Il 31 ottobre è la data fatidica per la Brexit. Il duello finale sarà all’ultimo sangue. Perché se sarà “no-deal” e uscita dalla Ue, Johnson vincerà le successive elezioni politiche. Ma lo scenario cambia se sarà costretto a chiedere un’estensione all’Europa.
Verso il duello finale
La saga della Brexit sta arrivando alla resa dei conti. Preceduto da imboscate e colpi di scena – come la legge Benn, che obbliga il primo ministro a chiedere un’estensione della permanenza nella Ue se il 19 ottobre non c’è accordo per l’uscita, o la sentenza della Corte costituzionale che dichiara illegale la chiusura del Parlamento, o la drammatica riapertura dei negoziati “in clausura” con Bruxelles – il duello finale sarà all’ultimo sangue. Entrambe le posizioni, pro-Brexit e pro-Europa, si sono estremizzate: il “no deal”, che implicherebbe l’azzeramento di ogni relazione commerciale per beni servizi persone e capitali e che durante la campagna referendaria non veniva neppure contemplato, è ora visto da molti come l’ipotesi ideale cui mirare. Tra i pro-europei, la posizione più estrema è quella dei Lib-Dem, che hanno dichiarato di voler spazzar via il referendum e rescindere unilateralmente l’articolo 50 qualora ottengano una maggioranza parlamentare.
Nessuna delle due posizioni, però, ha una maggioranza, né in Parlamento né nell’elettorato.
Quindi sia i brexitisti sia i pro-Europa si spostano lievi lievi verso posizioni meno estreme: i primi, guidati da Boris Johnson, che per ora gode di un carisma populista simile a quello di Donald Trump, propongono una nuova versione dell’accordo negoziato da Theresa May, con forti concessioni al gruppo di tory che vede la Brexit come la scusa per de-regolamentare l’economia (dal clima, ai diritti dei lavoratori, alla qualità del cibo) e concessioni cosmetiche agli irlandesi, che sembrano ormai disposti ad accettare uno status giuridico diverso tra Irlanda del Nord e resto del Regno Unito, anatema fino a poco fa. I pro-Europa sono non solo privi di leader, ma anche irriducibilmente divisi. Il capo dell’opposizione, il leader laburista Jeremy Corbyn, rimane a favore della Brexit, contro la quasi totalità del partito e dei sindacati. Continua testardo a rifiutare compromessi, sia quando respinge la proposta di condizionare l’appoggio a un’eventuale proposta di trattato a un secondo referendum (prima le elezioni anticipate, poi, il referendum, ripete), sia quando lega il sostegno dei laburisti a un governo di opposizione alla condizione che sia lui il primo ministro, ben sapendo che gli ex-deputati tory e i liberal democratici, disposti a votare per “saggi anziani” super partes, quali l’ex cancelliere dello scacchiere Ken Clarke o l’ex ministra degli esteri laburista Margaret Beckett, non potrebbero mai appoggiare l’attuale leader laburista.
Le intenzioni di voto
Nelle ultime due elezioni politiche i sondaggi si sono rivelati sbagliati: nel 2015 predicevano un parlamento senza maggioranza, mentre invece David Cameron riuscì a ottenerla. Nel 2017 indicavano un’incoronazione per Theresa May, che fu umiliata dalle urne. Parte della difficoltà è dovuta al fatto che lo spostamento da un partito all’altro non è uniforme sul territorio nazionale: gli elettori che cambiano voto lo fanno per motivi diversi in diverse aree geografiche del paese: a Londra e Manchester, i tory socialmente progressisti votano Lib-Dem o Labour, mentre nelle piccole città, da Mansfield a Ashfield, è la classe operaia tradizionale, bianca e chauvinista, che si ribella contro l’élite liberale, e se proprio non riesce a votare tory, ha certo meno remore a votare il partito di Nigel Farage, prima l’Ukip poi il Brexit party.
