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Come calcolare la “giusta” età pensionabile

Oggi l’età pensionabile è legata all’aspettativa di vita. Che però è diversa tra Nord e Sud e per livello di istruzione. Ecco come permettere il pensionamento anticipato e senza penalità a chi ha un lavoro gravoso, con un costo sostenibile per lo stato.

La vita si sta allungando per tutti?

La riforma del 2011 (legge 3 agosto 2009, n. 102), che lega l’età pensionabile dei lavoratori all’aspettativa di vita media in Italia, ha permesso di contenere l’altrimenti esplosiva spesa pubblica per le pensioni, ma a quale “prezzo”? La principale critica mossa alla legge è la drastica riduzione della flessibilità di uscita dal mercato del lavoro per i lavoratori più anziani. La riforma, d’altra parte, ha le sue fondamenta nella continua crescita dell’aspettativa di vita che, nel caso dell’Italia, si prospetta essere dai 2 ai 3 mesi ogni due anni. La vera sfida, oggi, è comprendere se gli effetti che derivano dall’aumento dell’aspettativa di vita siano equamente distribuiti.

Recenti studi dell’Associazione italiana di epidemiologia (2019) hanno evidenziato dati preoccupanti riguardo all’allargamento del divario nelle aspettative di vita tra individui che differiscono per regione di residenza e per livello di istruzione. Sono notevoli sia le differenze tra Nord e Sud (un anno a parità degli altri fattori), sia le differenze per livello di istruzione, tra un individuo in possesso di almeno un titolo di studi universitario e uno con al massimo un diploma di licenza media (3 anni per gli uomini e 2,5 anni per le donne).

Perché allora un manager di una multinazionale (probabilmente con un livello di istruzione universitario) e un metalmeccanico devono andare in pensione alla stessa età, quando è molto più probabile che il primo viva più anni di quanto ci si aspetti e che il secondo ne viva di meno?

La proposta

Secondo l’Istat, l’attuale sistema pensionistico, ante imposte, risulta regressivo e attuarialmente iniquo. Il trend di divergenza dell’aspettativa di vita per livello di istruzione, insieme alla rigidità dall’uscita del lavoro, pongono grandi sfide all’equità attuariale della prestazione pensionistiche dei lavoratori in settori che fanno parte dell’attuale classificazione dei lavori gravosi e usuranti. Infatti, scomponendo la probabilità di morte per le sue cause, si osserva che individui che svolgono lavori gravosi hanno una probabilità maggiore di morire per cause legate a infortuni e malattie, croniche e non, rispetto a individui che svolgono lavori non gravosi, le cui principali cause di mortalità sono legate a patologie della terza età. In altre parole, la probabilità che un lavoratore raggiunga l’attuale aspettativa di vita diminuiscono drasticamente se questi svolge un lavoro gravoso e usurante.

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Fortunatamente, una “cura” che possa alleviare gli scompensi di trattamento, dovuti alla differenza patologica delle aspettative di vita, esiste e si basa sul ricalcolo dei coefficienti di trasformazione tenendo conto delle differenti aspettative di vita. Nella tabella 1 riportiamo un esempio numerico della proposta, basato sulle stime e classificazioni dell’Associazione italiana di epidemiologia (2019).

Tabella 1 – Simulazione

Il “caso A” evidenzia come l’attuale sistema sia regressivo e non rispetti i principi di equità attuariale. In particolare, gli individui con aspettativa di vita più alta e in possesso di almeno un titolo di studio universitario di primo ciclo (H) tendono a ricevere più di quanto hanno versato nel sistema(benefici pensionistici>montante contributivo). Il contrario è vero per individui con aspettativa di vita inferiore e con al massimo un diploma di licenza media (L). Detto in altri termini, chi vive e guadagna di meno “paga” il surplus pensionistico(benefici pensionistici –  montante contributivo)di chi vive e guadagna di più.

Il “caso B” mostra il principio alla base della proposta. Semplicemente tenendo in considerazione le differenze nell’aspettativa di vita e utilizzando coefficienti di trasformazione (lordi) differenti, è possibile rispettare l’equità attuariale e allo stesso tempo rispettare i vincoli di bilancio.

