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Per un web migliore la carta di identità non basta

La diffusione dei social network solleva il problema di bilanciare la protezione della libertà di espressione con l’esigenza di perseguire i reati. L’obbligo di inviare una copia della carta di identità non è probabilmente la soluzione. Meglio una terza via.

Social e anonimato

Nessuno mette in dubbio che internet e i social network siano un’innovazione epocale, che cambia il nostro modo di comunicare, acquisire informazioni, condividere esperienze. Come ben discusso da Francesco Galgano a proposito della nascita di quello commerciale, il diritto deve in larga misura “inseguire” ciò che accade nella sfera dei commerci, adattare l’applicazione dei principi generali e – se del caso – idearne di nuovi. All’interno di un ambito tecnologico molto diverso da quello in cui sono nati i mass media tradizionali, resta vero che diversi diritti e diversi interessi legittimi debbano essere gestiti, tenendo presente il fatto che non raramente sono in contrasto tra loro. Nella fattispecie, la protezione della libertà di espressione dei cittadini potenzialmente si scontra con l’esigenza di perseguire reati a mezzo stampa come la diffamazione e di consentire meccanismi come il whistleblowing, cioè la denuncia anonima di comportamenti dannosi o criminali messi in atto da imprese o amministrazioni pubbliche. Vi sono anche problematiche nuove, che sono create o rese più pressanti dalla tecnologia stessa, come il rischio di diffusione virale di notizie false (le famigerate fake news) e di campagne d’odio e bullismo. Come possiamo gestire questi nuovi problemi?

Il tema del bilanciamento dei diritti relativi all’espressione nell’era dei social network è naturalmente di carattere generale; tuttavia è stato riportato all’attenzione dell’opinione pubblica non soltanto a motivo della commissione parlamentare di inchiesta contro l’odio, il razzismo e l’antisemitismo proposta dalla senatrice Liliana Segre, ma anche per un dialogo specifico accaduto su Twitter negli stessi giorni. Il regista Gabriele Muccino chiedeva con un tweet di introdurre per legge l’obbligo di inviare un documento di identità per chi volesse iscriversi a un social network, così da impedire l’utilizzo dell’anonimato da parte di chi commetta “reati penali” (sic) sui social network. Luigi Marattin, deputato e responsabile economico di Italia Viva, commentava favorevolmente questa idea, impegnandosi a lavorare in Parlamento sul tema, e con un tweet di poco successivo annunciava la presentazione di un disegno di legge che obblighi a fornire “un valido documento di identità” prima di potersi iscrivere sui social network. Per usare un eufemismo, la presa di posizione di Marattin ha sollevato molti commenti e critiche su Twitter stesso e altrove, finendo per essere oggetto di talk show televisivi come Piazza Pulita.

Le critiche alla proposta Marattin

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Per riassumere, le critiche sollevate contro la proposta di Marattin sono di due tipi. Primo, secondo molti commentatori esperti di informatica è tecnicamente impossibile realizzare questa procedura di iscrizione poiché un utente residente in Italia che vuole compiere reati come minacce e diffamazioni restando anonimo può continuare ad agire imperterrito sfruttando il fatto che internet è una rete globale. Per esempio, è possibile mascherare il proprio indirizzo IP grazie a un virtual private network, e nel contempo iscriversi ai social network utilizzando e-mail “usa e getta”: il soggetto in questione riesce così a essere indistinguibile da un soggetto straniero. Come può lo stato italiano obbligare soggetti stranieri (o soggetti italiani che fingono di esserlo) a sottostare alla procedura nostrana di identificazione? Detto in altri termini: chi vuole compiere reati e ha gli strumenti tecnici per restare anonimo può farlo anche con “una stretta” sull’identificazione online decisa dallo stato italiano.

Secondo, dal punto di vista delle finalità di una tale norma, siamo in presenza di una “discesa scivolosa” (slippery slope) che – anche partendo da scopi non malevoli – ci può portare a meccanismi di censura preventiva qualora il governo presente o futuro sia di carattere illiberale, cioè voglia limitare o impedire la libertà di espressione dei cittadini. Una volta passato il principio di identificazione online obbligatoria, come possiamo essere al sicuro rispetto a un utilizzo strumentale della disciplina, finalizzata a opprimere le libertà dei cittadini, che oltretutto rende difficoltoso l’esercizio di attività importanti come il whistleblowing? Non solo: quale garanzia hanno i cittadini rispetto al fatto che le proprie informazioni biografiche siano detenute da piattaforme monopolistiche che per larga parte non rientrano sotto la giurisdizione italiana?

La terza via

Molto probabilmente, come ammesso dallo stesso Marattin nei giorni successivi, l’obbligo generalizzato di iscriversi ai social network mandando la copia scannerizzata della propria carta di identità non è la soluzione, anzi potrebbe creare più problemi che risolverne: il fatto che lo strumento di risoluzione del problema sia errato certamente non implica l’inesistenza del problema. Sotto questo profilo, una proposta di legge presentata durante la scorsa legislatura dall’informatico e allora deputato di Scelta Civica Stefano Quintarelli potrebbe andare nella giusta direzione. L’idea è quella di prevedere l’introduzione di una “identità digitale protetta”, che sia basata sulla presenza di soggetti fiduciari, cioè imprese che forniscano in maniera autorizzata “servizi di anonimizzazione”.

