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Sorpresa: i lavoratori temporanei guadagnano di più*

Se si tiene conto della storia occupazionale di ciascun individuo, i lavoratori a tempo determinato vengono pagati più dei loro corrispettivi “indeterminati” al momento dell’assunzione. E a ottenere i vantaggi maggiori sono le donne e i giovani.

Il boom dei contratti a tempo determinato

I contratti a termine sono stati introdotti in Italia negli anni Sessanta, ma per lungo tempo sono rimasti un’assoluta minoranza nel mercato del lavoro. Secondo l’Ilo, i lavoratori italiani a tempo determinato rappresentavano circa il 5 per cento del totale nel 1993. Tuttavia, da allora il loro numero è cresciuto molto, arrivando a costituire oltre il 17 per cento degli occupati nel 2018 (fonte Eurostat), ovvero il 68 per cento dei nuovi accessi nel mercato del lavoro italiano nell’ultimo quadrimestre dello stesso anno (fonte MLPS).

Le ragioni del boom sono da ricercare, da una parte, nella maggiore richiesta di flessibilità avanzata dalle aziende per poter competere maggiormente in un’economia sempre più globalizzata e, dall’altra, nelle riforme del mercato del lavoro avvenute negli anni Novanta, in particolare il cosiddetto pacchetto Treu del 1997 e la legge Biagi del 2003. Le due riforme hanno incentivato l’utilizzo dei contratti a tempo determinato, estendendo i campi di applicazione dei contratti già esistenti (ad esempio, l’apprendistato) e introducendone di nuovi (ad esempio, i co.co.co e i contratti di lavoro interinale), con l’obiettivo di facilitare l’ingresso e la permanenza nel mercato del lavoro, ovvero di aumentare i tassi di occupazione.

Quanto dovrebbero guadagnare i lavoratori temporanei

La teoria economica suggerisce che i contratti a tempo indeterminato – rispetto a quelli a termine – abbiano un valore intrinsecamente superiore per i lavoratori, grazie alla loro più lunga durata attesa e, dunque, alla più bassa probabilità di registrare periodi di disoccupazione in futuro. Per tale ragione, secondo la teoria di compensazione dei differenziali salariali proposta da Sherwin Rosen nel 1986, si ipotizzava che, a parità di competenze, i lavoratori avessero bisogno di ricevere un “premio” che compensasse le peggiori condizioni lavorative per accettare un contratto a tempo determinato (invece che indeterminato).

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Nonostante il teorico auspicio, la letteratura economica ha invece collezionato finora un largo numero di studi che evidenziano, nel confronto salariale tra indeterminati e temporanei in diversi paesi Ocse (tra cui l’Italia), un gap negativo a scapito di questi ultimi. Le eccezioni sono rare: solo in Giappone, Norvegia e Australia sono stati rilevati premi per i lavoratori a termine.

Nuovi risultati

Tutti i precedenti studi soffrono tuttavia di due importanti limiti. In primo luogo, si basano su dati campionari, i quali tendono a offrire un orizzonte temporale limitato, che non consente di analizzare la storia lavorativa di un individuo. Inoltre, gli studi che hanno riscontrato una penalizzazione salariale per i temporanei fanno riferimento al complesso dei contratti attivi in un certo istante temporale. Questa scelta metodologica, in particolare, rischia di comparare lavoratori con caratteristiche diverse, distorcendo le stime in favore dei contratti indeterminati. Infatti, è probabile che i lavoratori più produttivi vengano osservati in contratti a tempo indeterminato a seguito di “promozioni” dal contratto a termine dell’assunzione iniziale, in aggiunta ai criteri di selezione più stringenti al momento dell’assunzione.

Un nostro recente lavoro utilizza dati amministrativi (archivio Inps-Losai) che hanno permesso di tenere conto della storia lavorativa degli individui negli ultimi 16 anni e con riferimento a circa 3 milioni di nuove assunzioni nel periodo 2005-2015. Ne emerge una nuova evidenza. In rottura con i precedenti studi riguardanti il nostro paese, si rileva per chi viene assunto con un contratto a termine – rispetto a un altro con le stesse caratteristiche demografiche e la stessa storia lavorativa assunto a tempo indeterminato – un salario giornaliero all’assunzione più elevato dell’11 per cento.