Il “caso C” mostra come, rispettando il pareggio di bilancio, sia possibile convertire il surplus di beneficio pensionistico, 10.425 euro (differenza tra beneficio pensionistico caso B e quello al caso A), in uno “sconto” sull’età di pensionamento tale che, individui in condizioni socioeconomiche non favorevoli (L) possano andare in pensione già a 65,9 anni, mentre gli individui con un livello di istruzione elevato (H) continueranno a farlo a 66,7 anni.

Il “caso D”, infine, mostra lo stesso effetto descritto nel “caso C”, ma con un finanziamento dalla fiscalità generale che permetterebbe di ridurre ulteriormente l’età di pensionamento (65,7 anni).

In quest’ultimo caso, sulla base delle previsioni del numero delle pensioni di vecchiaia, i beneficiari stimati secondo i criteri di eleggibilità nei primi 5 anni (2025-2030) sarebbero 193.250 (10 per cento delle nuove domande), con un costo medio di 30.301,43 euro per pensionato e un costo totale di 5.855.751.347,50 euro, quasi sei miliardi. I costi potrebbero diminuire se si considerasse un sistema di tassazione più progressivo sulle pensioni molto generose elargite dai precedenti sistemi. Inoltre, è importante sottolineare come questa proposta lasci inalterato il metodo di calcolo del beneficio pensionistico e non influenzi le decisioni di pensionamento degli individui più agiati.

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In sintesi, la proposta permetterebbe un “pensionamento anticipato”, senza penalità, ai lavoratori che realmente ne avrebbero bisogno, a un costo sostenibile per lo Stato e limerebbe il cosiddetto “scalone” generato da “quota 100”.

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24 commenti

  1. Savino

    La pensione deve avere come fine solo l’accompagnamento ad una terza-quarta età dignitosa, a prescindere dal ruolo che si è avuto in età lavorativa. Un ex generale dell’esercito o un ex netturbino, attorno ai 90 anni, hanno le medesime esigenze psico-fisiche ed entrambi, di sicuro, non possono masticare il pane con i propri denti; è, quindi, superfluo e non sostenibile dare al primo fino a 10-12 volte tanto quanto percepisce il secondo. Inoltre, alla luce delle problematiche esposte, forse in Francia hanno avuto ragione a protestare contro l’abolizione di 42 procedure ad hoc per andare in pensione.

    • Luigino

      Il ragionamento sull’equivalenza delle necessità a 90 anni ci potrebbe anche stare (e la conseguente osservazione sul differenzile tra pensioni). Ma allora di conseguenza non fai pagare durante la vita contributi ben maggiori al generale se poi non glieli vuoi restituire in pensioni. fai pagare a tutti un livello base di contributi ed il resto per pagare le pensioni di chi è già in quiescenza lo prendi alzando la fiscalità generale.Le ricordo che il nostro sistema è a ripartizione: la pensione pur bassa dell’ex operaio oggi in pensione la paga il generale ancora al lavoro con i suoi contributi.

      • Savino

        Sono d’accordo con lei. Alle casse pubbliche interessa coprire la pensione con i contributi. Tutti i problemi odierni nascono dal fatto che un gran numero di pensioni (grandi e piccole) sono eccessive rispetto ai contributi versati prima del 1995, epoca in cui l’INPS era un caos.S

        • Gianni

          Certo. I lavoratori privati hanno pensioni ben maggiori del contributivo versati, godendo di consistenti contributi figurativi, cigo cigo naspi mobilità ordinaria speciale e in deroga. Chi paga?

          • Savino

            Non solo. Anche per certi lavoratori statali, parastatali, pubblici ed ex pubblici (si pensi ai ferrovieri e ai tranvieri di una volta) la pensione erogata, alla fine, è maggiore rispetto ai contributi effettivamente versati.

