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Quando le tasse diventano un tabù

In Italia si parla di tasse solo per dire che vanno tagliate per tutti, sempre e comunque. Ridurre gradualmente la pressione fiscale è un obiettivo ragionevole. Ma la ricerca del consenso impedisce una necessaria riforma complessiva del sistema tributario.

Tasse e consenso

Il surreale dibattito sulle tasse che ha seguito la presentazione della Nadef (Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza) pone interrogativi preoccupanti, che vanno ben al di là della legge di bilancio per il 2020. È solo un problema di politici demagogici alla ricerca di consensi immediati o è proprio vero che ogni riflessione razionale sul sistema tributario in Italia sia ormai diventata impossibile? Davvero, in termini di consenso, affermare che le aliquote Iva non si toccano mai e in nessun caso paga di più della affermazione opposta che, per esempio, si può aumentare l’Iva su alcuni beni per finanziare la riduzione del deficit o delle tasse su altri beni o cespiti?

Naturalmente, l’obiettivo di diminuire gradualmente la pressione fiscale in un quadro di controllo rigoroso dei conti pubblici è più che ragionevole, e i costi e i benefici di ogni intervento sul sistema tributario devono essere sempre attentamente calcolati. Ma qui sembra che ormai nessun politico possa permettersi di menzionare in pubblico una qualunque tassa, si tratti dell’Irpef, dell’Iva o di quella sulle merendine, senza aggiungere immediatamente che non può essere aumentata ma anzi deve essere tagliata. Solo misteriosi interventi su basi imponibili incomprensibili, tipo l’indeducibilità degli interessi passivi per le odiate banche, sono politicamente accettabili, alimentando l’illusione le più alte tasse sulle istituzioni finanziarie non siano poi comunque alla lunga trasferite sulla clientela.

Ma se il terrore di perdere consenso nell’immediato vincola ogni possibilità d’azione della politica sul sistema tributario, cosicché di tasse si può parlare solo per ridurle, i costi per l’efficienza del sistema sono pesantissimi. Per esempio, nonostante decenni di discussione, non riusciamo a rivedere il catasto, benché sia ovviamente del tutto obsoleto e iniquo, perché una volta rivisto qualcuno pagherebbe certamente di più, anche se qualcun altro pagherebbe di meno. Non riusciamo ad agire sul sistema di deduzioni e detrazioni, nemmeno quelle più assurde e controproducenti sul piano economico, perché le categorie interessate le difendono a tutti i costi e c’è sempre qualche politico disposto a farsene carico per ottenerne il consenso. Non possiamo rivedere la struttura delle aliquote dell’Iva, nonostante ci siano ovvie assurdità nella definizione dei beni e servizi soggetti alle diverse aliquote, perché qualcuno ci rimetterebbe anche se qualcun altro ci guadagnerebbe e così via.

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Ma il sistema tributario va riformato

Il problema è ancora più serio perché, al contrario, il sistema tributario italiano richiederebbe un’urgente riforma complessiva. Da una parte, gli interventi disparati che si sono susseguiti nel corso degli anni ne hanno distrutto ogni residua razionalità. Per esempio, l’Irpef, in teoria un’imposta progressiva su tutti i redditi, a forza di sottrarvi cespiti vari per accontentare le varie clientele, è diventata un’imposta sui soli redditi da lavoro, e di fatto, per la diffusa evasione degli altri redditi, un’imposta sui soli redditi da lavoro dipendente e assimilati. È difficile giustificare la forte progressività esistente su una base imponibile così ridotta. Dall’altro, modifiche strutturali nel funzionamento dell’economia hanno cambiato radicalmente lo scenario sulla cui base il sistema tributario era stato inizialmente ideato. In Italia come altrove, si è ridotta la quota dei redditi da lavoro sul totale dei redditi, il che rende difficile sostenere un sistema di welfare che si finanzi prevalentemente con i contributi sociali. Per non parlare della globalizzazione, della crescente separazione tra il momento della produzione e del consumo, delle pratiche elusive delle imprese multinazionali, delle nuove imprese del web che richiedono di ripensare le forme tradizionali di tassazione dei redditi societari e di capitale.