La domanda tradizionale dei sondaggi tradizionali “se l’elezione per il Parlamento fosse oggi, per chi voteresti?” permette di confrontare cambiamenti temporali nell’appoggio ai partiti. La figura 1 illustra la persistente debolezza dei laburisti, che di rado superano il 25 per cento delle intenzioni di voto. Il motivo è l’emorragia di voti pro-Europa verso partiti non ambigui nella loro opposizione alla Brexit (per fare un esempio, in casa De Fraja, alle Europee, il Labour ha perso cinque voti su cinque).
Figura 1 – Aggregazione dei sondaggi settimanali: partendo dall’alto i partiti sono Conservative, Labour, Liberal-Democratici, il partito Brexit, i Verdi, Ukip (in viola), e Change UK (un gruppo formato da undici deputati laburisti e tory, molti dei quali sono ora nei Lib-Dem). I partiti regionali (nazionalisti scozzesi e gallesi) sono esclusi.
Fonte: BritainElect
La figura 1, però, maschera una fondamentale debolezza dei tory: i sondaggi sono concordi nel predire una secca vittoria del Brexit party se Johnson fosse costretto a chiedere un’estensione oltre il 31 ottobre.
Alla stragrande maggioranza degli elettori brexitisti non interessano dettagli oscuri quali il “graduale disallineamento regolamentare” con la Ue, o la “revoca della giurisdizione della corte di giustizia europea come ultimo grado di appello”. Vogliono il divorzio costi quel che costi. Se “Boris” riesce a far passare in Parlamento un trattato che gli permetta di dichiarare che “siamo finalmente liberi dal giogo di Bruxelles” e “non siamo governati da un crucco”, gongoleranno felici e abbandoneranno Farage per tornare all’ovile tory, ancora più accogliente dopo l’epurazione di una trentina di moderati. Se invece Johnson sarà costretto a ubbidire alla legge Benn, il senso di umiliazione e di tradimento favorirebbero il partito Brexit. Dato che i brexitisti duri sono distribuiti in modo piuttosto uniforme nel territorio nazionale, l’effetto del loro successo sarà quello di togliere voti ai tory, paradossalmente favorendo i partiti pro-Europa.
Un’ulteriore complicazione nel tradurre voti in maggioranze parlamentari è la possibilità di coalizioni esplicite tra i Lib-Dem, i verdi e i nazionalisti scozzesi e gallesi e di un efficace coordinamento centralizzato per indurre gli elettori al voto tattico, concentrando i consensi, di collegio in collegio, sul candidato anti-Brexit meglio piazzato.
Per riassumere, premesso che in questa situazione tutto va preso con le pinze, nelle probabili elezioni prima di Natale:
- se il giorno del voto il Regno Unito è fuori dalla Ue, il partito Brexit si scioglie e Johnson otterrà una larga maggioranza.
- se invece la Brexit è rinviata, il partito Brexit potrebbe ottenere un 10 per cento dei voti, togliendo così la vittoria ai tory in molti collegi. Lib-Dem e verdi potrebbero arrivare a 70-100 deputati, che sommati ai 50 e passa nazionalisti scozzesi assicurerebbero quanto meno un nuovo referendum.
Anche su questo le previsioni sono difficili: in un voto tra “Remain” e “No Deal”, il primo vincerebbe. Meno ovvio cosa prevedere nel caso di voto tra “Remain” e un accordo con la Ue, per quanto raffazzonato. Il 90 per cento di chi ha votato nel 2016 voterebbe nello stesso modo, dunque la scelta del paese dipenderebbe dai cambiamenti demografici: i quindicenni di allora sostituiscono i defunti e chi si era astenuto decide di votare: sono entrambi fattori che potrebbero favorire il “Remain”.
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zipperle
se non si riesce a raggiungere un accordo in queste ore Johnson può dimettersi poco prima del 19/10 per evitare di ottemperare alla legge Benn e quindi arrivare al 31/10 in condizione di stallo, provocando l’uscita senza accordo?