Le banche centrali restano riluttanti a controllare i tassi di cambio. Come dimostra l’ultima decisione della Bce. Ma il persistere della trappola della liquidità renderà comunque inevitabile la cooperazione internazionale nella politica monetaria.
L’apprezzamento dell’euro sul dollaro
A partire da gennaio 2020, e durante la crisi generata dal Covid-19, l’euro si è apprezzato rispetto al dollaro, passando da un controvalore di 1,09 a un valore corrente di circa 1,19 (figura 1). Per la prima volta nella sua storia, la Banca centrale europea ha menzionato esplicitamente l’andamento del cambio nel proprio rapporto ufficiale. Già alla vigilia del board della Bce, il capoeconomista Philip Lane si era espresso in modo preoccupato sulla traiettoria dell’inflazione, con particolare riferimento all’effetto deflattivo proprio del recente forte apprezzamento dell’euro. Il giorno dopo la presidente Christine Lagarde ha avuto invece toni più tranquillizzanti sull’argomento deflazione, respingendo la discussione sul ruolo del cambio (“il tasso di cambio dell’euro non è un obiettivo della politica monetaria”). Si spiega innanzitutto così la delusione che ha circondato l’ultima decisione della Bce, che era molto attesa.
Quello tra tasso di cambio e politica monetaria è da sempre un rapporto pieno di visioni contrastanti. La visione tradizionale nella letteratura scientifica, quantomeno per i paesi avanzati, è che la pura flessibilità dei cambi sia un beneficio. L’argomento classico, che risale a Milton Friedman, è riassumibile così: una recessione nel paese A esercita una spinta alla caduta dei prezzi domestici relativamente ai prezzi del paese B (cioè un deprezzamento reale), favorendo le esportazioni di A verso B, e quindi il riequilibrio macroeconomico tra le due aree. Se però i prezzi relativi sono lenti ad aggiustarsi, il deprezzamento del tasso di cambio nominale della valuta di A rispetto a B può permettere che l’aggiustamento reale sia il più rapido possibile. In questa ottica, la flessibilità del cambio nominale supplisce alla rigidità dei prezzi.
In linea con Friedman, le principali banche centrali del mondo avanzato rimangono molto riluttanti a riconoscere un loro ruolo esplicito nella gestione dei tassi di cambio. La fraseologia più frequente, ripetuta in modo robotico anche da Lagarde, è che il tasso di cambio non è un “target” della politica monetaria, che deve rimanere strettamente orientata alla stabilità dei prezzi. Il tasso di cambio può avere un ruolo solo indiretto, cioè nella misura in cui le sue fluttuazioni incidano sulla dinamica dell’inflazione.
Tre ragioni per cambiare visione
Eppure, di fronte alle diverse trasformazioni strutturali dell’economia mondiale, la teoria più recente si sta allontanando dalla visione classica di Friedman, centrata sui benefici della flessibilità del cambio. Almeno tre argomenti suggeriscono che le banche centrali, contrariamente a quanto fanno oggi, dovrebbero occuparsi molto più esplicitamente della gestione dei tassi di cambio.
In primo luogo, la globalizzazione ha reso centrali le catene del valore nel commercio internazionale: la produzione di un bene è diventata frammentata in network di imprese localizzate in diversi paesi. Gli aggiustamenti del tasso di cambio incidono perciò solo marginalmente sul prezzo finale pagato dai consumatori. Ma se è così, la flessibilità del cambio diventa quasi irrilevante, anzi potenzialmente solo dannosa perché non fa altro che introdurre volatilità e incertezza nelle scelte di investimento e di consumo. Meglio cercare di contenere la volatilità.
