L’industria italiana è in difficoltà e a volte viene data per morta. Ma i dati di lungo periodo dicono che si può essere più ottimisti. Molto dipende dal settore. Per esempio, farmaceutica e meccanica mostrano risultati assai positivi.
L’industria in Italia
Tutte le favole cominciano con un “c’era una volta”. In questo caso, il “c’era una volta” riguarda un paese industriale, l’Italia. E la favola dice che dopo l’entrata del nostro paese nell’euro e della Cina nel Wto (2001-2002), dopo la crisi finanziaria ed economica successiva al fallimento di Lehman Brothers (2008), dopo la recessione del 2011-2013 e dopo la recente mini-recessione o stagnazione del 2018-2019, l’industria italiana è in declino, forse irreversibile.
Per valutare quanto ci sia di vero nella favola è utile mettere in fila i dati sui volumi di produzione del settore industriale (inclusi cioè manifatturiero, estrattivo e utilities), per l’Italia e per gli altri grandi paesi dell’Eurozona, cioè Germania, Francia e Spagna. A cominciare dal 1991 fino a oggi.
Il periodo 1991-2000, prima dell’euro e prima della Cina nel Wto
I dati dicono che, fatto 100 il livello della produzione industriale nel 1991, l’indice della produzione industriale italiana salì fino a 116,3 nel 2000, a riprova del fatto che la crisi valutaria del 1992 fu assorbita efficacemente con le svalutazioni del 1992-1993 e del 1995 insieme con le politiche di moderazione salariale introdotte nel 1993. Alcuni settori trainarono più di altri la crescita italiana di quegli anni: la meccanica (la cui produzione in volume raggiunse un valore di 143,6 nel 2000) e la farmaceutica (che arrivò a 129,6). A frenare la performance media dell’industria, invece, il settore automobilistico e l’abbigliamento che riuscirono sì a crescere, ma totalizzando un avanzamento cumulato inferiore di dieci punti rispetto alla media dell’industria.
La dinamica dell’industria italiana di quel periodo è peggiore di quella della Francia (il cui indice nel 2000 fece segnare un 120,6) e della Spagna (che si attestò a 124,1), ma meglio della Germania (che si fermò a 108,1, a conferma del fatto che in quel periodo era “the sick country of Europe”, copyright The Economist). In poche parole, lo sviluppo tedesco fu bruscamente rallentato dai costi della riunificazione post-1990, cioè dalla necessità di incorporare la Germania dell’Est con il cambio tra il marco dell’Ovest e marco dell’Est fissato a una parità uno a uno, economicamente inverosimile ma politicamente azzeccata. Una parità buona per il potere d’acquisto dei tedeschi dell’Est, ma cattiva per la competitività della Germania unita.
Gli anni dell’euro e della Cina nel Wto
Tra il 2001 e il 2002 l’industria europea viene colpita da due importanti cambiamenti: l’adozione – tra i paesi dell’Eurozona – di una moneta unica che entra nelle tasche di più di 300 milioni di persone con un cambio irreversibile; e l’entrata della Cina nel Wto, che apre nuovi mercati per le produzioni più sofisticate e adatte alla nuova classe media cinese, come auto e treni tedeschi, ma che rende obsolete le produzioni europee di beni a minor contenuto tecnologico (tipiche di Italia e Spagna).
La dinamica della produzione industriale fino al 2007 rispecchia queste tendenze e dice che in questo periodo la Germania esce dalla crisi e ricomincia a crescere a tassi che non si vedevano da prima della riunificazione, anche in virtù delle riforme del mercato del lavoro adottate in quegli anni. La produzione industriale tedesca balza dal 108,2 del 2000 al 128,4 del 2007 (corrispondente a un +18 per cento), recuperando il divario accumulato negli anni post-riunificazione rispetto a Francia e Italia, ma non completamente rispetto alla Spagna.
Negli stessi anni appare in crescita l’industria anche negli altri grandi paesi dell’Eurozona, ma meno che in Germania. Gli indici di produzione industriale salgono da 124,1 a 134,9 in Spagna (+8,7 per cento), da 120,6 a 125,1 (+3,7 per cento) in Francia e da 116,3 a 118,0 (+1,5 per cento) in Italia. Nel nostro paese, la ripresa del 2006-2007 non basta a compensare il calo della produzione industriale in volume sperimentata nel 2001-2005. In particolare, è in crisi il settore automobilistico che in sette anni perde il 24 per cento dei suoi volumi di produzione. Anche l’agroalimentare vede scendere i volumi, ma il dato è più che compensato dagli andamenti in valore (qui non mostrati). Ancora positivo e leggermente sopra la media l’andamento della farmaceutica italiana che fa registrare un +2,2 per cento.
Se poi si guarda ai dati in valore del Pil del settore manifatturiero emerge un’evidenza ancora più positiva.