Rifiutarsi di discutere di questi temi per paura di perdere consenso immiserisce il dibattito pubblico e riduce gli spazi di azione per la politica economica. Spiega probabilmente anche l’improvviso favore che le varie ipotesi di “tasse piatte” hanno avuto nel dibattito politico interno. Ma come riconoscono i fautori più avvertiti, le tasse piatte sono alla lunga sostenibili solo al prezzo di una sostanziale riduzione del sistema di welfare. È dubbio che la maggior parte dei cittadini se ne avvantaggerebbe.

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13 commenti

  1. Savino

    Tutti si sentono poveri ed incapienti dinnanzi al fisco. Questo è tecnicamente impossibile, visti i lauti tesoreggiamenti presenti, molto spesso non sudati, poichè derivanti da frodi, nero ed altri illeciti. Prima ancora dei politici che ci speculano su, tocca agli italiani smetterla di vedere lo Stato come sanguisuga di presunti e non dimostrati guadagni sudati. Poi, ci si lamenta del perchè non funzionano ospedali, strade, scuole ecc.

  2. Henri Schmit

    Questo articolo afferma una verità (analisi, giudizio, soluzioni) importantissima, valida da almeno 30 anni. Apprezzo che l’articolo evita il solito scivolone (alibi per non far niente) nell’armonizzazione europea. Il compito doppio è immenso: 1. concepire soluzioni coerenti e sostenibili (per una volta la parola è pertinente) e 2. condividerle in ambito 2a. accademico-professionale, 2b. politico-giornalistico e opinione pubblica. Il compito è probabilmente impossibile perché il dibattito pubblico è troppo inquinato dai cinici giochi di parte di effimera valenza. L’ultimo fuoco di paglia è stato accesso proprio su questo forum poco più di due anni fa sotto quello che doveva diventare lo slogan della flat tax. L’unico metodo è lo studio comparativo, la ricerca della best practice e la presa sul serio dei lavori dell’ocse.

  3. Marcomassimo

    E’ tutto assolutamente condivisibile; purtroppo vediamo tutti che nel corso dei decenni le forze politche sono progressivamente degradate dal punto di vista del potenziale culturale, delle risorse umane e anche dell’appoggio popolare; fare riforme politiche di ampio respiro, andando magari incontro a interessi spicci immediati richiede partiti politici forti e radicati che non sussistono più; per esempio fare una riforma agraria come quella degli anni 50 sarebbe una impresa assolutamente velleitario per i partiti di oggi.
    L’indebolimento della politica, il suo ridursi ad un sentimento rancoroso ma impotente è legato all’avvento nel nuovo millennio di altri poteri ben più sostanziali ed influenti di tipo globale e transnazionale; e nel corso della Storia, che è in sostanza la sequenza dello scontro degli interessi, è sempre successo che un potere più forte e di maggiore ambito scalzasse quelli più deboli e dispersi.

  4. Gerardo

    Non è cosa ordinaria che un politico sia spinto a stravolgere le strutture politico-economiche esistenti attuando seriamente riforme, perché probabilmente non riceverebbe più il sostegno di chi è direttamente toccato da tali cambiamenti, ricavandone un danno personale, e chi ne trarrebbe vantaggio spesso non è conosciuto, non lo sa o addirittura non è ancora in vita. In aggiunta, al contrario di un proprietario privato, un politico eletto a gestire la cosa pubblica ha un orizzonte temporale relativamente breve. Ciò dovrebbe fare capire perché la politica miri più a progetti di corto-medio termine, anziché a progetti strutturali di medio lungo-termine.
    Detto quanto, tornando al tema della riforma del sistema tributario, il punto è su quale base fare leva per riformare il sistema tributario. In tal senso, a titolo preliminare, andrebbe riconosciuto che i servizi statali non sono venduti in regime di libero mercato e pertanto non sono valutabili attraverso il normale funzionamento dei prezzi. Di conseguenza, quale unico criterio alternativo, non molto corretto, rimangono i costi di produzione.

    • enzo de biasi

      La questione sollevata vale per tutti i settori del vivere “comune”, certo è che una tassazione equa della ricchezza prodotta ed utilizzata anche al fine di promuovere politiche distributive solidali per chi ha meno è l’architrave del sistema democratico. Contestualmente , al di là dei nefasti tagli lineari, nessuno si occupa e preoccupa di ri-vedere la presenza pubblica nei servizi che grazie anche alla frammentazione istituzionale (stato-regioni-province-comuni) gravano molto e -spesso , non sempre- sono di scarsa qualità.