  2. Giuseppe GB Cattaneo

    Questo è un buon inizio per un ragionamento sensato sulle pensioni

  3. emilio

    Caro FIRRITO questo genere di analisi scontano errori grossolani e inevitabilmente sistematici: le previsioni sulla durata della vita riflettono in ritardo i mutamenti della società. Lo spiego con un esempio: se domani inventassero un farmaco o una improvvisa scoperta scientifica permettesse di sapere che la vita degli esseri umani si allunga di 20 anni per tutti cosa accade? i tuoi calcoli saltano tutti in quanto dovresti ipoteticaemente richiamare dalla pensione chi ci è andato ed ora ha ancora una eta che scopri rende abile al lavoro e soprattutto perché salterebbero tutti i calcoli delle coperture fatti in precedenza !!! Ovviamente qualora accadesse il contrario (cioè la vita si accorcia di 20 anni per una epidemia) tutti starebbero zitti perché invece le coperture diventerebbero maggiori. Detto questo esempio, meglio ricordare le innumerevoli persone a cui è stato consentito di andare in pensione quando avevano 40 anni o i tanti che ricevono sussidi per qualche ragione (da cassa integrazione ad altri e non mi riferisco al reddito di cittadinanza) che gravano sui conti dell’INPS e chiederci come mai prima nessuno faceva i tanto semplici calcoli che ora fai tu. Detto anche questo forse è l’ora che in qualche modo se non è più garantito il posto di lavoro a vita, se non sono più garantite tante cose se non sia il momento di fare una modifica che permetta di rendere più equo un sistema che equo non è e che come è stato fatto scarica tutti gli oneri su chi ancora lavora.

    • Matteo Firrito

      Caro Emilio,
      in Italia, come anche il altri paesi, l’indicizzazione delle pensioni all aspettativa di vita implica aggiustamenti biennali che tengano conto dei “mutamenti della società” di cui lei parla. “I miei calcoli” ritraggono lo stato attuale delle cose nel nostro ordinamento e le garantisco che shock esogeni dell’aspettativa di vita possono essere tranquillamente tenuti in considerazione dalle attuali formule, che già tengono in considerazione le variazioni dell’aspettativa di vita. Inoltre, le vorrei ricordare che quando viene maturato il diritto al trattamento pensionistico questi non può essere modificato retroattivamente da qualsivoglia variazione demografica e politica altrimenti, se tutto ciò fosse possibile, lo stato avrebbe già “richiamato” a lavorare i famosi baby pensionati di cui parla. In conclusione, ci terrei a ricordarle che l’informazione promossa da questa piattaforma ha come scopo principale quello di stimolare il dibattito su temi di attualità. Questo articolo ha l’unico scopo di sottolineare che con un piccolo aggiustamento all’attuale sistema si potrebbe migliorare sostanzialmente le condizioni di individui che hanno lavorato duramente per tutta la loro carriera senza fare il solito assistenzialismo così in voga in questa stagione politica. Buona giornata.

  4. Gianpiero Dalla Zuanna - professore di demografia a Padova

    Caro Firrito, il problema delle sue simulazioni è che tiene conto della speranza di vita alla nascita, mentre andrebbe considerata quella attorno all’età pensionabile, che non è riportata nella fonte che citi, ma su
    https://www.istat.it/it/archivio/184896
    Dai calcoli istat risulta che la differenza per titolo di studio alto e basso della speranza di vita a 65 anni era molto minore di quella da te considerata, ossia 1.5 anni per gli uomini e 1.0 per le donne. Quindi, i suoi risultati vanno profondamente rivisti, e risultano assai ridimensionati.

    • Matteo Firrito

      Caro Dott. Dalla Zuanna, in merito alla metodologia di calcolo ho seguito ciò che la letteratura internazionale propone. Sicuramente, come lei afferma, utilizzando l’aspettativa di vita a 65 anni i numeri sono ridimensionati a discapito di tavole di mortalità con meno osservazioni. I risultati qui riportati non hanno l’aspirazione di dover fornire le stime puntuali della proposta, bensì quella di evidenziare le attuali problematiche nel nostro sistema pensionistico. In conclusione, il trend nelle differenze di aspettativa di vita è in continuo aumento da 10 anni e se questi risultati sono, secondo lei, sovrastimati, in 5-10 anni non lo saranno più. La ringrazio per la sua critica costruttiva.