Il Pil manifatturiero dell’Italia raggiunse infatti un livello di circa 340 miliardi di euro nel 2008, superiore del 10 per cento rispetto ai livelli di metà anni Novanta e del 5 per cento più grande rispetto ai valori di inizio anni Duemila (nella figura compaiono dati trimestrali che devono essere moltiplicati per quattro). Un segno che il rallentamento nella dinamica dei volumi di produzione industriale è stato compensato da un aumento dei prezzi industriali che, a seconda delle aziende, è nei casi di insuccesso un riflesso di maggiori costi di produzione e nei casi di successo evidenza di acquisito potere di mercato e miglioramento qualitativo dei prodotti venduti.
Figura 3 – Pil del settore manifatturiero in Italia – in valore
Le due recessioni post-Lehman e post-crisi dell’euro
Dal 15 settembre 2008 arriva la crisi mondiale e così in quasi tutti i settori dell’industria italiana si osserva un netto crollo dei volumi. Tra il 2007 e il 2013 scompare circa il 23 per cento della produzione industriale. In soli sei anni l’indice (che era pari a 100 nel 1991) scende dal suo valore massimo pre-crisi di 118 – raggiunto nel 2007 – al minimo di 90,9 nel 2013. Sotto la spinta della delocalizzazione di interi segmenti di produzione nell’Est Europa (dall’Italia soprattutto in Romania) e in Cina, il settore automobilistico perde più di metà della produzione, ma anche la meccanica e l’abbigliamento vedono scendere la produzione interna del 20 per cento. Una contrazione ancora più marcata è evidente in Spagna, dove l’indice della produzione industriale scende di circa 40 punti da 134,9 a 95, corrispondente a un calo percentuale del 29 per cento.
Nello stesso periodo, la produzione industriale in Francia diminuisce “solo” del 12 per cento e in Germania si attesta nel 2013 solo di poco sotto ai livelli del 2007. Rimane che in quegli anni la deindustrializzazione attraverso delocalizzazioni produttive è stata una strategia attuata anche dalle aziende tedesche, con mete preferite i vicini paesi dell’Est Europa come Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia. Mentre la produzione industriale scendeva sia pure di poco, il Pil tedesco in volume aumentava di 3,5 punti percentuali.
Il ritorno dell’industria tra il 2014 e il 2018 (con stop nel 2019)
Dal 2014 riparte la crescita in Europa e anche la produzione industriale si riprende. Grazie pure a qualche episodio di “reshoring” (la rilocalizzazione di attività produttive in precedenza spostate fuori dai confini dei paesi di origine), la produzione industriale torna a crescere in tutti e quattro i grandi paesi dell’Eurozona. Come si vede nella figura, a differenza della ripresa 2001-2007, il ritorno alla crescita avviene però in modo diseguale tra le economie, con l’industria tedesca e spagnola che crescono più rapidamente (rispettivamente del 7 e del 9,5 per cento sul 2013) mentre Francia e Italia fanno registrare numeri comunque positivi, ma percentualmente più contenuti (rispettivamente pari al 5,1 e al 3,3 per cento). I divari iniziali del 2013 arrivano dunque amplificati nel 2017. A trainare la crescita italiana tra il 2014 e il 2018 è il settore automobilistico che con un aumento dell’85 per cento rispetto ai minimi del 2013 ritorna ai livelli di produzione industriale del 2009, eliminando cioè il crollo produttivo avvenuto a cavallo della crisi dell’euro del 2011-2013. La produzione di autoveicoli rimane però ancora dell’8 per cento al di sotto dei livelli del 2007. Il settore farmaceutico – per cambiare – sale più del 12 per cento, doppiando la crescita media dell’industria.
Dall’inizio del 2018 la ripresa rallenta ovunque in Europa, ma lo stop è più evidente in Italia e Germania che cadono in una recessione industriale che porta i volumi di produzione tedeschi giù del 5 per cento e quelli italiani dell’1,5 per cento, mentre Francia e Spagna mostrano solo un sostanziale azzeramento della crescita. A guidare la discesa del settore industriale il meno 18 per cento del settore automobilistico nel 2019 rispetto ai livelli del 2017 (un calo molto simile si ha in Germania e in Italia). E nel 2019 anche il farmaceutico si è fermato sui massimi del 2018 senza proseguire la sua corsa.
L’industria italiana non è scomparsa
Al netto delle oscillazioni degli ultimi trenta anni, qui brevemente ricordati, non si può certo dire che l’industria italiana sia scomparsa.