      • Gerardo

        Un limitato intervento dello Stato a sostegno dei meno abbienti non solo non è incompatibile con la logica della concorrenza, ma la potenzia, perché garantendo un sostegno economico a coloro che sono svantaggiati senza però mortificare la proprietà privata degli altri, esso amplia la platea dei soggetti in grado di competere e quindi in grado di arricchire con le proprie risorse conoscitive l’ordine concorrenziale.
        Detto quanto, un conto è pensare la politica come variabile che svolge funzione di complemento della società, un altro è pensare la politica come la variabile decisiva della società.
        Quando la politica diviene la variabile decisiva, la scelta individuale viene meno o è fortemente fuorviata dalle manipolazioni governative e il libero processo di mobilitazione delle risorse e delle conoscenze ne risulta impedito o molto ostacolato. Si afferma così un ordine in cui il potere pubblico si affranca da qualsiasi o comunque da troppe limitazioni, le protezioni politiche si diffondono, la selezione competitiva viene marginalizzata. E non vado oltre.
        Ecco, il problema del nostro paese, e ovviamente non solo del nostro paese, dipendono proprio dall’aver fatto diventare la politica la variabile decisiva della società.

  5. serlio

    come al solito i nostri intellettuali (statalisti inveterati) non parlano mai della riduzione della spesa pubblica e dell’enorme debito che sono il vero problema di questo paese. aumentare la pressione fiscale senza diminuire la spesa pubblica è pura follia e poi “i soldi degli altri non bastano mai”, ovvero una classe politica dipendente dalla forsennata spesa pubblica con più tasse non farebbe che aggiungere spreco a spreco e impoverire ulteriormente il paese.

    • Henri Schmit

      L’argomento sarebbe ‘non cambiamo le tasse perché la spesa pubblica è eccessiva’? I sedicenti liberali italiani (‘qualsiasi riduzione di una tassa è un elemento positivo’ de Nicola dixit mi sembra quando il governo Renzi re-abolì l’imu 1a casa) hanno una responsabilità non indifferente nella situazione in cui si trova il paese: bizantino, confuso, ingiusto, ingestibile da operatori e amministrazione, arbitrario, inefficiente.

  6. Alessandro

    Condivido. Il sistema tributario va riformato da cima a fondo. Sono anni che, come commercialisti, lo rimarchiamo, rimanendo sempre inascoltati. Occorre sopratutto semplificare, anche perché i costi di compliance sono troppo elevati. Non siamo un Paese che ha un sistema tributario competitivo (basta vedere l’ultimo rapporto Tax Foundation) e questo va a danno non solo delle entrate tributarie ma di tutto il sistema Italia. Va poi recuperato il criterio di progressività, oggi alterato dalle troppe imposte sostitutive, comprensibili per i redditi finanziari, meno per altre categorie di reddito. Alla fine la progressività, per ragioni di bilancio, viene snaturata introducendo limiti alle detrazioni o ulteriori oneri (indiretti) a carico dei contribuenti (onesti) in ragione del reddito dichiarato. Si colpisce il contribuente virtuoso perché alla luce del sole. Il risultato é che i cittadini non compendono più a quale titolo si pagano le imposte, alimentando un senso di diffuso malcoltento. Infine, non si capisce il motivo per cui lo Statuto del contribuente, legge sempre perennemente derogata, non venga elevato a norma di rango costituzionale. E’ inaccettabile che i contribuenti abbiano diritti dai confini incerti. Non piace a nessuno pagare le tasse, né potremmo mai contare su un “fisco amico”, ma almeno é auspicabile un “fisco non nemico”.