    • QualeWelfare

      Non esattamente come dice lei, prof. Dalla Zuanna, vi sono varie fonti, tra le più accreditate cf. Ardito, Costa e Leombruni “Differenze sociali nella salute ed equità del sistema pensionistico italiano” in Jessoula e Raitano (a cura di), Focus tematico della Rvista delle Politiche Sociali ” n.3.2019:
      “si osserva una differenza nell’aspetta-tiva di vita a 65 anni tra le professioni di tipo manuale e intellettuale di circa 2-3 anni per gli uomini e di circa un anno per le donne. Nono-stante l’utilizzo di un diverso indicatore socio-economico, il divario è simile alle stime prodotte dall’Istat secondo il livello di istruzione, per le quali un uomo di 65 anni senza o con un basso titolo di studio ha una aspettativa di vita di 2,2 anni più bassa rispetto a chi è in possesso della laurea (1,3 per le donne; Istat, 2019). Un dato che è interessante rilevare è che al crescere del livello di dettaglio usato per la classifica-zione della condizione socio-economica aumentano gli svantaggi osser-vati: il differenziale fra i due estremi delle classi sociali è di 1,5 anni con quattro classi sociali a confronto (Leombruni e al., 2015), 2,95 con otto classi sociali a confronto e infine di 5 anni fra gli estremi delle 22 pro-fessioni analizzate in d’Errico e al. (2017).” Sarà il caso di pensarci…bravo Firrito per averlo fatto.

  5. Daniele

    Ancora una volta le pensioni vengono considerate solo dal punto di vista assistenziale e non previdenziale. Se un lavoro è rischioso o usurante deve dare diritto a un pensionamento anticipato, ma a fronte di una contribuzione più elevata. Il maggiore costo porterebbe ad uno stimolo alla riduzione dei rischi e dei carichi di lavoro. Non capisco perché si scarichino sempre e solo le esternalità sul sistema e mai su chi le genera.

    • QualeWelfare

      ..è semplice, perchè lo stato, che rappresenta la collettività politica organizzata, può decidere di assumersi l’onere di tutelare, con trattamenti ispirati a criteri di equità sostanziale, i lavoratori che svolgono mansioni usuranti e/o gravose e che, nello svolgerle, erogano un servizio utile alla stessa collettività. Tutto qui..

  6. Mahmoud

    Un sistema quale quello proposto (i) disincentiva allo studio, (ii) non tiene in considerazione che un lavoro può essere usurante in un periodo storico o della propria vita lavorativa ma non in un altro, (iii) che la mobilità del lavoro prevede e prevederà sempre più in futuro che si facciano lavori differenti (a volte usuranti e a volte no) e singolarmente non ben classificabili nell’una piuttosto che nell’altra categoria. Una modifica che cerchi di matchare l’aspettativa di vita (nonché la capacità di lavorare in nero parallelamente alla percezione di pensione, pur non senza difficoltà pratiche comunque inferiori) sarebbe solo un vaglio della situazione di salute del singolo: una segretaria 62enne in cura chemioterapica deve ancora lavorare 5 anni con una certa difficoltà e magari con un’aspettativa di vita analoga o inferiore al periodo residuo di lavoro dovuto, un capocantiere della stessa età in perfetta salute può trovarsi in una situazione autonoma rispetto al tipo di lavoro. A prescindere da zona geografica di residenza (provenienza?) e titolo di studio.

    • Matteo Firrito

      Caro Mahmoud, in ordine: il disincentivo allo studio, se esiste, è davvero insignificante in quanto un ragazzo che inizi ora un percorso di studi universitario riceverà la pensione in media tra 40 anni. In secondo luogo, la “lista”dei lavori gravosi e usuranti è aggiornata da un’apposita commissione parlamentare permanente istituita nel 2018. In conclusione, questa proposta non va ad alleviare le problematiche dei casi limiti, come quello che lei riporta, bensì cerca di rispondere all’esigenze di una grossa fetta della popolazione, infatti questa proposta si incentra sul correggere le pensioni di vecchiaia, ovvero la formula del trattamento pensionistico di base più richiesto dagli italiani . Inoltre, è importante ricordare che oltre ai trattamenti pensionistici esistono altre forme di supporto a lavoratori che versano in gravi casi di salute che non siano più capaci di lavorare.

