La spesa sanitaria pubblica del nostro paese è al di sotto della media dei paesi Ocse e della Ue. Ma la salute dei cittadini non ne ha sofferto. L’esperienza dei piani di rientro potrebbe dunque essere un serio esempio di spending review che funziona.
Due rapporti “fotografano” il Ssn
Come sta il nostro Servizio sanitario nazionale? Due rapporti pubblicati di recente – uno firmato dall’Ufficio parlamentare di bilancio, l’altro dalla Commissione europea – ne forniscono due fotografie indipendenti, largamente sovrapponibili, che dovrebbero indurre il governo a qualche riflessione.
Primo: la spesa sanitaria pubblica in Italia è ormai al di sotto della media dei paesi Ocse e dell’Unione Europea. In rapporto al Pil, il nostro dato 2018 si attesta al 6,5 per cento contro il dato Ocse del 6,6 per cento. Siamo distanti da Germania e Francia, che superano il 9 per cento del Pil, e dallo stesso Regno Unito, che spende il 7,5 per cento del Pil; ma non siamo la Grecia, che alla sanità dedica solo il 4,7 per cento. La Spagna, con un sistema simile al nostro per il ruolo assegnato alle regioni, destina qualche decimale di prodotto meno di noi (6,2 per cento). La situazione attuale è il risultato delle scelte di bilancio adottate dai governi che si sono succeduti dall’affacciarsi della crisi finanziaria internazionale del 2008: pare chiaro l’intento di stabilizzare la spesa con la politica del “miliardo in più all’anno”, che serve per difendersi dalla critica di chi sostiene che il Ssn è stato progressivamente de-finanziato, ma non risolve la questione politica di fondo su che cosa davvero si voglia fare dell’universalità del Ssn.
Secondo: gli italiani stanno relativamente bene. La speranza di vita media alla nascita è arrivata a 83 anni, più alta della media Ue di circa 2 anni, con un guadagno di più di 3 anni tra il 2000 e il 2017. Siamo anche un paese meno diseguale di altri per quanto riguarda la salute: il divario nella speranza di vita a 30 anni in base al livello di istruzione, tra chi ha un titolo universitario e chi non ha nemmeno un diploma, è di 2,9 anni per le donne e 4,5 per gli uomini; per la Ue le differenze sono rispettivamente 4,1 e 7,6 anni. Altrettanto importante è notare che le disparità regionali nella speranza di vita sono meno marcate di quelle legate all’istruzione. Qualche ragione di preoccupazione in più si ha osservando il dato relativo alla speranza di vita in buona salute a 65 anni, pari a circa 10 anni per uomini e donne: è di poco inferiore alla media Ue e segnala l’effetto delle malattie croniche, talvolta invalidanti, sulla salute degli anziani.
Terzo: la combinazione di bassa spesa e buoni risultati di salute giustifica il giudizio diffuso sull’efficacia del nostro Ssn.
I dati presentati nei due rapporti offrono spunti di riflessione sui possibili meccanismi che contribuiscono a spiegare il risultato, come la qualità delle cure e l’accesso ai servizi. Sul primo punto, gli ospedali italiani garantiscono cure di qualità: per esempio, la mortalità a 30 giorni in seguito a infarto miocardico acuto è tra le più basse nell’Ue ed è ulteriormente migliorata negli ultimi dieci anni. Sul secondo, l’accessibilità ai servizi non è dissimile dalla media dei paesi Ue: il dato più recente parla del 2 per cento di cittadini che segnala bisogni sanitari insoddisfatti per ragioni economiche, distanza geografica o tempi di attesa (che, almeno per la chirurgia elettiva, sono tra i più bassi in Europa); la quota sale al 5 per cento tra i più poveri. Un confronto in chiave dinamica non è possibile per via delle modifiche intervenute nei questionari di rilevazione dei dati (con i numeri precedenti che segnalavano percentuali ben maggiori), ma il dato sui poveri induce a riflettere su quanto le disuguaglianze dipendano dall’effettiva capacità del sistema di rispondere ai bisogni e quanto invece dall’incapacità di cogliere le opportunità che offre. Un esempio su tutti sono gli screening gratuiti per tumori di vario tipo.
