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Per l’Europa il rischio del “troppo poco, troppo tardi”

La Commissione europea annuncia un primo piano per affrontare la crisi da coronavirus: è insufficiente. La mancanza di una capacità fiscale comune e di un coordinamento efficace della politica fiscale è il tallone d’Achille della Unione monetaria.

La Ue e gli effetti economici del coronavirus

Di fronte all’emergenza del coronavirus, qualcosa si muove in Europa. Ma l’impressione è che siamo di nuovo di fronte alla sindrome del “troppo poco, troppo tardi”. Ancora una volta, la mancanza di una capacità fiscale comune e di un coordinamento efficace della politica fiscale si dimostra il tallone d’Achille della Unione Europea e in particolare dell’Unione monetaria. Al contrario, ci possiamo aspettare che nella riunione di oggi 12 marzo la Banca centrale europea, unica istituzione genuinamente federale dell’Unione monetaria, vari ulteriori misure di supporto. Ma in questo caso, a differenza della crisi finanziaria del 2010-2011, gli strumenti della politica monetaria non sono particolarmente adatti ad affrontare lo shock.

Sugli effetti economici del coronavirus è già stato scritto molto, su questo sito e più in generale sulla stampa, oltre agli interventi degli organismi specializzati. Nessuno sa quali saranno gli effetti economici del coronavirus nel medio periodo, perché molto dipenderà dalla durata dell’emergenza e dalla capacità di rispondervi da parte delle autorità economiche. È uno shock che colpisce simultaneamente l’offerta e la domanda, per il blocco della produzione da un lato e per gli effetti sulla domanda di beni e servizi da parte di consumatori e imprese. Ma mentre per l’offerta si può fare poco nell’immediato, eccetto mettere in campo tutti gli strumenti possibili e immaginabili per evitare che lo shock conduca a chiusure definitive delle imprese e per proteggere i lavoratori di quelle in crisi, molto si può fare per sostenere la domanda. La politica monetaria non è del tutto priva di strumenti, nonostante i tassi di interesse già estremamente bassi. Per esempio, la Bce può incrementare temporaneamente il programma di acquisto di titoli pubblici, per evitare che paesi come il nostro – certamente soprattutto per responsabilità proprie – si possano trovare in difficoltà in un momento in cui invece hanno bisogno di spendere. Può allentare i vincoli regolatori sul sistema bancario, per evitare gli effetti pro-ciclici di un peggioramento degli attivi delle banche sull’offerta di credito alle aziende. Può prestare a tassi negativi alle banche commerciali purché queste continuino a garantire il credito alle imprese e così via.

Tutto questo è certamente utile, ma sarebbe necessario anche un forte supporto da parte della politica fiscale. Il miglior modo per sostenere le imprese è mantenere la domanda per i loro prodotti e ridurre l’incertezza sugli sviluppi futuri dell’economia per sostenere gli investimenti. Poiché l’economia europea era già in fase di forte rallentamento prima della diffusione del virus, si rischia una recessione continentale. La soluzione migliore sarebbe dunque un intervento fiscale coordinato da parte di tutti i paesi europei, in dimensioni non dissimili da quanto avvenne di fronte alla crisi internazionale del 2009, che agisca d’anticipo e che ristabilisca la fiducia tra gli operatori economici.

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Per essere chiari, il problema qui non è quello delle regole fiscali europee. A parte il fatto che in molti paesi queste non mordono, le regole europee già prevedono la possibilità di ottenere flessibilità di bilancio di fronte a eventi eccezionali. E in tutti i casi gli interventi una tantum, come verosimilmente sono molte delle politiche temporanee che verranno messe in atto per contrastare gli effetti economici del virus, non sono conteggiate dalla Commissione nel calcolo del deficit strutturale.

Cosa si dovrebbe fare

Gli interventi immaginabili sul piano fiscale possono essere diversi. Come suggerito da molti, l’Eurozona, o qualche suo veicolo (per esempio, il Meccanismo europeo di stabilità), sfruttando i tassi di interesse straordinariamente bassi, potrebbe varare una forte politica di investimenti pubblici su beni europei meritori (come infrastrutture, ambiente, sanità) finanziandoli con emissioni di euro bonds, cioè titoli garantiti dall’insieme dei paesi dell’euro. Questi potrebbero essere acquistati dalla Bce e dagli altri operatori finanziari e andrebbero nella direzione di creare quel “safe asset” di cui i sistemi finanziari moderni sembrano avere disperatamente bisogno.

L’intervento europeo potrebbe essere poi accompagnato da misure più settoriali nei diversi paesi, per tener conto delle diverse situazioni, magari ancora in parte coordinati a livello europeo (per esempio, una riduzione temporanea congiunta delle aliquote Iva a sostegno dei settori più colpiti dalla crisi). Un’Autorità fiscale europea, con poteri di intervento, come ipotizzata da molti, non ultime le massime autorità europee nel Rapporto dei cinque presidenti, metterebbe probabilmente subito in campo interventi di questo tipo. Il problema è che una simile autorità ancora non esiste e la Commissione non ha né i poteri né le risorse per agire in questa direzione.

Cosa si farà

Dunque, dobbiamo far affidamento sulla volontà dei singoli paesi. Ma con tutta probabilità questi agiranno con lentezza e difficoltà, in discussioni infinite nel Consiglio, e prenderanno decisioni serie solo se e quando la pressione del virus sulle proprie economie e le proprie opinioni pubbliche li convincerà che non si può fare altrimenti. In particolare, è difficile sfuggire all’impressione che in molti paesi “nordici”, a cominciare dalla Germania, gli effetti economici del virus vengano sottovalutati e ancora percepiti come un problema italiano e di qualche altro paese, piuttosto che una crisi collettiva potenzialmente esistenziale. Anche gli interventi annunciati dalla presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, in particolare con il Corona Response Investement Initiative, al di là della loro limitatezza (7,5 miliardi di fondi strutturali, che possono arrivare a 17-18 contando il co-finanziamento dei singoli paesi), sembrano ancora pensati più per aiutare i paesi in difficoltà che per predisporre un intervento congiunto di tipo macro-economico.