I dati ripotati nei grafici dicono che oggi mancano 5 punti rispetto ai livelli di produzione del 1991 per l’industria nel suo complesso. Ci sono settori con numeri molto peggiori della media: tra quelli in netta contrazione l’automobilistico (il cui indice si ferma a 67,7) e l’abbigliamento (con un indice pari a 74,7). Ma, al contrario, la meccanica e il farmaceutico mostrano indici pari a 129,7 e 166,1. Rispetto a trenta anni fa, i volumi di apparecchi meccanici e prodotti farmaceutici sono maggiori rispettivamente del 30 e del 66 per cento. Come dire che anche in un’Italia in crisi crescere si può.
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emilio
Riguardo al settore farmaceutico chiedo all’autore dell’articolo se i “volumi” misurati ritengo in termini di fatturato non risentano positivamente dell’incremento della spesa farmaceutica (quindi esclusivamente domanda interna di un mercato in gran parte protetto) dovuta in buona parte anche dall’aumento del prezzo di vendita dei farmaci in rapporto alle dosi contenute (è ben nota la pratica per ottenere un aumento del fatturato vendendo confezioni simili ma più piccole). Inoltro gioverebbe molto un confronto con analoghi comparti nei paesi già utilizzati per il confronto nei grafici presenti nell’articolo. Grazie, Emilio
francesco daveri
I dati riportati riguardano la produzione industriale in volume, non i fatturati. il prossimo pezzo sarà sui fatturati.
emilio
Il volume dei farmaceutici risente dello stessa pratica (riduzione delle dosi) se si contano le confezioni prodotte (e non vendute) sarebbe utile avere qualche dato in più in proposito e poi un bel confronto anche su questo settore con gli altri paesi ci potrebbe far capire se l’aumento dei volumi è di tutti o solo il nostro (italiano intendo). grazie
Luigi Calabrone
Prof. Daveri, sarebbe interessante, riguardo all’industria farmaceutica italiana, conoscere anche qualche dato qualitativo, poiché c’è il sospetto che la grande crescita del volume farmaceutico sia dovuto alla componente dei generici, dei prodotti fuori brevetto e delle materie prime di base. Su tali produzioni i margini di profitto sono molto bassi e la ricerca molto modesta – si limita ai processi produttivi e alle formulazioni, in concorrenza, per es. con gli indiani. Grandi volumi e scarso guadagno. Questo sospetto è fondato?
Catullo
Nell’articolo si confronta l’industria italiana con quella di tre stati europei. Sarebbe interessante confrontare tra se anche le regioni italiane per capire come si comportano singolarmente.
asdrubale
Salve Professore, una domanda relativa alla riunificazione della Germania citata nel post. Potrebbe spiegarmi il senso della frase: “Una parità buona per il potere d’acquisto dei tedeschi dell’Est, ma cattiva per la competitività della Germania unita” ?. Magari con qualche esempio, perchè mi pare che dipenda da vari aspetti e punti di vista e non riesco appunto a capire gli aspetti salienti del ragionamento che ne sta alla base. Grazie in anticipo se potrà rispondermi e comunque grazie lo stesso (anche se non avrà tempo di farlo) per l’interessante post.
Asdrubale Sciavga
Salve Prof. Daveri, vorrei farle una domanda circa la frase inerente la riunificazione della Germania contenuta nel post: “Una parità buona per il potere d’acquisto dei tedeschi dell’Est, ma cattiva per la competitività della Germania unita”. Più che altro vorrei capire, magari con qualche esempio, il ragionamento alla base di tale affermazione che non mi è chiaro. Grazie.
francesco daveri
La frase è precisa anche se un po’ breve e forse criptica per i non addetti ai lavori. intendevo dire che quando hanno riunificato la Germania hanno stabilito un cambio uno a uno tra il marco dell’ovest (la valuta di un’economia forte) e quello dell’est (la valuta di un’economia debole e inefficiente). La logica economica avrebbe dunque suggerito di convertire un marco dell’est a un valore (molto) più basso rispetto a quello dell’ovest. In questo modo però la Germania unita sarebbe partita con il piede sbagliato. E così la politica (il Cdu Helmut Kohl) decise di far prevalere un requisito di uguaglianza tra “tedeschi”. Le conseguenze furono che si salvaguardò il potere d’acquisto dei tedeschi dell’st, evitando che la ex-Germania Orientale sprofondasse in recessione come invece avvenne nelle altre economie ex socialiste. ma garantire salari alti in presenza di bassi livelli di produttività vuol dire far saliere il costo del lavoro per le imprese tedesche dell’est. il che peggiorò la competitività dell’industria tedesca. A pesare sulla competitività si aggiunse anche la necessità di finanziare con tasse gli altri trasferimenti destinati ai tedeschi orientali. Un ragionamento non troppo diverso da quello che si fa quando si confronta nord e sud Italia.
vittoria
a mio modesto parere ogni paese non dovrebbe dipendere da altri , ma dovrebbe pensare al benessere dei suoi abitanti e produrre e consumare in un circolo chiuso . in questo modo non ci sarebbe neanche necessita di confrontarsi con altri paesi