Dalla tabella 1 si osserva che il premio salariale all’entrata è maggiore per le categorie “emarginate” nel mercato del lavoro (per esempio, donne e giovani), per le quali i posti di lavoro permanenti potrebbero apparire più preziosi per via dei più alti tassi di disoccupazione. Non stupisce pertanto che il premio salariale risulti più alto tra i lavoratori a basso salario e in anni di crisi economica. Nello studio rileviamo, inoltre, un forte decremento del premio nell’anno di introduzione del Jobs act (2015), ossia quando i contratti a tempo indeterminato sono stati resi più attraenti per le aziende, probabilmente al punto da condurle a “pagare” meno per la flessibilità.

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Sono diverse, a nostro parere, le ragioni che possono spiegare la stima del premio salariale ai lavoratori temporanei. Indubbiamente il premio potrebbe rappresentare un indennizzo per la maggior incertezza occupazionale, nonché uno stato di necessità dell’azienda. Rimane tuttavia difficile da stabilire se sia adeguato a coprire le condizioni di lavoro più sfavorevoli, tenendo conto delle preferenze dei lavoratori e la loro avversione al rischio, e dunque a ridurre la dualità che esiste nel nostro mercato del lavoro.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente riconducibili alla responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente quelle di Inapp.

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  1. Michele Lalla

    Dati interessanti e, per certi versi giusti: il lavoro temporaneo DEVE costare di piú. Certamente contraddicono qualche teoria economica, il senso comune, e l’esperienza empirica sul campo. Un dubbio viene sul periodo di tempo pagato/ lavorato sui dati INPS, perché una tipica modalità diffusa di evasione nell’uso del lavoro temporaneo consiste nel fare risultare un minore tempo di lavoro al mese, che fa alzare la paga mensile e/o oraria. Avete controllato questo dato? Tanto per rilevare un punto critico. Complimenti agli autori.

  2. Emilio

    Finalmente il mercato del lavoro avrebbe secondo questo nuovo studio l’andamento che dovrebbe avere. Le spiegazioni sono a mio avviso piuttosto semplici: è come la locazione a breve termine che normalmente è più cara della locazione a lungo termine e riflette principalmente la probabilità che l’immobile in locazione abbia periodi in cui non renda. Poi ci sono ovviamente altri fenomeni come nel parallelo tra lavoro e locazioni la possibilità di non riavere facilmente l’immobile libero e la difficoltà nel liberarsi di dipendenti non più necessari. Uno studio che da un motivo contro tutti quelli che predicano che il lavoro in italia è troppo caro perché ci sono troppi contratti a tempo indeterminato e quindi ce ne vorrebbero più a tempo determinato!!!

  3. Enrico D'Elia

    I risultati dell’analisi dei dati Inps sono estremamente interessanti. Lo sarebbero ancora di più se si indagasse la retribuzione complessiva mensile o annuale invece del salario giornaliero che, nel caso del lavoro a progetto o simili ha spesso uno scarso significato. Infatti, almeno dal punto di vista legale, questo tipo di contratti non prevede un orario di lavoro, ma il raggiungimento di un obbiettivo. L’analisi esclude inoltre i lavoratori assunti con partita Iva, che formalmente non sono neanche dipendenti, ma che costituiscono ormai il grosso del lavoro “flessibile”. Per questo tipo di lavoratori parecchie evidenze aneddotiche e qualche dato fiscale sembrano smentire la tesi degli autori.

    • Amegighi

      E’ interessante il riferimento ai “lavoratori” con partita IVA, appunto formalmente non dipendenti. E’ evidente che possano essere una “stortura” del sistema, ma credo anche che, nello sviluppo tecnologico delle imprese. Penso che queste avranno sempre più la necessità di competenze che vanno ben al di là di un “dipendente”, ma sempre più di un “consulente” ai vari livelli in senso verticale (ammesso e concesso che possano avere in futuro, date le competenze sempre più estreme, dei livelli verticali).

  4. Michele

    Credere che “il premio salariale all’entrata” sia “maggiore per le categorie “emarginate” nel mercato del lavoro” è come credere che la luna sia di formaggio. Al di la delle teorie della “compensazione dei differenziali salariali”, il salario viene semplicemente determinato dal potere contrattuale tra le parti. Che le categorie emarginate abbiano un potere contrattuale superiore a zero è una rassicurante idea romantica, contraddetta dalla triste realtà.

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