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Quanto serve bloccare l’export di armi alla Turchia

Chiudere le esportazioni di armi verso la Turchia non comporterebbe grossi problemi per la nostra economia. Al di là degli aspetti contabili, andrebbe poi valutato il costo reputazionale per l’Italia della prosecuzione del commercio militare con Ankara. 

Pochi effetti sull’economia italiana

L’offensiva lanciata in questi giorni da Recep Erdogan contro i curdi ha aperto il dibattito sull’opportunità di interrompere le esportazioni di armamenti verso la Turchia. Secondo quanto riportato da diversi mezzi di informazione, il nostro ministro degli Esteri sarebbe orientato a interrompere i contratti futuri e a compiere un’istruttoria su quelli in corso. Con maggiore determinazione, invece, le associazioni della società civile e diversi osservatori propongono una chiusura delle forniture e dei contratti già stipulati. Ma quali sarebbero gli effetti di una simile decisione sul settore militare e più in generale sull’economia italiana?

Secondo i dati elaborati dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) – la cui metodologia si basa sul calcolo di un costo medio di produzione dei diversi tipi di armamenti – le esportazioni di armi verso la Turchia nel periodo 2010-2018 dovrebbero pesare intorno all’11 per cento del totale del nostro export militare. Pertanto, un embargo nei confronti della Turchia non dovrebbe avere un impatto sostanziale, soprattutto in virtù del fatto che la gran parte di questi contratti riguardano la produzione di elicotteri Mangusta assemblati in Turchia su licenza Leonardo.

La situazione è più chiara se guardiamo ai numeri contenuti nelle relazioni annuali al Parlamento. Le autorizzazioni all’export concesse nel periodo 2012-2018 per la Turchia ammontano a poco meno di 998 milioni di euro. Peraltro, solo nel 2018 sono risultate una quota significativa del totale: 28 per cento circa contro un 2,8 per cento nel 2017 e uno 0,91 per cento nel 2016. Dunque, l’impatto di un’eventuale interruzione dell’interscambio militare con la Turchia non sarebbe nullo, ma non sarebbe neanche sostanziale.

La domanda successiva è se imprese di altri settori risentirebbero di un’eventuale interruzione dell’export di armi dall’Italia alla Turchia. Non esistono studi che abbiano evidenziato un impatto negativo di sanzioni limitate a singoli prodotti o settori sulla totalità dei flussi commerciali tra paesi. In linea generale, infatti, l’evidenza empirica sugli embarghi suggerisce che le relazioni commerciali non sono significativamente alterate se le sanzioni sono applicate a singoli beni o settori economici. Le sanzioni, infatti, influenzano negativamente la totalità dei flussi commerciali solo se coprono un gran numero di beni e se sono applicate dal numero maggiore possibile di paesi. In altre parole, impedire le esportazioni di armi non dovrebbe impedire gli scambi in altri settori, ma è pur vero che un embargo sugli armamenti può essere interpretato come segnale di una molto più ampia opposizione politica verso il paese sotto sanzione. In questo caso, per valutare gli effetti sull’economia del paese che impone le restrizioni all’export è cruciale considerare l’interdipendenza tra i due stati. Secondo i dati forniti dall’Istat, in termini di valore, l’export italiano verso la Turchia ammontava nel 2018 solo al 2 per cento del totale. A dispetto della crescita del valore delle esportazioni degli ultimi anni (+ 4,8 per cento in media dal 2013 al 2018), la Turchia non è in alcun modo uno dei principali mercati di sbocco per le imprese Italiane. Anche se l’embargo sulle armi provocasse ripercussioni negative sull’insieme dell’interscambio tra Italia e Turchia, le conseguenze sulla nostra economia non sarebbero significative. In sintesi, gli effetti economici delle proposte di interrompere la fornitura di armi alla Turchia non sono particolarmente rilevanti né per il comparto militare né per l’economia italiana nel suo complesso.

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Rischio reputazionale

È poi evidente che eventuali benefici o nocumenti vadano valutati anche sulla base di considerazioni più ampie. In primo luogo, non si può prescindere da alcune riflessioni strategiche che riguardano, in particolare, l’appartenenza dell’Italia alla Nato e la posizione assunta dalla Turchia in seno all’alleanza.

Da diversi mesi, in seguito all’acquisizione del sistema missilistico russo S-400, Ankara non è più parte del programma F35. Secondo alcuni osservatori, si è trattato di un passo decisivo di Erdogan verso la rottura con la Nato per abbracciare come partner principale la Russia di Vladimir Putin. L’interpretazione si basa sull’idea tradizionale secondo cui, in ambito militare, le relazioni diplomatiche si sovrappongono alle relazioni commerciali. Alla luce di questo principio, l’istruttoria sui contratti in essere ora annunciata dal ministro degli Esteri italiano si sarebbe dovuta fare ben prima dell’inizio dell’offensiva contro i curdi e precisamente all’indomani dell’esclusione della Turchia dal programma F35.

In secondo luogo, continuare a esportare armi alla Turchia espone l’Italia a un rischio reputazionale. Il nostro è un paese democratico che ha ratificato il trattato Att (Arms Trade Treaty) per il controllo alle esportazioni delle armi convenzionali e che ha nel suo ordinamento una legge che vieta esportazioni di armamenti a nazioni in guerra, a dittature e a stati in cui siano violati i diritti umani. Non rispettare leggi e trattati internazionali rende la nostra democrazia meno credibile.

Sono due considerazioni su cui riflettere a fondo nel valutare i costi di continuare a esportare armamenti verso la Turchia.

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Scuola, arriva una raffica di assunzioni

  1. Ezio

    Se non erro alcune aziende italiane hanno stabilimenti in Turchia. L’embargo sulle armi potrebbe essere dannoso per queste aziende.

  2. Riccardo

    Chiudere le esportazioni militari è moralmente giusto e spero venga fatto, ma l’effetto sarà molto limitato per due motivi: (1) perchè la Turchia ha una base industriale significativa (è in grado di costruirsi da sola le bombe che usa contro i curdi, mentre solo quando dovrà sostituire gli F16 – che trasportano tali bombe – dovrà rivolgersi a fornitori stranieri). E, (2), perchè Russia e/o Cina copriranno senza problemi le necessità militari di Ankara.

    Sull’ultima parte dell’articolo, non parlerei tanto di rischio reputazionale (che è più legato al mercato specifico, e anzi è l’embargo alla Turchia a generare un rischio reputazionale di affidabilità per le nostre industrie verso molti mercati dei PVS) quanto di danno alla nostra politica estera. E il danno deriva principalmente dal non allineamento dell’Italia rispetto alle scelte fatte dagli altri principali paesi UE, Germania e Francia in testa.

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