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La diffusione del virus, certo non auspicabile, potrebbe cambiare la prospettiva anche nei paesi più riottosi, ma fino ad allora è difficile immaginare un intervento congiunto di dimensioni sufficienti. Si rischia di nuovo la sindrome del “troppo poco, troppo tardi”. Speriamo di sbagliarci.

 

Aggiornamento ore 17 di giovedì 12 marzo 2020

Come atteso, la Bce si è oggi mossa per sostenere l’economia dell’euro a fronte della crisi generata dal coronavirus. Gli interventi sono in linea con le attese: i tassi di interesse sono rimasti invariati (che senso avrebbe avuto tagliare ancora tassi già negativi?), mentre sono stati rafforzati i meccanismi per fornire liquidità al sistema finanziario e bancario tramite nuove aste di liquidità a lungo termine (Ltro), incluse quelle targeted (Tltro) per sostenere i prestiti a medie e piccole imprese. Entrambe sono a tassi negativi, con ulteriori premi (interessi ancora più negativi, fino allo -0,75 per cento) per le banche che manterranno inalterati i livelli di prestiti. In pratica, la Bce finanzia direttamente le banche commerciali perché continuino a prestare al settore privato. Inoltre il programma di acquisto di titoli, compresi i titoli pubblici (il cosiddetto Quantitative Easing), è stato ulteriormente rafforzato con una previsione di spesa di ulteriori 120 miliardi fino alla fine dell’anno, che solo “eventualmente” devono convergere alle quote del capitale della Bce detenuto in ciascun paese – che significa che se necessario la Bce può comprare temporaneamente anche più titoli da parte di un paese che si trovasse in difficoltà finanziaria.

Il pacchetto è anche interessante e la presidente della Bce non ha mancato di sollecitare i paesi dell’euro con forza perché intervengano in modo coordinato e congiunto anche con la politica fiscale. Ma Christine Lagarde ha fatto un errore (non è chiaro quanto voluto): a precisa domanda ha risposto che “non è compito della Bce eliminare gli spread”, dimenticandosi del compito di una banca centrale di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza in una situazione di crisi finanziaria. È la logica opposta al “whatever it takes” di Mario Draghi. I mercati non mancheranno di reagire.

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Le parole che avremmo voluto ascoltare da Lagarde

  1. Henri Schmit

    Gli altri paesi commettono gli stessi errori dell’Italia, 2 settimane più tardi, con un esempio concreto accanto, quindi con meno scuse per errori. La Germania continua a difendere la proporzionalità (come il ns PCM 15 giorni fa) per difendere l’economia. Il neo-ministro francese esclude limitazioni eccessive al movimento di persone, poi delle merci, appena decise in Italia. Impareranno presto dall’Italia, sfortunata, mal governata (governo debole, responsabili inadeguati in numerose posizioni apicali, incertezza sulle competenze e le responsabilità, decisioni demagogiche), ma coraggiosa. Non è la politica fiscale il tallone d’Achille dell’UE o dell’euro-zona, ma è l’Italia il malato politico (demagogia, inefficienza, cinismo) e eco-finanziario (debito, crescita, occupazione, investimenti, produttività) dell’euro-zona e dell’Europa. Questo virus ci sarà ancora quando l’epidemia sarà superata grazie ad imponenti investimenti pubblici, fatti in deficit e cofinanziati dall’UE. Basta prendersela con l’UE! Certo i presidenti del Consiglio e della Commissione non sono brillanti. Ma siamo noi l’Europa! A Bruxelles decidono i governo nazionali. L’unica reazione valida alla crisi (insieme a misure congiunturali indispensabili per sostenere consumo e produzione, p.ex. rinunciare agli acconti fiscali calcolati sull’imponibile 2019) sarebbero riforme strutturali radicali: abolire strumenti demagogici sbagliati, abolire l’IRAP, snellire le procedure amministrative (Giaccalone, De Nicola)

  2. bob

    la surreale situazione ha fatto venire alla luce l’arretratezza, il provincialismo, la bigottaggine di questo Paese. Un Paese ormai fermo da 40 anni. Non servono grandi esempi ne bastano due banali: la spesa on-line lo smart working. La reazione a queste due “novità” è stata simile al comportamento che ebbero gli indigeni d’America quando gli misero in mani il “bastone tuonante” ( fucile). Una burocrazia inutile che blocca qualsiasi iniziativa ( assumere una persona ci vogliono 15 gg di scartoffie inutili) . Il popolo dei “bocaloni” ha scoperto che una tranquilla signora da casa può fare tutti i certificati che vuole, nel rispetto della qualità della vita, della famiglia senza dover stare in auto per 4 ore nel traffico cittadino. Che scoperta!!!!Che “Paese” !!

  3. Henri Schmit

    Oggi, a distanza di tre settimane, a Omnibus La7 il direttore di Le Formiche chiede al presidente della regione Sicilia di spiegare chi fra autorità regionale o centrale è responsabile dell’acquisto degli strumenti di respirazione artificiale e dei dispositivi di protezione del personale sanitario. L’interpellato dà risposte evasive che non rispondono alla domanda della competenza che probabilmente è delle regioni le quali accusano lo stato di non aver prevenuto la situazione di scarsità del materiale e di non saper supplire all’incapacità obiettiva delle regioni. Se questo non è confusione, non solo delle regole ma anche dei compiti effettivamente svolti e delle responsabilità?

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