Un secondo cambiamento strutturale che coinvolge le economie avanzate è la persistenza del limite zero sui tassi di interesse, un vincolo che riduce la capacità della politica monetaria di stimolare l’economia durante le fasi di depressione. In questa situazione, detta anche trappola della liquidità, la flessibilità del tasso di cambio può essere un boomerang. Ogni spinta deflattiva (cioè al ribasso dei prezzi, ad esempio per una contrazione della domanda o per un eccesso di risparmio precauzionale da parte delle famiglie, come nella fase attuale) spinge verso l’alto i tassi di interesse reali. Solitamente, la politica monetaria risponderebbe abbassando i tassi di interesse nominali. Ma in una trappola della liquidità scendere sotto il limite zero non è possibile: perciò maggiori tassi di interesse reali si riflettono in un apprezzamento del tasso di cambio, che rende meno costose le importazioni e rafforza l’effetto deflattivo, in una spirale che si auto-rafforza. Quanto più flessibili sono i tassi di cambio tanto più rapido sarà il circolo vizioso. È sicuramente questa oggi la principale preoccupazione della Bce, che assiste a un apprezzamento dell’euro e teme il rischio di una spirale deflazionistica.
Un terzo argomento riguarda la denominazione dei flussi del commercio internazionale. In molti paesi del mondo i prezzi dei beni esportati sono fissati nella valuta del paese di destinazione: il prezzo di una Audi venduta negli Usa è stabilito direttamente in dollari. Ciò rende i prezzi finali dei beni insensibili alle fluttuazioni del cambio: un deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro non rende un’Audi direttamente più conveniente per il mercato americano. Ancora una volta, i vantaggi dei cambi flessibili svaniscono: meglio quindi governarne l’instabilità e minimizzarne i costi.
Un incentivo a esportare la trappola della liquidità
Il dominio del dollaro negli scambi commerciali e finanziari crea però un’importante asimmetria tra Usa ed Eurozona. La totalità sia delle importazioni che delle importazioni degli Stati Uniti è denominata in dollari. Perciò un deprezzamento del dollaro rispetto all’euro (come quello attualmente in corso) ha un doppio beneficio per gli Usa: favorisce le esportazioni e non rende le importazioni più costose. Ogni aggiustamento della bilancia dei pagamenti avviene quindi principalmente dal lato delle esportazioni. L’Eurozona non ha questo privilegio: le sue esportazioni sono denominate non solo in euro, ma spesso anche in dollari. Un apprezzamento dell’euro (quale quello in corso) si riflette direttamente in un minore costo delle importazioni, contribuendo alle spinte deflattive così pericolose in una trappola della liquidità.
Emerge quindi uno dei problemi centrali del sistema monetario internazionale corrente. Con Usa e Eurozona da tempo bloccate al limite zero dei tassi di interesse, esiste un forte incentivo da parte di ciascun attore a esportare la propria trappola della liquidità a spese dell’altro paese: un deprezzamento della valuta domestica (che aiuta le esportazioni e favorisce la ripresa) induce apprezzamento della valuta estera e maggiore spinta deflattiva all’estero. Ma dato il dominio del dollaro negli scambi internazionali gli Usa sono posizionati molto meglio in questa guerra valutaria immanente. Una chiara situazione di conflitto per uscire dalla quale è necessaria cooperazione internazionale nella politica monetaria, e quindi una gestione coordinata del cambio euro-dollaro. La cooperazione internazionale nella politica monetaria non è semplice ed è questa oggi la ragione principale per cui le più importanti banche centrali del mondo rimangono riluttanti a controllare i tassi di cambio. Ma il persistere della trappola della liquidità a livello mondiale renderà prima o poi inevitabile la cooperazione.
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Marcello Romagnoli
E se uno stato, una banca centrale, emettesse soldi fornendoli direttamente a una banca pubblica che ha l’obbligo di prestarli solo all’economia reale( investimenti, sostegno agli acquisti ecc.) Non si spingerebbe verso una maggiore competitività e quindi maggiori esportazioni per superiore tecnologia?
Direte che le banche centrali non lo possono fare….le banche centrali possono fare tutto quello che si vuole facciamo se sotto il controllo democratico.
