alla natalità e alla crescita solida del paese.
Misure strutturali contro l’emergenza demografica
Di emergenza demografica in Italia si parla ormai da diversi anni. Dal 2010, l’Istat registra un’accentuazione del calo delle nascite nel nostro paese, con un tasso di fecondità sceso da 1,46 nel 2010 a 1,32 nel 2017. Si calcola che nel 2016 il 45 per cento delle donne di età compresa fra i 18 e i 49 anni non avesse ancora avuto il primo figlio, percentuale che si aggira intorno al 22 per cento fra le attuali 40-49enni.
In particolare, le difficoltà legate alla continuità di reddito e all’accesso alla casa hanno fatto crollare la fecondità degli under 30 su valori tra i più bassi in Europa. L’età tardiva del primo figlio e l’eccesso di complicazioni nella conciliazione tra famiglia e lavoro frenano poi la possibilità di andare oltre.
Lo squilibrio demografico (sempre più anziani e sempre meno giovani) che ne deriva equivale a un lento terremoto con notevoli costi economici e sociali, destinati ad aggravarsi nel tempo.
Per il loro legame con l’autonomia dei giovani, l’occupazione femminile e lo sviluppo umano a partire dall’infanzia, le politiche familiari vanno considerate come parte delle politiche di sviluppo di un territorio, non come misure marginali. Serve quindi un’azione sistematica, con politiche solide, strutturate, coerenti e mirate – non qualche toppa qua e là con risorse molto limitate – se non vogliamo che il quadro peggiori ulteriormente condannandoci a un declino irreversibile.
Sia in Europa che all’interno del nostro paese, la geografia dei servizi per l’infanzia (nidi in primo luogo) risulta sempre più sovrapposta, in modo combinato, a quella della fecondità e dell’occupazione femminile. Le carenze su tali servizi portano le donne con figli a rinunciare al lavoro e quelle che lavorano a rinunciare ad avere figli. Nella fascia 25-49 anni il tasso di occupazione femminile è superiore all’80 per cento per le single e scende di 25 punti percentuali (su livelli tra i più bassi in Europa) per le madri.
I confronti internazionali mostrano che nel 2017, in Italia, nella fascia d’età 0-2 anni solo un bambino su quattro ha avuto accesso ai servizi per l’infanzia, mentre in Europa il valore è di uno su tre (in alcuni paesi, tra cui Francia e paesi nordici, si va oltre il 50 per cento).
Problema di accessibilità oltreché di costi
I dati Istat più recenti (Statistiche report, 21 marzo 2019) sull’uso dei servizi per l’infanzia non indicano una convergenza verso la media europea. Né si intravede una riduzione dell’eterogeneità sul territorio italiano: i bambini di età 0-2 anni che frequentano un nido o i servizi integrativi sono meno dell’8 per cento in Campania, mentre sono oltre il 40 per cento in Valle d’Aosta. In più, dal 2012 si registra una diminuzione sia degli iscritti ai nidi comunali e convenzionati, sia delle risorse pubbliche disponibili. Sono invece cresciuti i costi a carico dei genitori sul totale della spesa corrente dei comuni. In modo corrispondente, è cresciuta la sensibilità delle famiglie sul fronte della qualità e dei costi.
Dobbiamo tenere presente, poi, che le difficoltà di accesso ai servizi di cura vanno al di là dell’aspetto economico. Mentre per i redditi più bassi il nido pubblico in Italia è già pressoché gratuito, esiste una fascia di popolazione che, indipendentemente dal reddito, non ha disponibilità di servizi pubblici o privati per l’infanzia sul territorio. In altri casi, invece, c’è il problema della scarsa flessibilità degli orari dei nidi che non combaciano con quelli “atipici” del lavoro dei genitori. Migliorare l’effettiva accessibilità significa intervenire sinergicamente su tutti questi aspetti (copertura, costi, orari e qualità, con particolare attenzione alle aree più svantaggiate).
Gestire processi, non solo erogare servizi
Oltre al potenziamento dell’offerta di posti, per rilanciare i nidi serve quindi la capacità di mettersi in sintonia con la domanda eterogenea e in mutamento espressa dalle famiglie, rendendoli realmente accessibili a tutti. Va rafforzato il rapporto di fiducia garantendo livelli di qualità di base su tutto il territorio italiano, sull’offerta sia pubblica che privata.
È però necessario anche un cambiamento di prospettiva, perché i nidi siano considerati non un servizio opzionale, ma come “diritto di ogni bambino” di poter accedere a una proposta educativa di qualità fin dall’infanzia, in qualsiasi famiglia nasca.
Per risollevare la persistentemente bassa fecondità italiana non basta una singola misura. Va messo in atto un sistema di strumenti che si adattano alle diverse e mutevoli esigenze delle famiglie e della qualità dello sviluppo umano a partire dall’infanzia. Vanno disegnate e realizzate misure coerenti con le specificità, anche culturali, del territorio. Le misure vanno poi monitorate e, nel realizzarle, va prevista la valutazione del loro impatto per migliorarne continuamente l’efficacia: devono essere considerate non in modo statico, ma come processi che incidono su una realtà in continuo mutamento.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
enrico
Quindi eliminare la spesa standard come criterio di ripartizione delle risorse.
Beatrice
In comment solo parzialmente legato all’articolo, ma che forse suggerisce a La Voce un’ipotesi da verificare: raramente (meglio: mai) l’inverno demografico italiano viene considerato in relazione all’emigrazione. Se, come si dice in in altro post, il 76% degli italiani che sono emigrati di recente sono in eta’ di formare una famiglia, ai 120k emigrati (ufficialmente) solo nel 2018 vanno aggiunte, in termini di “danno” demografico, anche tutte le potenziali nascite che non avverranno in Italia. E questo succede da dieci anni almeno. Insomma, l’Italia esporta non sono cervelli e contribuenti, ma anche (potenziali) bambini. Sarebbe interessante stimare in maniera seria l’effetto cumulativo di anni di emigrazione di italiani in eta’ fertile. Magari ci pensera’ qualcuno de La Voce?
Adele
Per esperienza diretta, i nidi comunale (e convenzionati) sono pochi, se poi andiamo a vedere la fascia dei lattanti (3-13 mesi) i posti si riducono al lumicino. A questo punto chi non riesce ad entrare in un comunale (con rette abbordabili) deve rivolgersi al privato dove i costi sono altissimi e i posti sono comunque pochi. per fare un esempio io guadagno netti 1.000,00€ al mese, il nido privato costa costa 800,00€ al mese, e non è nemmeno il più costoso. A questo bisogna aggiungere il mutuo. Con questo esempio pratico si può capire come molto spesso le donne “decidano” di restare a casa. Io ho fatto la scelta, in questo supportata dal mio compagno, di stringere i denti e tirare la cinghia ma continuare a lavorare.
Il fatto puro e semplice è che in Italia non ci sono politiche vere per la famiglia, altrimenti, invece di buttare soldi con bonus che non arrivano a tutti e non risolvono il problema, si investirebbe in più strutture, dai nidi fino alle elementari a tempo pieno. In fondo le tasse le paghiamo per avere dei servizi, solo che questi servizi non ci sono e quei pochi posti disponibili se li prende il furbetto di turno. E io pago.