Davanti a contenuti che possono configurare una violazione dei diritti di copyright detenuti da qualcun altro (come nel caso di “film piratati”) oppure un reato a mezzo stampa come la minaccia o la diffamazione, secondo la proposta Quintarelli, l’utente è invitato a comunicare alla piattaforma la propria identità digitale protetta attraverso l’intervento del soggetto fiduciario che tiene presso di sé i suoi dati e manda un “token” (cioè un codice numerico con scadenza temporale) alla piattaforma. L’identificabilità dell’utente – per esempio da parte dell’autorità giudiziaria in caso di reato – è garantita dal fatto che conferma al fiduciario la propria identità scambiando sms con costui, allo stesso modo in cui già oggi si autorizzano comunemente i bonifici bancari sul proprio conto corrente online (è il cosiddetto principio KYC: “Know Your Customer”, “conosci il tuo cliente”). A sua volta, il fiduciario comunica l’avvenuta identificazione protetta alla piattaforma, che a questo punto può permettere la pubblicazione del contenuto “critico”.

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L’idea qui suggerita è di applicare la proposta di Quintarelli sull’identità digitale protetta in maniera estensiva e combinarla con l’idea di Marattin, cioè rendendola obbligatoria al momento dell’iscrizione ai social network, e non soltanto nel caso specifico dell’inserimento di contenuti potenzialmente “pericolosi”. Una proposta intermedia, sempre suggerita da Quintarelli, consiste nel prevedere un meccanismo graduale, per cui l’identificazione tramite soggetto terzo autorizzato e token è prevista soltanto oltre una certa soglia di rilevanza sui social network (come ad esempio misurata dal numero dei follower su Twitter e Instagram, o amici su Facebook). Per essere ancora più efficaci, e per creare altresì un mercato competitivo dei fornitori dei servizi di anonimizzazione, la scelta più sensata sarebbe riportare la proposta a livello di Unione Europea come progetto di direttiva futura, invece che come legge soltanto italiana.

Nel decidere il bilanciamento tra libertà di espressione, tutela dell’anonimato e prevenzione o repressione dei reati “a mezzo social”, ancora una volta forse è una buona idea cercare soluzioni virtuose “nel mezzo”. Detto in altri termini, non bisogna buttare il bambino della libertà di espressione insieme con l’acqua sporca dei reati online, se acqua sporca e bambino sono identificabili, in maniera neanche troppo futuristica, tramite token scambiati via sms.

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Il Punto

  1. Savino

    In ogni modo, gli italiani non sono credibili e la loro presunta rabbia è semplicemente fasulla, non avendo avuto seguito nè nelle piazze nè nelle urne. Si indignano e, poi, votano i più ridicoli e ignoranti. Gli scheletri nell’armadio che hanno gli italiani sono sempre di più delle loro lamentele.

  2. Piero Borla

    Il tema è certamente complesso, me va ben oltre la tutela contro i reati. Non può configurarsi un diritto ad entrare in rapporti con un altro utente in forma anonima o travisata, se questi non lo desidera. Al contrario, vista la varietà e intensità delle degenerazioni che infestano la rete, è urgente sperimentare e introdurre più metodi e livelli di protezione e metterli a disposizione di chi desidera cautelarsi

  3. Cicci Capucci

    Tanto rumore per nulla. Mi spiego: per scrivere qua debbo lasciare l’indirizzo mail che il provider mi ha concesso tramite verifica del mio cellulare che ha un numero associato alla mia carta d’identità. In sintesi in Italia, basterebbe che i social richiedessero il numero di cellulare a chi apre un account e lo verificassero via mail, come fanno molti provider. In questo modo l’identificazione sarebbe certa nel 90% dei casi.

  4. Mauro Samarati

    Mi sembra una proposta sensata, non condivido le perplessità del dottor Puglisi, è chiaro che logica vorrebbe che chi non ha account validati non possa accedere ai social. Si tenda a dimenticare che è la rete nel suo complesso che deve garantire la libertà di espressione non il singolo social. Per altro i social stessi sono spazi privati e pertanto non strettamente tenuti a garantire nulla ai loro utenti, se i termini di servizio non piacciono non verranno utilizzati.

  5. Il problema non è semplicemente risolvibile dal singolo paese.
    La buona notizia è che le piattaforme digitali sono consapevoli della questione e la risolveranno autonomamente.
    E’ verosimile che sceglieranno di farlo creando una relazione affidabilità dell’account e visibilità dei contenuti che produce.
    Affidabilità che sarà soggetta ad alcuni segnali, fra gli altri:
    – storicità dell’account (rendendo la vita difficile, per esempio, a chi intendesse creare cluster di account per diffondere fake news)
    – collegamento a sistemi di pagamento (esempio progetto Libra).

    La considerazione potrebbe indurre il saggio politico a indirizzare i suoi sforzi lì dove può avere maggiore effetto, per esempio aumentando la spesa a favore dell’istruzione così da rendere i cittadini meno vulnerabili alle fake news.

  6. Federico Leva

    Quintarelli è sicuramente un legislatore competente, ciò detto prima di lanciarsi in avventurose proposte conviene leggere chi ha studiato e chi ci ha provato.
    https://undocs.org/A/HRC/29/32
    https://www.valigiablu.it/odio-disinformazione-anonimato/
    https://www.theguardian.com/uk-news/2019/oct/24/government-spent-2m-on-porn-block-before-policy-was-dropped

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