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Bonus nido, meglio darlo ai comuni

La legge di bilancio prevede un bonus alle famiglie per le rette degli asili nido. Ma molte non potranno sfruttare tutta l’agevolazione. Né c’è alcun aiuto per ampliare l’offerta di posti. Ecco perché il bonus dovrebbe diventare un trasferimento ai comuni.

Dal bonus un conflitto tra livelli di governo

La bassa natalità è sicuramente uno dei principali problemi del nostro paese, con conseguenze importanti su dinamica economica, equità intergenerazionale e sostenibilità del welfare. Un’offerta abbondante e a costi accessibili degli asili nido, oltre ad avere effetti educativi, potrebbe aumentare la natalità, favorendo una più semplice conciliazione degli impegni lavorativi con quelli familiari e riducendo il costo economico delle decisioni di fecondità.

Nel 2016 il governo ha introdotto un bonus destinato a ridurre il costo che le famiglie sostengono per le tariffe dei nidi, una scelta che non può che essere vista in maniera positiva. Ora, la legge di bilancio per il 2020 aumenta gli importi del “bonus asilo nido”. Riservato ai bambini iscritti ad asili pubblici o privati, il bonus passerebbe dagli attuali 1.500 euro annui a un massimo di 3 mila euro per le famiglie con Isee inferiore a 25 mila euro, per scendere a 2.500 euro per quelle con Isee tra 25 mila e 40 mila euro e arrivare, infine, a 1.500 euro per gli altri nuclei. Ipotizzando una frequenza di dieci mesi all’anno, si tratterebbe di cifre pari, rispettivamente, a 300, 250 e 150 euro mensili.

Se l’impegno a ridurre il costo del nido è apprezzabile, emergono alcune perplessità sulle modalità di attuazione del bonus.

Il problema sta, paradossalmente, nel fatto che questi importi garantirebbero il completo azzeramento del costo del nido per molte famiglie. I sistemi tariffari comunali prevedono rette crescenti all’aumentare della condizione economica. Già ora difficilmente le tariffe superano i 250 euro mensili per livelli di Isee medio-bassi. Ne segue che molte famiglie non potranno sfruttare tutta l’agevolazione a loro destinata, saranno “incapienti”. Mentre il costo del servizio rimarrà elevato per i comuni, che nulla riceveranno per aumentare i posti disponibili. D’altra parte, non avrebbero neanche interesse ad abbassare le tariffe per le famiglie povere, protette dal bonus. Anzi, la loro strategia ottimale sarebbe aumentare la retta fino al valore massimo del bonus. Solo in questo modo tutto l’importo stanziato a livello centrale finirebbe davvero a riduzione del costo del nido.

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C’è insomma un conflitto tra enti di governo di diverso livello. Se lo stato versa il bonus alle famiglie a copertura dei costi, per i comuni l’unico modo possibile per garantire che lo stato paghi davvero una parte del costo dei nidi è non ridurre troppo le tariffe. Paradossalmente, se un comune applica tariffe alte lo stato contribuirà via bonus ai costi del nido, mentre in quelli virtuosi con tariffe già basse, il contributo dello stato al costo complessivo dei nidi sarà più basso e in alcuni casi nullo. Non si capisce poi bene perché il pubblico dovrebbe con una mano ricevere un pagamento e con l’altra restituirlo.

L’esempio dell’Emilia Romagna

L’Emilia-Romagna fornisce un esempio di questo fenomeno. La regione ha da pochi mesi finanziato un trasferimento di 18,25 milioni di euro annui ai comuni del suo territorio, vincolato alla riduzione delle rette dei nidi per famiglie con Isee inferiore a 26 mila euro. Le rette fissate dai comuni sono in effetti decisamente diminuite. Per i comuni emiliano-romagnoli, pertanto, la percentuale di bonus inutilizzato sarebbe molto alta. La figura mostra, per valori di Isee, quale percentuale dell’agevolazione potrebbe sfruttare una famiglia composta da due adulti e un minore residente in alcuni comuni emiliani, date le tariffe oggi applicate. Quanto più un comune le ha ridotte, tanto meno utile è il bonus.

Figura 1 – Percentuale di utilizzo del “bonus asilo nido” per diversi Isee. Nucleo composto da due genitori lavoratori e un minore di 1 anno. Comuni di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara.

Una soluzione al problema di incapienza potrebbe consistere nel trasformare il bonus in un trasferimento non alle famiglie, ma ai comuni, vincolato alla riduzione delle tariffe, come quello della Regione Emilia-Romagna, oppure destinato in parte a riduzione rette e in parte all’aumento o al miglioramento dell’offerta. I comuni potrebbero gestire direttamente il trasferimento dello stato, evitando che una parte rimanga inutilizzata, L’ente locale potrebbe poi decidere se usare i fondi per ridurre l’onere sulle famiglie o incrementare i posti o la qualità del servizio. Nella sua attuale versione, infatti, il bonus non aiuta i comuni in cui non vi sono nidi. Diminuirebbero così anche i costi amministrativi di gestione del beneficio, perché le famiglie non dovrebbero più presentare apposita domanda all’Inps. Certo, la visibilità del trasferimento sarebbe minore, ma proprio l’obiettivo della visibilità ha portato negli ultimi anni al fiorire dei vari bonus, con effetti spesso discutibili.

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  1. Savino

    Infatti, le misure di welfare sono tipicamente locali. Si sta facendo lo stesso errore del reddito di cittadinanza, che, come strumento di lotta alla povertà, andava conferito a chi si avvale dei servizi sociali comunali.

  2. paolo forin

    Il discorso è valido solo per i nidi “privati” che non godono di sussidi per diminuire le rette in base all’ISEE.

    Valutando invece il bonus in funzione del servizio degli asili nido comunali il ragionamento non è corretto.

    Le diminuzioni della retta da questi offerta è pagata dalla fiscalità generale, quindi la parte non utilizzata (e non erogata) del bonus è già stata erogata direttamente ai comuni stessi, solo in altra forma (dalla regione, immagino, nel caso citato).

    Quindi se il bonus nido resta agganciato all’ISEE allora ha senso sganciare l’importo della retta stabilito dal comune.
    Al contrario se i comuni vogliono e possono, tramite la fiscalità generale, valorizzare le rette in base all’ISEE allora è corretto che il bonus statale sia uguale per tutti.

    • Massimo Baldini

      Se un Comune decide di ridurre le tariffe non riceve alcuna compensazione dallo Stato. Lo fa sottraendo risorse ad altre destinazioni o attraverso guadagni di efficienza. Altrimenti le tariffe sarebbero già nulle. Il bonus rischia di essere poco utile proprio nei Comuni e nelle Regioni che si sono più dati da fare per ridurre le tariffe con risorse  proprie. Chi ha rette alte le può mantenere alte tanto c’è il bonus, ottenendo risorse, chi le ha abbassate farebbe molta fatica ad aumentarle per recuperare fondi.
      L’esempio della regione Emilia-Romagna è stato fatto solo perche’ le rette sono gia’ molto basse grazie anche al finanziamento della Regione, che però la Regione stessa ha finanziato con fondi propri, senza compensazione dallo Stato centrale.

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