A fine settembre si terrà il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Se la riforma sarà confermata dal voto popolare, probabilmente si rimetterà mano anche alla legge elettorale. In ogni caso, il ruolo del Senato andrebbe ripensato.
Le riforme in discussione
A settembre si voterà sulla riforma approvata in Parlamento per ridurre il numero dei parlamentari: i deputati passano da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Inserita inizialmente in una polemica anti-parlamentare di lungo corso, la riforma ha ora il sostegno di numerosi politici ed esperti. E una parte della maggioranza di governo insiste per modificare di conseguenza anche le leggi elettorali, disegnate nel 2017 in base al numero attuale di deputati e senatori.
La proposta di nuova legge elettorale depositata alla Camera preconizza l’abolizione dei collegi uninominali e l’elezione di tutti i deputati e senatori in modo proporzionale su liste interamente bloccate. Prevede inoltre una soglia di sbarramento nazionale del 5 e del 15 per cento nelle circoscrizioni e un diritto di tribuna per liste che superano una soglia più bassa. Alcuni partiti minori, inizialmente favorevoli, ritengono ora che le soglie debbano essere abbassate e che sia preferibile ripristinare il premio di maggioranza. Oltre allo stratagemma delle liste bloccate, che ha radicalmente cambiato il potere nei partiti e nel Parlamento a favore di capi non necessariamente eletti e nemmeno eleggibili, difendono l’altra forzatura di una maggioranza certa e immutabile.
La riduzione del numero dei parlamentari esige una riforma elettorale.
Ma perché tanti pensano che sia conveniente ridimensionare il Parlamento?
Diverse riforme costituzionali ed elettorali hanno trasformato il Senato da seconda camera conservatrice in un’assemblea pressoché omogenea con la Camera dei deputati, a parte i diritti elettorali attivi e passivi più restrittivi finora sopravvissuti e i regolamenti interni autonomi. L’omogeneità politica delle camere è auspicata espressamente sia dal Presidente della Repubblica sia dalla Corte costituzionale. Una parte della dottrina propende pure verso una maggiore uniformità dei regolamenti. Il risultato è un bicameralismo solo procedurale, con oltre 945 parlamentari indifferenziati. Visto così, il numero sembra davvero eccessivo.
D’altra parte, quasi nessuno difende la legge elettorale vigente, della quale la nuova proposta costituisce un’apprezzabile semplificazione. Nonostante ciò, ci sono buone ragioni per non essere convinti.
Quale ruolo assegnare al Senato?
Dopo due referendum costituzionali falliti, la trasformazione, forse inutile e sicuramente non necessaria per la tutela della sussidiarietà, della seconda camera in Senato federale o delle autonomie territoriali non è più all’ordine del giorno. La riduzione del numero dei parlamentari non risolve l’inutile complicazione di un bicameralismo solo procedurale. Non cambierebbe nulla, se la seconda camera avesse meno poteri, solo nelle materie che riguardano le autonomie e in quelle di rilevanza costituzionale. Se il Senato è perfettamente omogeneo, è forse preferibile rinunciarvi.
A meno di non optare per il monocameralismo realizzando una forte riduzione del numero dei parlamentari, bisogna inventare un altro Senato, composto diversamente dalla Camera, eventualmente con meno poteri, sicuramente con meno membri. Esistono modelli consolidati di seconde camere non federali elette indirettamente e con meno poteri a cui ci si può ispirare.
Con un Senato ridimensionato, il numero dei rappresentanti si ridurrebbe a 700 circa. Sarebbe un’occasione per sopprimere i 30 seggi delle circoscrizioni estere e ammettere, per i non residenti, il voto a distanza nella circoscrizione dell’ultima residenza. Nulla vieterebbe di ridurre il numero ulteriormente. La scelta deve tener conto di due parametri opposti: la rappresentanza e la capacità decisionale. Un’assemblea meno numerosa è più forte. Il numero dipende inoltre dall’obbiettivo soggettivo di rappresentatività sempre approssimativa, quindi dal modello elettorale, e cioè dalla dimensione delle circoscrizioni e dalla formula. Due modelli rispondono a queste esigenze: la suddivisione dell’elettorato in numerosi collegi e il riparto proporzionale per affinità fra candidati. Il grado di proporzionalità raggiungibile dipende sempre dal numero dei seggi.
