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Che cosa ci insegna la rilevazione Pisa

L’indagine sulle competenze dei quindicenni dà indicazioni chiare sui punti di forza e sulle fragilità dei sistemi scolastici. Il quadro per l’Italia è preoccupante. Servono politiche educative più mirate, che puntino sulla qualità degli insegnanti.

Le difficoltà degli studenti italiani

La grande visibilità mediatica data alla recente pubblicazione dell’indagine triennale Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) sulle competenze dei quindicenni non deve stupire, come non sorprende che la lettura prevalente dei risultati sia stata quella di una Caporetto educativa. In effetti, la posta in gioco è alta: è ormai appurato che i risultati di Pisa anticipano quelle che saranno le competenze della popolazione adulta e più in generale il livello di benessere al quale una collettività potrà legittimamente aspirare nei prossimi decenni. Ma sarebbe sbagliato guardare a Pisa 2018 solo come a un campanello di allarme: l’indagine fornisce infatti indicazioni chiare sui punti di forza o sulle fragilità in virtù delle quali alcuni paesi riescono a stare al passo con i tempi e altri arrancano.

A partire dalla prima edizione del 2000, l’Ocse ha compiuto uno sforzo continuo per migliorare la rilevazione Pisa, adeguandola ai cambiamenti economici e sociali e alle opportunità offerte dal progresso tecnologico. Ciò rende gli esiti dell’indagine una buona cartina di tornasole per rivelare i progressi, ma anche le inerzie di stato di alcuni sistemi scolastici.

I miglioramenti della rilevazione investono tre fronti: il progressivo allargamento del numero di paesi inclusi, da 43 nel 2000 a 79 nel 2018; le innovazioni sul fronte tecnico/metodologico: per esempio, da quest’anno il test è informatizzato per tutti i partecipanti e adattivo – le domande presentano un livello di difficoltà che si modifica in base alle risposte precedentemente fornite – e dunque restituisce una misura più precisa delle reali capacità; il contenuto stesso delle prove, come la definizione del concetto di “abilità di lettura”, si è evoluto per meglio cogliere, tra le molteplici sfaccettature, quelle più rilevanti in una società in rapida evoluzione.

Purtroppo, gli studenti italiani non sembrano aver tenuto il passo. Il punteggio medio complessivo in lettura è di 476 punti, inferiore di 11 punti rispetto alla media Ocse. Ma forse la notizia peggiore si ricava dai punteggi conseguiti nelle tre sotto-aree in cui si articola la rilevazione: quello più basso (470), e che più contribuisce a determinare l’allontanamento dalla media, si registra per la capacità di “individuare informazioni”: un’abilità cruciale in un ambiente sempre più digitalizzato, dove diventa essenziale sapersi destreggiare tra nuovi tipi di testo (si pensi ai risultati dei motori di ricerca) ed essere in grado di giudicare rapidamente la pertinenza, l’accuratezza e la credibilità delle fonti.

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Benvenuti nel paese delle differenze

Per quanto riguarda le competenze dei quindicenni, l’Ocse stima che 30 punti corrispondano circa a un anno di scuola. È abbastanza sconfortante osservare che i divari tra gli studenti dei licei e quelli degli istituti professionali non solo siano estremamente ampi – tra 3 e 4 anni di ritardo (a 15 anni di età) se vogliamo adottare quell’unità di misura – ma si siano ancor più dilatati nell’ultimo triennio (figure 1, 2 e 3). Ad ampliarsi sono anche le distanze tra licei e istituti tecnici. Dunque, le nuove prove Pisa ci parlano di un’ulteriore e accentuata segmentazione sociale in atto nel paese, che dovrebbe essere oggetto di maggiore considerazione da parte dei decisori, e non solamente nell’ambito delle politiche scolastiche.

Strettamente connessi ai divari di indirizzo sono quelli di genere. Le nuove prove di lettura, matematica e scienze segnalano un sistematico peggioramento relativo degli studenti maschi (in maggioranza nell’istruzione tecnica e professionale, in minoranza nei licei): dunque i divari in matematica e scienze – materie in cui primeggiavano – si restringono, mentre quelli in lettura – dove da sempre le ragazze vanno meglio – si accentuano.

E sono sempre profondi i divari territoriali, con il Sud e le Isole tristemente alla deriva verso livelli di competenze del tutto inappropriati per una regione europea. Da segnalare anche il riassorbimento di quelle differenze tra Nord Ovest e Nord Est che negli anni passati avevano proiettato una luce positiva sulle scuole del Triveneto: eccezion fatta per il miglioramento del Nord Ovest in matematica, la chiusura del divario dipende dal forte calo relativo delle regioni orientali.

Che fare?