  7. Trovandomi d’accordo con la tesi generale del suo articolo, ho tuttavia un dubbio fondamentale sull’attribuzione causale del fenomeno. A me sembra che la responsabilità maggiore sia degli economisti, italiani, più ancora che dei politici. I politici, purtroppo, hanno oggi una cultura al meglio giornalistica/comunicativa (la gran parte è iscritta a quell’ordine). I laureati aumentano in alcuni gruppi, ma probabilmente oggi il rapporto tra anni medi di istruzione dei politici e analogo calcolo per la popolazione, nella stessa fascia di età, è minore o uguale a quello che si aveva nel 1948 -nonostante 50 anni di istruzione quasi gratuita. Quindi, chi forma la cultura economica del ceto politico e della popolazione? Chi non dice che l’espressione “cuneo fiscale” è un modo giornalistico di dare per scontato un modello che ha assunzioni e conseguenze non scontate, e non il modo di rappresentare una malattia? Chi deve aiutare gli altri a pensare che leggersi qualche capitolo, se non l’intero libro, di Thomas Piketty è meglio, anche per sviluppare la capacità di pensare sistemicamente, con diversi “modelli mentali”, che leggersi 1000 articoli che danno tutti per scontato un unico modello teorico? L’analisi ‘a la Kutnetz’ di Piketty è stata presentata e diffusa in Europa e Stati Uniti, ma giace in qualche polverosa pila secondaria nelle librerie italiane. Capire il perché di questa ed altre rimozioni è una via per spiegare come è stato costruito il tabù.

    • Henri Schmit

      Sono d’accordo con questa critica severa. Se l’elemento che chiamerei epistemico (presente ed indispensabile in qualsiasi presa di decisione, autoritaria o democratica che sia) è così debole, di chi è la colpa? Degli esperti e accademici, dei giornalisti e mass media, degli attori politici o di coloro che li votano? Non è una questione banale. Si decide male perché il popolo è ignorante o perché gli esperti sono incapaci (non necessariamente sprovvisti, basta che siano compromessi, condizionati).

  8. Carlo

    L’unica speranza è che intervenga la Corte Costituzionale perché la situazione ha raggiunto livelli assurdi:
    1) Se ho 2 case a Monterone (comune più piccolo d’Italia) perché magari non riesco a vendere pago sia l’Irpef sulla rendita della casa non abitata sia l’IMU mentre se ho una decina di case al mare ed abito, ad esempio a Milano, non sono soggetto a doppia imposizione;
    2) L’IMU è deducibile per chi consegue redditi di impresa ma non per chi ha redditi da locazione;
    3) I vantaggi della cedolare secca sono maggiori per chi non ha redditi di pensione o lavoro dipendente perché incide sul calcolo delle detrazioni e sono più che proporzionali all’aumentare del reddito e del patrimonio. Come la mettiamo come il principio di capacità contributiva?
    4) Il mio sindaco è professionista e se fa la flat tax non paga l’addizionale comunale mentre io dipendente la pago. Questa è democrazia?
    5) Su un conto deposito del 0,5 % con l’imposta di bollo la tassazione arriva al 66% pari al 0,17 netto. Quindi i soldi rimangono sul c/c ma dal 2020 una banca italiana procederà pure ad applicare i tassi negativi;
    6) catasto: ho una casa che vale circa il valore IMU perché le rendite risalgono 30 anni fa mentre il mio paese ha perso l’ospedale, la sede dell’Asl, il fisco e la giustizia hanno chiuso le sedi periferiche, è distante da aeroporti, università, autostrade insomma tutte cose che rispetto a decenni fa ora incidono parecchio sulle decisioni delle persone di acquistare casa.

  9. Marcello

    Intanto dovremmo chiederci a cosa servono le tasse. In uno stato sovrano, a moneta sovrana, servono a redistribuire la ricchezza prodotta e a frenare una economia increscita eccessiva. In un paese a moneta non sovrana, com’è l’Italia, nvece serve a pagare l’interesse sul debito. Questa è la realtà dei fatti. l’Italia è pressoché in avanzo primario da vent’anni, ma dopo aver pagato gli interessi sul debito, cresciuti a causa di politiche economiche discutibili (leggasi divorzio banca d’Italia-Tesoro), rimane con un deficit importante. Se la moneta tornasse sovrana non avremmo questo problema. Gli interessi sul debito infine non vanno in tasca ai cittadini perché purtroppo i titoli di stato sono in mano loro solo per una percentuale piccola, infatti le banche sono in difficoltà coi tassi negativi o vicino allo zero di oggi. Torniamo ad una moneta sovrana senza debito, dello stato e gestita dallo stato e le tasse ritorneranno ad essere quello che devono essere.

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