Mario Montagna
Sembra chiaro che bisogna imparare a convivere con tassi d’interesse bassissimi e con inflazione vicina a zero per un indefinitamente lungo periodo do tempo. Ottima l’analisi sui problemi dei tassi di cambio, ma temo che il persistere della trappola della liquidità porterà non a una cooperazione ma a una competizione tra le banche centrali, con tutti gli effetti secondari negativi per me difficilmente quantificabili anche per l’aumento delle diseguaglianze di reddito che una guerra valutaria comporterebbe.
Piero
La BCE a trazione tedesca da una lettura dei trattati del tutto personalistica, la politica del cambio rientra nelle sue competenze.
Articolo 127- trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(ex articolo 105 del TCE)
1. L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali, in appresso denominato «SEBC», è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo una efficace allocazione delle risorse e rispettando i principi di cui all’articolo 119.
Articolo 119
(ex articolo 4 del TCE)
1. Ai fini enunciati all’articolo 3 del trattato sull’Unione europea, l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni previste dai trattati, l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
2. Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione com prende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
3. Queste azioni degli Stati membri e dell’Unione implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile.
Roberto Camba
L’articolo contiene una semplificazione importante, affermare che: “in molti paesi del mondo i prezzi dei beni esportati sono fissati nella valuta del paese di destinazione (e che ciò) rende i prezzi finali dei beni insensibili alle fluttuazioni del cambio (eliminando così) i vantaggi dei cambi flessibili” significa ipotizzare che gli operatori non modificano la propria politica dei prezzi, espressi nella valuta del paese di destinazione, nonostante la fluttuazione dei cambi. Se si elimina questa irrealistica semplificazione riappaiono i vantaggi della flessibilità dei tassi di cambio. Gli esempi sono facilmente intuibili.
Firmin
Sulle auto tradizionali usiamo 2 strumenti per raggiungere la velocità desiderata: l’acceleratore e il cambio. È stato possibile eliminare il cambio solo sulle auto elettriche perché hanno un motore efficiente a quasi tutte le velocità. Mi pare che nenche le economie più avanzate ed efficienti siano altrettanto flessibili. Quindi privarsi del cambio è stato quantomeno prematuro ed infatti questa scelta ideologica ha contribuito ad allargare le differenze tra i paesi europei. Se ora la BCE ora ricopre le virtù del cambio… è solo troppo tardi.
Enrico D'Elia
Credo che l’avversione verso i cambi flessibili derivi dal pregiudizio ideologico che l’economia funzioni in modo “continuo” e sostanzialmente lineare. Se il campo di variazione dei prezzi interni fosse infinito, e se la loro velocità di aggiustamento fosse elevata, allora il cambio sarebbe effettivamente uno strumento superfluo. Invece sia cambi che prezzi possono realisticamente variare solo entro un range abbastanza limitato, al di fuori del quale si innescano processi destabilizzanti e difficilmente controllabili (iperinflazione, deflazione, guerre commerciali, crisi di fiducia, guerre di cambi, ecc.). I fisici si sono scontrati almeno da un secolo con il problema della discontinuità e granularità di molti fenomeni, forse è ora che lo facciano anche gli economisti e le banche centrali.
Enrico D'Elia
(continua)
Se gli aggiustamenti richiesti ai rapporti di scambio tra i beni (e tra le remunerazioni dei fattori produttivi) sono troppo ampi (o troppo rapidi) è semplicemente stupido rifiutarsi di utilizzare i cambi, esattamente come sarebbe stupido non cambiare marcia su una macchina quando il motore lavora al di fuori del suo regime ottimale. In un certo senso, è la crescente instabilità e volatilità dell’economia a richiedere oscillazioni sempre più ampie di prezzi e cambi, non viceversa. Illudersi che cambi fissi e prezzi flessibili risolvano questo problema strutturale significa mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. I cambi fissi servono solo a garantire i movimenti di capitali, ma non quelli delle merci.