  7. Segnalo che scrivere “La riforma del 2011 (legge 3 agosto 2009, n. 102), che lega l’età pensionabile dei lavoratori all’aspettativa di vita media in Italia”, è un’incoerenza logica, una contraddizione in termini e, in definitiva, un’informazione errata. Che alimenta la DISINFORMAZIONE ormai mondiale sulla sopravvalutata Riforma delle pensioni Fornero e una cancellazione della ben più severa Riforma SACCONI, le cui misure vengono, appunto, attribuite erroneamente da TUTTI (inclusi gli esperti, i docenti e i ministri del Lavoro) alla Riforma Fornero. Come pure l’allungamento dell’età di pensionamento di vecchiaia a 67 anni o anticipata a 41 anni e 3 mesi. Anche a causa della poco chiara formulazione delle norme, tendenti al plagio, da parte della professoressa Fornero: una legge pienamente in vigore (SACCONI) non ha bisogno di essere confermata da una legge successiva (Fornero). L’adeguamento alla speranza di vita è stato, appunto, introdotto dalla Riforma SACCONI col DL 78/2009, L. 102/2009, art. 22-ter, comma 2, due anni prima che arrivasse il Governo Monti-Fornero. E poi modificato dal DL 78/2010, L. 122/2010, art. 12, commi da 12-bis a 12-quinquies, e, per la decorrenza (2013, quando effettivamente è decorso), dal DL 98 del 6.7.2011, L. 111/2011, art. 18, comma 4.

    • Matteo Firrito

      Caro Vincesko,
      come può notare vi è un link collegato al D.L. che rimanda alla gazzetta ufficiale dove viene chiaramente specificato che si tratta di una legge di conversione del D.L. del 2009 che giustamente lei indica come prima indicizzazione delle pensioni all’ aspettativa di vita. In altre parole, il nostro ordinamento recepisce la norma del 2009 nel 2011 con opportune modifiche dovute ai ben noti problemi economici dell’Italia in quegli anni. Inoltre, vorrei sapere dove viene citata la “riforma Fornero” nel mio articolo visto che mi accusa di disinformazione. Aggiungo che quando si analizzano delle fattispecie del nostro ordinamento è buona norma considerare le ultime “versioni” della norma e non le versioni precedenti.

      • Caro Matteo, contrasto la DISINFORMAZIONE sulle pensioni (che ha fatto 60 milioni di vittime, oltre all’estero) dal 2011. Ho scritto anche un saggio. E un centinaio di lettere “circolari agli autori degli strafalcioni, tutti esperti di pensioni. E un dialogo infinito anche con Mazzaferro (v. anche sotto). 1. La riforma delle pensioni del 2011 è la Riforma Fornero. 2. C’è anche SACCONI, ma sono modifiche e integrazioni della sua riforma del 2010. 3. Che lei forse non conosce neppure, o sottovaluta fortemente, considerato che è molto più severa della Riforma Fornero, anche se nessuno la nomina. 4. Anche lei è riuscito a non nominarla né prima, né dopo (strano che lei affermi che è corretto nominare la modifica, peraltro futura, e non la norma originaria). 5. E’ stato SACCONI a introdurre l’adeguamento alla speranza di vita, ma lei forse ignora che lo ha modificato sostanzialmente nel 2010 e ulteriormente nel 2011. PS: Se clicca su Vincesko, trova le mie lettere, le ultime delle quali sono state al Sole 24 Ore (anche sulla paternità dell’adeguamento), al Corriere della Sera, all’INKIESTA, …, al Ragioniere Generale dello Stato, proprio sull’errata interpretazione della decorrenza dell’adeguamento biennale (deciso da Fornero), sulla quale, dopo aver ricevuto il sostegno del Segretariato Gen. del Quirinale, che ha trovato fondate le mie osservazioni, ho un’interlocuzione da due mesi e mezzo con la Direz.Gen. Previdenza, ma il funzionario delegato per la risposta è quasi sempre ass

    • Pippo Calogero

      Quindi mi faccia capire LE DONNE sono discriminate, a prescindere da fascia di reddito e condizione sociale?

