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Primo maggio, il lavoro in tempi di lockdown

Quest’anno i lavoratori non possono celebrare il 1° maggio in piazza. D’altra parte, c’è poco da festeggiare: con il blocco delle attività, un terzo dei lavoratori italiani è fermo. E sono particolarmente colpite le fasce più deboli della popolazione.

Le conseguenze del blocco sul mercato del lavoro

Il 1° maggio è alle porte. Quest’anno non sarà possibile festeggiare in piazza i lavoratori. Ma mai come quest’anno una riflessione sul mercato del lavoro è necessaria. Da almeno due mesi, infatti, in Italia e in quasi tutto il mondo, il mondo del lavoro è stato sconvolto dallo shock coronavirus. Il 9 marzo l’Italia è entrata in una prima fase di lockdown, seguita da un ulteriore inasprimento delle misure restrittive il 22 marzo. Quali sono state finora le conseguenze sul mercato del lavoro?

Per rispondere a questo cruciale quesito utilizziamo i dati del progetto Repeat (REpresentations, PErceptions and ATtitudes on the Covid-19), che dalla metà di marzo ha raccolto i dati sulle percezioni, le attitudini e i comportamenti dei cittadini di circa dieci paesi. In Italia, due inchieste campionare sono state svolte rispettivamente il 27-30 marzo e il 15-17 aprile su un campione di mille individui, rappresentativi della popolazione italiana.

Il quadro che emerge è preoccupante. A fine marzo, dopo quasi tre settimane di lockdown, il 47 per cento dei lavoratori intervistati aveva smesso, anche solo temporaneamente, di lavorare. Il 35 per cento continuava a lavorare da casa e solo il 18 per cento dal regolare posto di lavoro. Dunque, quasi metà degli occupati era ferma, mentre per alcuni la mole di lavoro è cresciuta. Un terzo di chi continua a lavorare riporta infatti di aver aumentato il numero di ore dedicate al lavoro. Malgrado l’utilizzo di diversi strumenti per continuare a dare reddito ai lavoratori temporaneamente fermi (cassa integrazione guadagni, ferie, maternità e bonus vari), l’improvviso stop ha avuto conseguenze immediate. I dati della seconda indagine (effettuata a metà aprile) mostrano infatti che per un terzo degli italiani il reddito di marzo si è ridotto rispetto a quello di gennaio.

Cosa succede negli altri paesi

Il progetto Repeat consente di comparare questi dati con quelli di altri paesi, come mostrato dalla tabella 1. In Germania, dove le rilevazioni sono state effettuate il 20-21 marzo, il 53 per cento degli occupati continuava a lavorare nel regolare posto di lavoro, il 24 per cento da casa e solo il 23 per cento si era fermato. In Francia, i dati del 31 marzo-2 aprile indicano uno stop per il 28 per cento dei lavoratori, con il 34 per cento che continua da casa e il 38 per cento sul posto di lavoro usuale. Un quadro simile emerge per il Regno Unito. La rilevazione del 25-26 marzo mostra che il 32 per cento degli occupati si è fermato, il 46 per cento continua da casa e il 22 per cento sul posto di lavoro. Anche la percentuale degli occupati il cui reddito si è ridotto a marzo, rispetto a quello di gennaio, è inferiore in questi paesi. Sicuramente il maggior impatto del coronavirus sul mercato del lavoro italiano è in parte dovuto alla tempistica del lockdown, con il nostro paese che ha preceduto Francia e Germania di almeno una settimana e il Regno Unito di due.

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Chi soffre di più

Tuttavia, i dati aggregati nascondono importanti differenze – soprattutto in Italia. L’impatto del coronavirus e delle misure restrittive adottate per contrastarlo ha effetti molto diversi sui lavoratori, in funzione ad esempio del tipo di occupazione. Come evidenziato nella Figura 1, la percentuale di occupati che dopo 6 settimane hanno smesso di lavorare è più elevata tra i blue collar (codici Isco 6-9: operai, artigiani, agricoltori) che tra i white collar (codici Isco 1-2: professionisti, dirigenti e quadri superiori) o i lavoratori dei servizi (codici Isco 3-5: tecnici, impiegati, quadri intermedi).

Figura 1 – Il mercato del lavoro a sei settimana dal lockdown.

Gran parte della differenza è dovuta al ricorso allo smartworking: i white collar continuano a lavorare, seppur da casa, ben tre volte di più dei blue collar. Simili differenze emergono in base al livello di istruzione tra laureati e non (in particolare con i lavoratori senza diploma superiore) e in base alla classe di reddito tra lavoratori del quarto e del primo quartile di reddito familiare. Dai dati Repeat non emergono invece differenze sostanziali nell’impatto sull’occupazione in base al sesso, all’area geografica e alla classe di età.