Una legge elettorale corretta e durevole
È giusto sostenere che l’elezione del Parlamento deve essere proporzionale, a condizione di intendersi sul concetto. Nella democrazia liberale si eleggono candidati individuali. I sistemi proporzionali aggiungono all’elezione individuale governata dal principio maggioritario un limite antiabusivo fondato sul criterio di associazione fra candidati, ma non dovrebbero trasformare l’elezione individuale in mera scelta di campo. Con un numero adeguato di deputati anche un sistema uninominale, preferibilmente a doppio turno, può essere considerato sufficientemente proporzionale. L’uso di liste elettorali crea una rigidità, non necessaria, ma comunemente tollerata. Le liste bloccate perseguono invece un obiettivo diverso da quello dichiarato della rappresentatività: permettono ad alcuni attori politici di controllare le candidature e di nominare gli eletti. Si può chiedersi se è più equo un sistema uninominale a due turni in 600 collegi o un sistema proporzionale di lista bloccata con soglie del 5 o del 15 per cento. In ogni caso il primo è più democratico, più aperto, più trasparente e conduce sicuramente a scelte più libere a favore di parlamentari più responsabili. Per essere conforme il sistema di lista deve prevedere il voto preferenziale.
Un aspetto negativo del progetto di riforma elettorale è che per la quarta volta in quindici anni il legislatore modifica le regole per il suo rinnovo. I proponenti forse temono elezioni imminenti. In nessun paese democratico la maggioranza parlamentare sceglie la legge elettorale che le è più conveniente al ritmo italiano. L’abuso salta agli occhi. Un principio non scritto della normativa elettorale è che deve durare, in modo tale da permettere agli sconfitti di preparare la riscossa. Col tempo poi, tutti i sistemi elettorali conformi ai principi democratici tendono a essere equivalenti, perché gli attori si adeguano alle regole.
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Alberto Lusiani
Il sistema elettorale vigente ha pregi e difetti, non mi sembra si possa dire che sia significativamente peggiore di quello che ha sostituito e nemmeno di quello che e’ in elaborazione. Personalmente penso una parte del sistema vigente, i collegi plurinominali con relativamente pochi eletti siano un buon compromesso tra uninominale maggioritario e sistema proporzionale, hanno un effetto maggioritario connessi ai candidati e non ai partiti, e assicurano un certo livello di rappresentativita’ delle minoranze. Personalmente toglierei soglie e altri elementi che danno potere alle segreterie di partito e darei centralita’ ai candidati. Quello che pero’ dovrebbe essere proibito in Costituzione, e se possibile anche dalla UE, e’ cambiare legge elettorale ad ogni legislatura. Io farei una prescrizione ineludibile comunque che dice che ogni nuova legge elettorale non entra in vigore prima di 5 anni dall’approvazione, e non prima che si sia svolta una successiva elezione con la precedente legge elettorale.
Henri Schmit
Caro Alberto, piccole circonscrizioni sono una soluzione, se sono relativamente omogenee e se prevedono, ovviamente, il voto di preferenza; anzi basterebbe un solo voto che vale sia per il candidato sia per la sua lista (sistema finlandese). Se il riparto proporzionale è per circoscrizione, non servono soglie. In Grecia, se il Parlamento modifica la legge elettorale (come ha fatto nella precedente legislatura), questala nuova procedura si applica solo dalle seconde elezioni in avanti, a meno che sia approvata da una maggioranza dei due terzi o tre quarti.
