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C’è persino chi rifiuta i fondi per l’integrazione

L’Italia spende poco per integrare gli stranieri.  Eppure le risorse dedicate (prevalentemente scuole di italiano e mediazione culturale) servono a costruire un clima di civile convivenza e, per di più,  finanziano servizi e professionalità del territorio.

Quali sono le politiche per l’integrazione

Negli ultimi anni il dibattito sugli sbarchi ha monopolizzato l’attenzione mediatica e politica, facendo dimenticare che gli stranieri in Italia sono oltre 5 milioni, cinquanta volte di più rispetto ai profughi ospitati nei centri di accoglienza.

Dunque, a fianco delle politiche di accoglienza per i richiedenti asilo, sarebbe opportuno ricominciare a pensare anche alle politiche di ingresso dei cittadini non comunitari (ne abbiamo parlato in un articolo del 30 agosto) e alle politiche di integrazione.

Quando si parla di politiche di integrazione degli immigrati bisogna distinguere tra l’accesso universalistico ai servizi di welfare e quelle politiche rivolte specificamente all’utenza immigrata, come corsi di lingua italiana e mediazione culturale.

Si tratta generalmente di competenze delle regioni e degli enti locali, condizionate però dalle politiche (nazionali) sugli ingressi e sull’ordine pubblico. I fondi contribuiscono a monitorare e a garantire il grado di convivenza tra italiani e stranieri nelle scuole, sui posti di lavoro, nei condomini, prevenendo da un lato marginalizzazione e devianza (degli immigrati) e dall’altro discriminazione e insofferenza (delle comunità locali).

Già 20 anni fa (Primo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia a cura di Giovanna Zincone), i resoconti sulla materia (interrotti dopo sole due edizioni) avevano messo in guardia sulle prevedibili difficoltà di sviluppare politiche di integrazione in un paese di scarsa tradizione civica e tutto sommato di ancora debole identità nazionale. I processi di integrazione a livello locale divengono pertanto un paradigma importante per misurare il successo o il fallimento dell’insieme delle politiche migratorie, ben più del livello quantitativo degli ingressi, anche se naturalmente i due elementi sono collegati.

Va poi tenuto conto delle due diverse fasi del fenomeno migratorio in Italia: nella prima – dal 1999 al 2011 – prevalgono gli ingressi per motivi economici attraverso i decreti flussi e le sanatorie, mentre la seconda – dal 2012 a oggi – è caratterizzata dalla chiusura dei canali legali per lavoro, con un aumento degli ingressi irregolari – poi incanalati nelle procedure di richiesta d’asilo e nel sistema di accoglienza – e del lavoro nero. Non stupisce dunque che, nella seconda fase, sia aumentata l’insofferenza dell’opinione pubblica nei confronti di tutto quanto ruota attorno alla gestione dell’immigrazione (sbarchi, accoglienza, cittadinanza e così via).

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Quali risorse vengono utilizzate

L’Italia spende poco per integrare gli stranieri. Le risorse riservate dai comuni alle politiche di questo tipo sono particolarmente scarse: circa 340 milioni di euro nel 2016, pari al 4,8 per cento delle loro spese sociali, ma in buona parte assorbite dalla gestione dell’accoglienza. In questo caso, il clima politico ha creato un cortocircuito: dove prevalgono le forze “anti-immigrazione”, l’attuazione dello slogan “prima gli italiani” determina la compressione e, talvolta, la totale eliminazione delle risorse dedicate. Ma anche dove governano partiti di centrosinistra, il timore di essere accusati di non fare “l’interesse degli italiani” porta a risultati non molto dissimili in termini di bilancio.

Esiste poi il rischio di frammentazione dei progetti, che andrebbero ricondotti alle priorità dell’insegnamento dell’italiano e all’utilizzo dei mediatori culturali.

L’altra principale fonte di finanziamento è rappresentata da risorse europee: dal 2007 al 2013 suddivise in quattro fondi diversi, poi unificati sotto la dicitura Fami – Fondo asilo migrazione integrazione. Il Fami vede come soggetto attuatore per l’Italia il ministero dell’Interno e per il periodo 2014-2020 ha avuto una dotazione complessiva di quasi 800 milioni di euro, di cui la metà di contributo Ue, gestiti attraverso bandi rivolti a enti locali e terzo settore.

Negli ultimi anni, caratterizzati dalla cosiddetta “emergenza sbarchi”, sono diminuiti generalmente i fondi destinati ai residenti regolari (circa 45 milioni annui), a favore di quelli per asilo e rimpatrio.

Anche qui il clima politico ha condizionato le decisioni a livello locale. Ne è un esempio, in particolare, la decisione della giunta (leghista) della provincia autonoma di Trento di rinunciare a 1 milione di euro di fondi UE già stanziati per le politiche di integrazione, essenzialmente corsi di italiano per stranieri.

Per il momento non ci sono notizie di decisioni analoghe da parte di altre amministrazioni, ma se ne è parlato anche in Friuli Venezia Giulia e c’è stato qualche accenno nella campagna elettorale in corso per l’Emilia Romagna.

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Rincorrendo lo slogan “prima gli italiani”, si cade nell’equivoco che i soldi spesi per l’integrazione siano soldi “per gli immigrati”, dimenticando che invece queste politiche favoriscono la convivenza e quindi tutta la comunità. E dimenticando che quelle risorse non vanno nelle tasche degli immigrati, ma a finanziare servizi e professionalità del territorio, come educatori, insegnanti o formatori.

Al contrario, investire nella prevenzione e nella costruzione di un clima di convivenza civile e rispetto reciproco non potrebbe che giovare a tutta la popolazione e sarebbe quindi un buon investimento “nell’interesse nazionale”.

Tabella 1 – Dettaglio della dotazione Fami, Fondo asilo migrazione integrazione, 2014-2020 (Aggiornamento 1.5.2019)

Fonte: ministero dell’Interno, Dipartimento libertà civili e immigrazione

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  1. Stefania

    Ho lavorato per un breve periodo circa 10 anni fa per un progetto che si occupava di integrazione nell’abitare, finanziato con fondi Europei. Eravamo una decina di ragazzi giovanissimi che sono stati formati e avviati al mondo del lavoro. Non posso che confermare questo “E dimenticando che quelle risorse non vanno nelle tasche degli immigrati, ma a finanziare servizi e professionalità del territorio, come educatori, insegnanti o formatori.” .

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