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Come sarà la Cina del 2025

La strategia di sviluppo della Cina nei prossimi cinque anni mira alla “circolazione duale”. All’interno significa la ricerca dell’indipendenza hi-tech, come base per aumentare il reddito dei cittadini. All’esterno, una riscrittura dei rapporti di forza.

Il nuovo piano quinquennale

Il 29 ottobre si è chiuso a Pechino il V Plenum del Partito comunista cinese che ha definito il 14° piano quinquennale per il periodo 2021-2025. Come sempre, sono molti i temi citati, che saranno oggetto nelle prossime settimane di formulazioni più specifiche da parte dei relativi ministeri.

Il tema principale va sotto il titolo fumoso di “sviluppo o circolazione duale”, la nuova strategia di sviluppo della Cina nell’epoca del progressivo distacco dall’economia statunitense. Non vi è nulla di nuovo né di diverso da quanto ci si aspettava, ma le conseguenze per il resto del mondo sono molto più evidenti.

Domanda interna e indipendenza hi-tech

Il concetto di “circolazione duale” ha due componenti: la “circolazione interna”, che si riferisce alle attività economiche all’interna del paese, e la “circolazione esterna”, che si riferisce ai legami economici della Cina con il mondo esterno.

L’enfasi sulla domanda interna, che dovrebbe rafforzarsi di molto per rendere il paese meno dipendente dalle esportazioni, era già presente nei piani precedenti, ma oggi si combina con la necessità di compensare una riduzione del commercio estero. Vale durante la pandemia, che vede una forte contrazione del commercio internazionale, ma vale anche a lungo termine, se gli Stati Uniti resteranno intenzionati a non assecondare più lo sviluppo della Cina, diventata oramai dichiaratamente un rivale sistemico.

Affinché ciò avvenga, Pechino dovrà aumentare i redditi dei suoi cittadini e ottimizzare la distribuzione del reddito in modo che possano essere più propensi al consumo e un po’ meno al risparmio. È ciò che accomuna il 14° piano quinquennale al 13°, ma con una grande differenza: i 10 milioni di nuovi posti di lavoro ogni anno, necessari a garantire un reddito che sostenga il consumo (per un totale di 50 milioni sull’intero orizzonte del piano) saranno creati nei nuovi settori dell’economia digitale – lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dei big data e del 5G – che dovrà diventare il motore principale della crescita e dell’innovazione.

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Ciò accelera l’autosufficienza nella scienza e nella tecnologia – l’indipendenza hi-tech – e soprattutto accelera la progettazione e la produzione di chip a semiconduttore, che racchiude tutte le tecnologie di frontiera: intelligenza artificiale, 5G, calcolo quantistico. La Cina punta ad aumentare la quota di ricerca e sviluppo sul Pil dal 2,5 per cento nel 2020 (350-400 miliardi di dollari) a circa il 3 per cento nel 2025 (600-650 miliardi di dollari), e aumenterà ulteriormente la spesa per l’istruzione e la formazione professionale. Alla luce delle pressioni di disaccoppiamento dagli Stati Uniti e delle restrizioni tecnologiche, la Cina potrebbe destinare maggiori risorse alla ricerca di base, a quella di frontiera e alle aree relativamente più arretrate sul piano tecnologico (ad esempio, chip e semiconduttori, software, macchinari di precisione, chimica fine, robotica avanzata, nuovi materiali, tecnologia aerospaziale e aeronautica), proteggere meglio i diritti di proprietà intellettuale e offrire maggiori incentivi di mercato ai ricercatori.

I rapporti con gli altri paesi

Al lecito timore che la Cina si appresti a isolarsi in parte dal resto del mondo, Pechino risponde negando questa eventualità e sostenendo che il paese ha beneficiato enormemente dell’apertura negli ultimi quattro decenni e che continuerà su questa strada. Ma i fronti di apertura sono l’importazione di materie prime e risorse naturali, gli investimenti stranieri, la sua Belt and Road Initiative, gli accordi di libero scambio e le sue zone di libero scambio e i suoi porti. Si tratta di quei canali di apertura in cui la Cina beneficia di un potere relativo rispetto ai paesi partner, soprattutto quando sono altri paesi in via di sviluppo o ricchi di risorse naturali. E sono i canali sui quali i paesi economicamente più avanzati da sempre sollevano riserve, perché su quei fronti Pechino impone le sue regole, da grande paese in via di sviluppo rispetto ai più piccoli, oppure da paese in via di sviluppo rispetto ai paesi industrializzati.

E un altro settore di cui la Cina ha sempre posticipato una maggiore apertura – il settore finanziario – oggi, invece, è tra quelli al centro dell’attenzione: aumentare la quantità di titoli domestici (denominati in renminbi) detenuti all’estero risponde alla necessità di trovare canali di finanziamento estero per le imprese cinesi, senza assecondare le richieste di una vera e propria liberalizzazione.

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Altri due obiettivi dovrebbero rimanere prioritari. Il primo, indicato sin dal 2018, cioè dall’inizio delle frizioni con gli Stati Uniti, è stabilizzare l’economia in sei aree: l’occupazione, la finanza, il commercio estero, gli investimenti esteri, gli investimenti e le aspettative, collettivamente note come le “sei stabilità”. Il secondo è l’obiettivo di garantire l’occupazione, il sostentamento di base della popolazione, l’ordine del mercato, la sicurezza alimentare ed energetica, la stabilità delle catene di approvvigionamento e il funzionamento delle funzioni di governo locale, complessivamente conosciute come le “sei garanzie” introdotte nell’aprile di quest’anno. Stabilizzare l’economia cinese oggi, in un contesto di protezionismo e di tensioni geopolitiche, richiede necessariamente un approccio di maggior indipendenza e di maggior contenuto domestico nella produzione, sia per il consumo interno sia per l’export.

La Cina che uscirà dal prossimo quinquennio si prospetta economicamente più forte e quindi più propensa a voler riscrivere attivamente le regole della nuova globalizzazione.

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  1. mario fosso

    Buon giorno, grazie per il puntuale resoconto. Il mio dubbio riguarda la situazione nelle campagne, situazione che preoccupa ed ha un grande peso nella politica economica del Partito Comunista, almeno a quanto ho avuto modo di constatare durante i mie periodi di insegnamento a Wuhan alla Scuola di Architettura del Paesaggio dell’Università Tecnica.

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