Un buon esempio di spending review
Il quarto spunto di riflessione riguarda gli evidenti risultati delle politiche di ricomposizione dell’offerta di servizi dal lato dell’ospedale, mentre permangono ancora criticità sul fronte dei servizi territoriali. I dati macro ci dicono che i posti letto sono ulteriormente scesi nel decennio della crisi, arrivando a 3,2 per mille abitanti contro la media europea di 5. La riduzione della capacità produttiva degli ospedali è stata accompagnata anche da una diminuzione delle unità di personale impiegato. Sia i posti letto sia il personale si sono ridotti di più nelle regioni sottoposte a piano di rientro. Dal confronto europeo, tuttavia, si vede che l’Italia (come la Spagna) impiega più medici rispetto alla media Ue (4 per mille abitanti contro 3,6) e molti meno infermieri (5,8 per mille abitanti contro 8,5). Segno che negli altri paesi la transizione verso modelli di cura che contemplano le cronicità è già stata affrontata. La discussione sulle carenze di personale (e sulle connesse necessità di formazione) non può prescindere da una programmazione del ruolo che si vorrà assegnare al Ssn e del perimetro dei servizi che deciderà di garantire l’assicurazione pubblica.
Va poi sottolineato che il Ssn è sostanzialmente in equilibrio finanziario (anche se la crescita dei disavanzi da 1 a 2 miliardi di euro tra il 2017 e il 2018 desta qualche motivo di preoccupazione). Le evidenze disponibili mostrano che il raggiungimento dell’equilibrio finanziario è il risultato dell’applicazione dei piani di rientro nelle regioni maggiormente indebitate a partire dal 2007. Siccome la salute non sembra essere peggiorata, anzi le regioni sembrerebbero aver migliorato la loro performance sul fronte della fornitura dei livelli essenziali di assistenza, l’esperienza dei piani di rientro potrebbe essere un serio esempio di spending review che funziona. Forse, è per questo che si è preferito non dirlo troppo in giro.
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Luigi Panfili
Dato che le Asl sono divise in due parti distinte, sanitaria ed amministrativa, con distinti direttori, potrebbe essere interessante “indagare” su quante risorse, sul totale impiegato da ogni Asl, vengono destinate alla macchina burocratica amministrativa e quante vengono effettivamente spese in “corsia”. Perché è forte il dubbio che il personale sanitario è in pericoloso sottorganico e sottoposto a turni inauditi, mentre in altri comparti della Asl si potrebbe svolgere lo stesso lavoro con meno personale. Grazie.
davide zanin
molto interessante, speriamo in un articolo su questo
Paolo Bianco
La verifica è fattibile confrontando i costi di bilancio sotto il paragrafo BA2080 (totale costi del personale) e quelli sotto il paragrafo BA2410 (costi del personale ruolo amministrativo), in entrambi i casi comprensivi dei dirigenti. Un veloce controllo sui bilanci delle principali AUSL dell’emilia romagna restituisce ad es. valori tra 6% e 8%, non saprei se vi sia modo (dalla banca dati SIOPE ad es.) di estrarre rapidamente dati per tutt’Italia. Comunque in molte realtà è successo il contrario di quanto paventato: anni di turnover contingentato hanno costretto le aziende sanitarie a dirottare il turnover interamente in corsia, per salvaguardare per quanto possibile il servizio al paziente, con grave depauperamento dei ruoli professionali e tecnici, ormai sostanzialmente in via di estinzione, e la conseguente esternalizzazione sempre più massiccia delle attività. Questo anturalmente non esclude che nel settore amministrativo vi siano comunque ottimizzazioni importanti fattibili grazie all’informatizzazione, ad es.
Beba
Ottimo articolo. Solo una riflessione, da una persona che ormai vive all’estero (Olanda e Inghilterra) da oltre 15 anni. E’ possibile che una parte del risultato sia dovuta alla disponibilità di specialisti privati che, a giudizio e a spese dell’individuo, vengono consultati? Questa opzione non è possibile in altri paesi, se non dietro insistenza ed e comunque a discrezione del medico generale. Riconoscere patologie in tempo Conta moltissimo nel determinare l’outcome finale.