Enzo
Questa sì sarebbe la soluzione migliore, per il paese, ma già vedo diversi capetti storcere il muso
Enrico Palma
Nell’articolo si parla di preferenze. Vorrei ricordare che le preferenze furono cancellate (Segni) perché giocando con gli incroci dei nomi si giungeva al controllo di come ogni singolo elettore avesse votato, risultando la preferenza stessa un regalo alla criminalità organizzata
Henri Schmit
Ricorda male. Il referendum abolì solo le preferenze multiple. (Copio wikipedia) “Nel gennaio 1988 Segni lanciò il Manifesto dei 31, con il quale si chiedeva l’introduzione di una legge elettorale uninominale a doppio turno ispirata al modello francese e annunciò che dal Manifesto sarebbe nato un nuovo movimento di opinione. Il 22 aprile nacque a Roma il Movimento per la Riforma Elettorale. Nel 1990 partì la richiesta di referendum e la raccolta di 600 mila firme, ma la Cassazione ammise il solo quesito sulla riduzione dei voti di preferenza, da tre a uno, nelle elezioni per la Camera dei deputati. Il referendum elettorale svoltosi, il 9 giugno 1991, ottenne quasi il 96% dei consensi.” Enrico Palma è vittima inconsapevole di un’intossicazione mediatica portata avanti da 15 anni da coloro che ci guadagnano dalle liste bloccate e dai loro consulenti remunerati, per farci credere che loro sono gli eredi delle battaglie di Mario Segni. Su questo forum un eminente professore di ingegneria elettorale mi aveva rinfacciato lo stesso argomento; gli ho risposto correggendo il fatto storico ed normativo, senza mai sentire un’ammissione dell’errore. L’errore, molto diffuso, è gravissimo perché legittima attraverso la menzogna uno stratagemma perverso che ha profondamente alterato il sistema dei partiti e il funzionamento del Parlamento. Bisogna chiarire questo errore una volta per tutte.
sandro urbani
sono quasi cinquanta anni – dalla nascita delle regioni – che si parla riforma del senato, senato delle regioni e chi più ne ha più ne metta; una riforma era stata fatta ma gli italiani l’hanno respinta , mettiamoci una pietra sopra e non ne parliamo più occupiamoci d’altro
Henri Schmit
Non voglio arrendermi. In una precedente bozza del mio pezzo (disponibile su academia.edu) propongo una soluzione innovativa per un Senato poco numeroso, con poteri solo consultivi, eletto dalla Camera, con mandati lunghi sfasati da quelli dei deputati. Non serve, in quell’ottica, una rappresentanza delle Regioni, tutelate a sufficienza nell’ordinamento vigente.
Carlo Giulio Lorenzetti Settimanni
Tramontata (almeno in questa fase politica) l’idea di mettere mano al superamento del bicameralismo paritario o con la soppressione del senato o con una significativa modifica della sua composizione e delle sue competenze, si ripropone la questione del sistema elettorale col quale chiamare alle urne i cittadini in occasione del rinnovo del Parlamento. Come giustamente sottolinea l’autore, le leggi elettorali, avendo un valore costitutivo di ogni sistema politico-istituzionale, dovrebbero durare nel tempo e non essere alla mercé di maggioranze variabili che periodicamente cercano di aggiustarle a propria misura e vantaggio, ottenendo spesso, alla prova dei fatti, risultati diversi da quelli sperati. Un buon sistema elettorale dovrebbe consentire agli elettori di scegliere i propri rappresentanti; di migliorare la selezione e la qualità della classe parlamentare e di facilitare la formazione di maggioranze il più possibile omogenee e in grado di governare per tempi ragionevoli. Il modello elettorale che, con maggiore approssimazione, consente di conseguire questi obiettivi e‘ quello maggioritario con collegi uninominali, che riduce il potere di nomina dei segretari di partito; li costringe a presentare nei collegi personalità di un certo spessore e instaura un rapporto più diretto e responsabile tra eletti ed elettori.
Henri Schmit
Sono perfettamente d’accordo, ma nell’analisi preferisco non prendere una posizione “politica” sul modello elettorale. Non giova alla causa, se, come alcuni professori di “scienze” politiche molto mediatizzati, si rifiuta l’idea della rappresentenza proporzionale. L’uninominale può essere prudenzialmente preferibile, ma non è intrinsecamente superiore a un sistema proporzionale. Il legame profondo (e non la contrapposizione) fra proporzionale e principio di maggioranza rimane inesplorato.
Enzo
Mi sembra che l’opzione per il proporzionale sia determinata da motivazioni politiche ( partitiche ?) figlie dalle recenti ( come al solito ) esperienze. In altri termini la maggior parte dei partiti opta per una soluzione che permetta loro di competere ( ed anche litigare) prima delle elezioni ma di formare maggioranze dopo ed attraverso contrattazioni , in base all’esito