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Prestazioni ai superstiti: perché mantenerle ancora oggi*

La pensione ai superstiti punta a garantire il mantenimento del tenore di vita e tutelare contro il rischio di povertà vedovi o orfani. È vero che cresce la partecipazione al mercato del lavoro delle donne, ma resta uno strumento utile di protezione sociale.

Quanto valgono le pensioni ai superstiti 

La pensione ai superstiti è una prestazione economica erogata ai familiari di pensionati (pensione di reversibilità) o lavoratori (pensione indiretta) deceduti che abbiano maturato un numero minimo di contributi. La prestazione spetta – nella maggior parte dei casi – al coniuge superstite e ai figli, se minori, inabili di qualunque età o studenti. Le pensioni ai superstiti sono una componente importante della spesa pubblica. Secondo le cifre riportate nel Rapporto annuale dell’Istituto nazionale di previdenza sociale (Inps) del 2019, nel 2018 sono ammontate al 2 per cento del Pil e sono state erogate a 4,4 milioni di beneficiari. Secondo i più recenti dati Ocse, l’Italia è il paese con la più alta spesa in prestazioni ai superstiti in percentuale del Pil (figura 1).

La pensione ai superstiti ha l’obiettivo di garantire il mantenimento del tenore di vita e di tutelare i superstiti contro il rischio di povertà negli stati di vedovanza e orfananza. Prestazioni di questo tipo sono state istituite in molti paesi avanzati in un’epoca in cui gli uomini procuravano il reddito familiare e il tasso di occupazione femminile era molto basso. La minore e più discontinua partecipazione delle donne al mercato del lavoro e i loro salari in media più bassi risultano in una minore copertura della popolazione femminile nei sistemi pensionistici di tipo contributivo e in una maggiore incidenza della povertà in tarda età. Secondo gli ultimi dati Ocse, nei paesi del gruppo, il divario di genere pensionistico è di circa il 25 per cento e il tasso di povertà relativa è del 17 per cento tra le donne sopra i 75 anni – 7 punti percentuali in più rispetto agli uomini (Oecd, 2019). Le prestazioni ai superstiti hanno dunque un ruolo importante nella riduzione del gender gap pensionistico e dell’incidenza della povertà tra le donne anziane.

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Uno strumento ancora valido?

L’aumento dell’occupazione femminile, la riduzione del tasso di fertilità e la progressiva chiusura del divario di genere nell’aspettativa di vita sollevano importanti questioni in merito all’opportunità di mantenere le pensioni ai superstiti. Il tema è stato ed è al centro del dibattito in molti paesi Ocse, alcuni dei quali hanno abolito le pensioni ai superstiti a favore di un sistema di tutela basato sul reddito anziché sullo stato di vedovanza (Oecd, 2018). Tra questi, Australia, Lettonia, Nuova Zelanda, Norvegia, Regno Unito e Svezia, dove oggi il rischio di vedovanza è coperto con misure assistenziali o schemi privatistici.

Le pensioni ai superstiti sono ancora da considerarsi uno strumento utile e necessario? Un lavoro condotto nell’ambito del programma VisitInps cerca di dare una risposta alla domanda, utilizzando le ricche basi di dati ammnistrativi disponibili presso l’Inps. Sebbene la maggior parte dei beneficiari sia di età avanzata e, dunque, già in fase di pensionamento, ogni mese circa 4 mila individui di età inferiore a 55 anni perdono il coniuge e diventano beneficiari della pensione ai superstiti erogata dall’Inps. Il 90 per cento sono donne e il 45 per cento ha figli a carico.

Lo studio analizza il comportamento di questa popolazione di superstiti dopo la riduzione del beneficio pensionistico introdotta dalla legge 335/95, cosiddetta riforma “Dini”. La riforma ha diminuito la percentuale di calcolo del beneficio per i superstiti i cui coniugi sono deceduti dal 1° agosto 1995 in poi e il cui reddito eccede date soglie (tre, quattro e cinque volte la pensione minima in vigore nell’anno). I superstiti di coniugi deceduti prima del 1° agosto 1995 ricevono il 60 per cento della pensione del coniuge (a prescindere dal proprio reddito), mentre coloro i cui coniugi sono deceduti dal 1° agosto in poi ricevono una percentuale che può scendere al 45, 36 o 30 per cento. La riforma di fatto introduce due regimi pensionistici paralleli in cui individui, che possono considerarsi ragionevolmente molto simili, ricevono – a parità di condizioni reddituali – prestazioni di livello sostanzialmente diverso. La metodologia empirica consiste nel confrontare il loro comportamento sul mercato del lavoro dopo la morte del coniuge.

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Il risultato principale è che i coniugi superstiti che subiscono una riduzione del beneficio aumentano in modo sostanziale la loro offerta di lavoro, incrementando la partecipazione al mercato del lavoro e posticipando la data di pensionamento. In questo modo compensano la minore prestazione ricevuta con un aumento del reddito da lavoro. Una reazione positiva? Non necessariamente. Lo studio riscontra infatti una maggiore propensione all’utilizzo di congedi familiari: un risultato che suggerisce la presenza di vincoli familiari, che possono rendere gravoso l’aumento dell’offerta di lavoro.

Da un punto di vista economico, la decisione di intraprendere un’azione potenzialmente “costosa” come l’aumento dell’offerta di lavoro davanti alla riduzione della pensione indica che il superstite attribuisce un valore economico importante alla (mancata) prestazione e dunque adotta quel comportamento per recuperarlo. In altri termini, l’aumento dell’offerta di lavoro è, almeno in parte, un segnale dell’importanza del sostegno economico ai nuclei familiari cui viene a mancare il reddito di uno dei coniugi. Alla luce di queste considerazioni e dei risultati dello studio, possiamo dire che le pensioni ai superstiti sono ancora oggi uno strumento utile di protezione sociale, specialmente per le fasce più svantaggiate della popolazione.

 

* L’articolo è estratto dal progetto di ricerca “When Income Effects are Large: Labor Supply Responses and the Value of Welfare Transfers” di Giulia Giupponi. Il progetto è stato condotto nell’ambito dell’iniziativa VisitiINPS Scholars dell’Inps. Le opinioni espresse sono esclusivamente quelle dell’autore e non riflettono necessariamente quelle dell’Inps.

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Le donne hanno pensioni più basse. Ma spesso non lo sanno

  1. Michele Lalla

    L’articolo è interessante e ne condivido lo spirito perché, se si leggono i criteri sul sito dell’INPS, si scopre che costituiscono un sistema di grande equilibrio e saggezza, come risulta anche in questo articolo. Quello che non si riesce a capire, dai documenti facilmente accessibili (a uno scadente navigatore come me?) è se le risorse impegnate derivano da un computo adeguato degli importi delle pensioni in modo da poter disporre di un fondo di tutti da impiegare in questa azione di sostegno e, quindi, sono risorse dei pensionati, oppure sono un sostegno “al rischio di povertà/ difficoltà”. In questo ultimo caso, non sarebbe peregrino/ avventato riprogettarlo, magari con la tessa filosofia e tenendo conto anche del livello (importo) di pensione e di ricchezza del beneficiario e scorporarlo dall’INPS o chiarendo a carico di chi vanno quelle risorse, anche per trasparenza verso i cittadini e verso chi chi paga le tasse … Volevo scrivere qualche anno fa un articolo proprio su questo tema, fui preceduto da un collega (su Lavoce.info) … senza questa informazione, che non è facile da reperire, anche la tesi qui sostenuta lascia un certo grado di perplessità.

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