Ettore
La sua visione sul buon funzionamento del nostro sistema sanitario con scarsi finanziamenti e’ottimistica e non corrispondente alla realta¡fattuale. Io abito a Torino,sono nato in provincia di Caserta,e purtroppo ho spesso a che fare con la Sanita’pubblica sia al Nord,sia al Sud. Per fare una Ecografia,o una Tac in una struttura Pubblica ci vogliono diversi mesi,anche 1 anno per la Tac. E sa perche’? Perche’le strutture pubbliche,stanti i tagli di personale che secondo lei sono una buona cosa,non hanno gli addetti per coprire i turni per far funzionare le apparecchiature a pieno regime,per cui lo smaltimento delle liste di attesa e’lungo. Lo stesso vale per un intervento chirurgico di routine come un’ernia,una appendicite,e cosi via: se va bene,per interventi di questo tipo,a Torino occorre aspettare Tra i 10/12 mesi ed anche di piu’. Perche’anche le sale operatorie funzionano a scartamento ridotto per carenza di medici ed infermieri.
Inoltre non so se sa che ci sono paesini,specie al Sud Italia,dove il piu’vicino Ospedale/posto letto si trova a 60 km di distanza! Quindi il definanziamento del sistema sanitario,in atto ormai da almeno 10 anni,si fa sentire eccome sui servizi offerti dal nostro sistema sanitario!
umberto
E’ assolutamente evidente che nessuno di quelli che esprime questo tipo di opinioni ha mai vissuto 48 ore dentro un ospedale.
Allora vi sfido.
Sono reduce da un soggiorno al San Gerardo di Monza.
Chi vuol passare con me 48 ore di fila e vedere cosa succede ?
La netta sensazione è che i vertici si occupino di questioni che qualsiasi scalcagnato rag. Fantozzi sarebbe in grado di gestire, trascurando i veri obiettivi che una struttura ospedaliera, da me PAGATA, si deve porre.
Per essere chiaro per vertici intendo AST e ASST.
Quando iniziamo ?
Umberto Dassi
marcello
Vista da questa prospettiva la situazione sembra non essere disastrosa, ma a ben guardare l’attuale gestione del ssn non è sostenibile. 3,2 osti letto per 1000 abitanti sono insufficienti e impongono dei tempi di attesa che diventano mesi per gli interventi più comuni, per esempio quelli ortopedici che coinvolgono la polazione più anziana. Il Regno Unito spende il 7,5% del PIL e ha 1,5 mln di pazienti in liste di attesa di oltre 6 mesi con carenze di personale paramedico e medico stimate in decine di migliaia di unità (si veda il Guardian per le recenti inchieste sul tema). O siamo dei geni o siamo dei maghi nel gioco delle tre carte. Propendo per la seconda. I dati sulle carenze correnti e attese del personale medicoe paramedico sono note. I contratti a termine, spesso della durata di tre mesi, la norma. Nei reparti i medici strutturati sono sempre meno, mentre si diffonde il modello della partita iva. I prono soccorso nelle grandi città sono dei luoghi che non fanno onore a un paese civile, tanto meno alla seconda manifattura della UE. Il tema è sempre lo stesso un’assicurazione sanitaria universalistica richiede che tutti, ripeto, tutti contribuiscano pagando le tasse. Questa storia della soending review è ormai logora. Non si investe abbastanza in sanità, istruzione e assistenza perchè abbiamo circa 70 mld di euro di evasione di gettito IVA e IRPEF l’anno. A qunado una seria rifrma dell’IRPEF e dell’IVA che faccia pagare un po’meno, ma che soprattutto faccia pagare tutt
Motta Enrico
Come è scritto nell’articolo, la spesa pubblica sanitaria in rapporto al PIL è più bassa in Italia (6,5%) rispetto ad altri paesi come Francia e Germania. Ma si tenga presente che il PIL pro capite in quei paesi è piu alto, per cui in valore assoluto la differenza è ancora maggiore, nel senso che noi spendiamo di meno.Questa differenza ha probabilmente alcune cause negative come la minore copertura di prestazioni ambulatoriali o dentistiche, ma rimangono anche cause positive, tutte da studiare, compresa la spending review.