Sono ormai numerosi i paesi in cui i deludenti risultati nelle prove Pisa hanno rappresentato la scintilla capace di innescare una stagione di riforme in campo educativo. I miglioramenti sono avvenuti dove le politiche educative hanno preso atto delle fragilità specifiche di quei territori, mettendo da parte alibi e fughe dalla realtà. In Italia alcuni segnali di inefficacia delle politiche educative erano già emersi nell’ultimo decennio, ma i risultati di Pisa 2018 reclamano una nuova attenzione.

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Non si tratta solo di una questione di denaro: proprio l’Ocse segnala che oltre una certa soglia iniezioni di risorse aggiuntive, anche sostanziose, provocano miglioramenti minimi. E l’Italia è ben al di sopra di questa soglia.

Ciò che potrà fare la differenza in futuro sarà la scelta di politiche educative più mirate, capaci di aggredire le criticità specifiche del nostro paese. In particolare, la ricetta più efficace e convincente pare essere quella di puntare senza indugi sulla qualità degli insegnanti: i paesi che nel tempo ottengono risultati sempre più soddisfacenti – Estonia e Singapore, per citare due esempi molto diversi tra loro, o la Germania nel primo decennio del 2000 – sono anche quelli la cui scuola è riuscita ad attrarre, formare e trattenere, attraverso adeguati incentivi, docenti preparati e motivati. E sono anche quelli che riescono a portare gli insegnanti migliori nelle scuole che ne hanno più bisogno. Una pista che l’Italia potrebbe provare a battere se volesse davvero raddrizzare le curve declinanti dell’istruzione professionale.

Figura 1

Figura 2

Figura 3

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Il Punto

  1. Fabrizio Fabi

    Mah… Se 30 punti di divario equivalgono a un anno di scuola in meno, il ritardo italiano sarebbe di soli 4 mesi, rispetto alla media OCSE. Da colmare, certamente, invece di farlo ulteriormente allargare. Soprattutto, considerato che gli studenti della Cina (almeno quelli delle grandi città), stracciano tutti gli altri in tutte le discipline…
    E’ palese che alla scuola italiana (come a tutti i settori del “pubblico”), non servono nuove risorse, bensì serve usare (molto) meglio quelle che ci sono. Nememno sembra molto importante “riformare” gli indirizzi scolastici, modificare i contenuti, aumentare gli anni sui banchi, cambiare gli esami, ecc.ecc.; essenziale invece aumentare il livello di impegno e profitto richiesti, applicare rigorosamente le regole sui comportamenti, rintuzzare le pretese dei genitori, ecc.ecc.. Ripartire dai fondamentali, insomma, senza aspettare di diventare sudditi dei cinesi.

  2. Giovanni

    D’accordo sulla necessità di attrarre verso la scuola laureati brillanti e motivati. Questo, però, non è sufficiente: come si spiega il fatto che gli studenti dei licei del Nord_Est siano ai livelli dei migliori d’Europa? Eppure anche loro hanno insegnanti italiani, spesso di origine meridionale. C’è da fare una riflessione sulle condizioni culturali e sociali delle nostre regioni del sud che le rende così poco favorevoli alla ricaduta del lavoro educativo.

  3. Chiara Fabbri

    Mi spiace di vedere perpetuato anche da tale autorevole commentatore il mito delle risorse adeguate della scuola italiana. La scuola italiana e’cronicamente deprivata di risorse, innanzitutto nei territori dove ci sarebbe bisogno di investire. La scuola a tempo pieno e’virtualmente inesistente al sud come pure l’istruzione pre-scolare. L’offerta formativa e’drammaticamente diversa in ragione della compagine sociale di riferimento degli istituti scolastici e delle capacita’economiche dei genitori, che possono o meno permettersi di finanziare con i propri contributi “volontari”l’arricchimento dell’offerta formativa. Il patrimonio edilizio scolastico e’decrepito e non ci sono i materiali per le piu’banali forme di lavoro laboratoriale. In queste condizioni, continuare a dire che il problema non e’la mancanza di fondi e’grave, questa forma di benaltrismo consente alla politica di evadere la necessita’di rivedere al rialzo la spesa per l’istruzione che in definitiva e’una spesa per investire nel nostro futuro.

  4. Luca Cigolini

    Insegno in una scuola italiana, ma ho anche alunni cinesi. Un piccolo numero, non ha rilevanza statistica, ma forse paradigmatica sì: stanno attentissimi, studiano e memorizzano tutto quel che possono e, con una determinazione invidiabile, in pochi anni recuperano il gap linguistico giungendo a risultati ottimi (consideriamo che l’italiano per loro è come il cinese per noi). Quando vedo i loro genitori, mi chiedono come va loro figlio, che cosa può fare per migliorarsi. Molti si stupiranno di ciò, ma perfino mi ringraziano. Ecco, forse si gioca tutto qui: non il problema della scuola in Italia, ma il problema dell’Italia, della sua società, della sua mentalità.

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