I risultati della seconda indagine, i cui dati sono stati raccolti il 15-17 aprile, ci consentono di avere qualche informazione sull’andamento del mercato del lavoro a quasi sei settimane dall’inizio del lockdown. La percentuale dei lavoratori fermi sembra diminuire, passando dal 47 al 34 per cento. La riduzione è dovuta sia a un aumento del lavoro da casa (dal 35 al 41 per cento) che sul regolare posto di lavoro (dal 18 al 25 per cento). Tuttavia, anche in questo caso il dato aggregato nasconde importanti differenze. Infatti, l’occupazione tra i white collar aumenta decisamente (il numero dei lavoratori fermi si riduce dal 39 al 18 per cento) grazie a un maggior utilizzo del lavoro da casa: dal 47 al 66 per cento. Simile l’andamento tra i lavoratori dei servizi. Invece la percentuale dei blue collar che lavorano recupera un po’ (il numero dei lavoratori fermi si riduce dal 58 al 50 per cento) grazie soprattutto all’aumento delle persone attive sul regolare posto di lavoro, dal 24 al 36 per cento.

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Dopo lo shock iniziale del lockdown, che ha costretto quasi un lavoratore su due a fermarsi, c’è stato dunque un evidente sforzo di aggiustamento sul mercato del lavoro italiano. Le modifiche più rilevanti sono avvenute soprattutto grazie alla diffusione del lavoro da casa – malgrado non fosse una forma di lavoro molto diffusa in Italia e malgrado le difficoltà legate a infrastrutture digitali carenti rispetto agli altri paesi. Ciononostante, a sei settimane dal lockdown, un terzo dei lavoratori è fermo. E i maggiori disagi sono concentrati tra gli occupati che già prima del coronavirus rappresentavano le fasce più deboli della popolazione.

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L’Europa in recessione ma la Germania meno degli altri

  1. Gianni Alioti

    Perché non comparate i dati tra i vari paesi nel mese di aprile? Visto che la pandemia si è diffusa con tempi sostanzialmente diversi tra l’Italia e il resto d’Europa. Probabilmente avreste la sorpresa che in Germania e non solo, quasi tutte le attività industriali (ad esclusione di quelle effettivamente essenziali) sono ferme. A differenza dell’Italia dove nelle regioni maggiormente industrializzate (e anche le più colpite dal covid-19 per morti e contagiati) dal 50 al 70 per cento delle attività industriali sono sempre rimaste aperte.

    • bob

      il problema va letto anche sotto altro aspetto: ci serviva questa emergenza per comprendere l’utilità palese dello smart working? Strumento che oltretutto ha evidenziato in termini reali una maggiore produttività? Oltre che una migliore qualità della vita familiare e sociale? A mio avviso ho fatto l’esempio di questo aspetto per sottolineare che il problema principale di questo Paese è la mancanza assoluta di una qualsiasi politica industriale, gestionale, ormai da 40 anni. La bacchetta magica non sempre funziona ( o quasi mai) staremo a vedere

      • ElenaS

        Che lo smartworking abbia aumentato la produttività è tutto da dimostrare: Semmai ha aumentato le ore di lavoro. Una migliore qualità della vita? Sociale no di certo, quanto a quella familiare, varia molto a seconda con quante persone si vive e in quanti mq….

        • bob

          ..non solo ha aumentato la produttività in termini quantitativi ma anche qualitativi. Provi a parlare con le mamme che escono, soprattutto nelle grandi città, alle 6 di mattina e rientrano alle 21 di sera e sono tante. E’ sottinteso che da domani non tutti possono e devono lavorare da a casa, lo smart working uno strumento in più che aiuta a superare determinate criticità ( direi anche assurdità) siamo un Paese che ancora usa il timbro con l’inchiostro nero di Far West memoria. Sarebbe da parlare di asili, di scuole a tempo pieno etc. Visto poi che manca forza lavoro in edilizia, agricoltura e ristorazione sarebbe da parlare anche dei tanti, troppi lavori inutili e di ” culi al caldo” che la cosiddetta ” vita sociale ” la fanno davanti al distributore automatico del caffè

  2. PB

    Indubbiamente esiste un problema di stratificazione sociale che si riflette sull’esposizione ai rischi occupazionali.
    Non per fare il pedante, ma ISCO 3-5 xo’ non corrisponde in toto ai lavoratori dei servizi:
    3 Technicians and associate professionals
    4 Clerical support workers
    5 Service and sales workers
    I dati sugli individui occupati andrebbero incrociati coi dati sui settori produttivi…
    Ad ogni modo: class still counts!

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