    • Pippo Calogero

      Quindi mi faccia capire: LE DONNE sono discriminate a prescindere da fascia di reddito e condizione sociale? O stiamo parlando di un tabù, di un postulato privo di alcun supporto metrico/quantitativo di fronte al quale è meglio desistere? Trovo alquanto paradossale che si parli di una categoria tanto ampia in termini assoluti nel 2019. Le donne sono quindi discriminate a prescindere? Donne del Sud, del Nord, con laurea, senza laurea, con figli, senza figli? Io credo di no. Mi stupisce che lei intenda, giustamente, andare nel dettaglio analitico delle diverse condizioni territoriali e culturali del dato statistico, ma opponga un veto, a mio giudizio ideologico, alla mia obiezione. Dal punto di vista quantitativo e computazionale, a quanto ammonta lo svantaggio di genere delle donne, considerando che vivono in media 4 anni in più? E’ in grado di calcolarlo?

  8. Pippo Calogero

    La disparità tra categorie sociali più ampia in assoluto, in termini di aspettativa di vita, è però quella tra uomini e donne, che ammonta a ben quattro anni. Se si pone come problema di giustizia sociale la disparità tra livelli di istruzione ed aree geografiche, è lecito dedurre che le donne debbano essere considerate una categoria privilegiata? E’ lecito affermare che una donna istruita del Nord si fregherà i soldi della pensione di un uomo con basso livello d’istruzione del Sud? Essendoci questo macroscopico divario di genere che porrebbe una questione che è un tabù culturale, temo che la sua ipotesi non abbia molto futuro.

    • Matteo Firrito

      Caro Pippo,
      come ha giustamente sottolineato in Italia, come nel resto del mondo, esiste il problema di diseguaglianze di genere. È infatti già previsto dal nostro legislatore che le donne, nonostante vivano in media più degli uomini, vadano un anno prima in pensione rispetto agli uomini. Questa disparità di trattamento è necessaria in quanto le donne sono in genere penalizzate durante la loro vita lavorativa a causa degli stereotipi di genere che portano le donne a spendere molto più tempo degli uomini nella cura dei figli(lavoro essenziale nella società non retribuito) a discapito del tempo da poter impiegare per lavori retribuiti . L’effetto redistribuivo del sistema pensionistico non si basa solo sulla ricchezza dell’individuo ma anche sul suo genere, almeno fin quando il gap salariale delle donne non sarà fortemente diminuito.

      • Mirko Zanette

        Una presunta discriminazione (perchè mostrare i dati a valle non dimostra un nesso causale, vi sono mille fattori e concause, che non è il caso di snocciolare qui) viene ufficialmenmte compensata, a mo di “risarcimento”, quindi criminalizzando gli uomini. Una cavolata pazzesca, che niente può giustificare, a mio parere.
        In ogni caso, penso che anche il principio enunciato nell’articolo abbia delle falle, in quanto individua nelle caratteristiche “discriminanti” “a valle”, cioè con dati macro ex post, delle motivazioni per creare discriminazioni certe a monte. Infatti un dirigente del nord potrebbe essere in condizioni di salute tali da avere un’aspettativa di vita bassa (es. tumore in corso), mentre il contadino del sud potrebbe benissimo godere di ottima salute. La verità è che al momento della pensione si dovrebbe lasciare che sia un algoritmo coi parametri dati da uno screening medico, a determinare l’aspettativa di vita. Personalizzandolo nessuno avrebbe più il diritto di ritenersi discriminato. Sempre parlando di contributivo, beninteso.

      • Pippo Calogero

        Evidentemente lei non ha colto la natura del mio commento. Io sono convinto che in Italia il livello di reddito femminile sia sovvenzionato, altroché. A quanto pare il gender salary gap in ambito pubblico è del 4%, mentre in ambito privato è del 17%: a mio avviso la differenza tra i due dati è sostanzialmente una sovvenzione pubblica al reddito femminile. Io penso che la differenza di remunerazione nel settore privato sia un dato strutturale dovuto alla rischiosità media del lavoro e ad altri fattori antropologici, quali la scelta delle carriere. Se questa mia ipotesi fosse vera non esisterebbe alcuna base per un riequilibrio del gap salariale in primis e della rendita pensionistica in secundis. Alla luce di tutto ciò, il fatto che per decenni le donne siano andate in pensione fino a 5 anni prima degli uomini, con un’aspettativa di vita di 4 anni superiore, non può che configurarsi come privilegio di genere. Dubito che lei possa, numeri alla mano, smentirmi, ma sono sempre disposto a riconoscere di aver torto.

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