All’inizio della carriera accademica, in tutte le discipline le percentuali di ricercatori e ricercatrici sono simili. Ma nei passaggi successivi gli uomini prevalgono. Eppure, la diversità di genere è importante. E non solo per ragioni di equità.
Il soffitto di cristallo nelle università
È di pochi giorni fa la notizia che La Sapienza ha una rettrice donna, Antonella Polimeni, la prima nella lunga storia dell’ateneo. La notizia è stata ripresa da tutti i giornali perché è “una” rettrice. Sono infatti solo sette (su 84) le università italiane guidate da donne.
Le donne, come si sa, incontrano ancora difficoltà nella carriera, e non solo in Italia. È il famoso (o famigerato) “soffitto di cristallo”, per cui le donne arrivano fino a un certo punto della loro crescita professionale, e poi si fermano. Succede in azienda, in politica, nel settore pubblico e anche in accademia. Proviamo a far luce sui numeri all’interno delle università.
Sono ormai diversi anni che a laurearsi sono più donne che uomini. In Italia, nella fascia di età 30-34, le donne laureate sono il 34 per cento mentre gli uomini sono solo il 22 per cento. Se analizziamo l’inizio della carriera accademica, considerando tutte le discipline, notiamo come in media le percentuali di ricercatori e ricercatrici siano piuttosto simili, intorno al 50 per cento (vedi grafico 1a), ma già al livello dei professori associati comincia a manifestarsi una differenza (60 per cento uomini e 40 per cento donne) che si accentua enormemente a livello di professori ordinari (75 per cento uomini e 25 per cento donne).
La situazione di partenza è certamente diversa a seconda delle aree disciplinari che si considerano. Nelle discipline Stem (Science, Technology, Engineering and Math, identificate dalle macro-aree 1-2-3-8-9) già all’inizio della carriera le donne sono solo il 38 per cento. Nelle discipline economico-statistiche (macro-area 13) le donne sono il 50 per cento circa tra i ricercatori, mentre in quelle umanistiche (macro-aree 10 e 11) sono più degli uomini, il 58 per cento. Ma la storia ha un finale simile per tutte le discipline. Quando guardiamo alla percentuale di professoresse ordinarie, nelle aree Stem il loro numero è pari a circa il 20 per cento, mentre nelle aree umanistiche è al 40 per cento. In altre parole, come mostrano i grafici 1b e 1c, la differenza tra percentuale di ricercatrici e di ordinarie è praticamente identica per Stem e aree umanistiche: una riduzione di 18 punti percentuali muovendosi dal gradino di partenza per arrivare a quello più alto. C’è la medesima perdita – una leaky pipeline – in entrambi i gruppi di discipline. Le aree umanistiche, seppur a dominanza femminile sia tra gli studenti sia tra i docenti, non sfuggono quindi allo schema per cui più si sale nella piramide, meno donne si vedono.
Nelle discipline economiche e statistiche, la perdita di donne nel passaggio da ricercatore alla posizione apicale è ancora più accentuata, pari a circa 25 punti percentuali (grafico 1d). E non sembra attenuarsi nel corso del tempo, come mostra il grafico 2.
Un modello di simulazione ad agenti mostra che, con le attuali differenze nei tassi di promozione di uomini e donne, la composizione per genere nella fascia più alta della carriera accademica non cambierà di molto nemmeno tra 50 anni, nonostante il maggior bilanciamento nei livelli di ingresso, ossia tra i ricercatori a tempo determinato (vedi Marianna Filandri, Silvia Pasqua e Eleonora Priori (2020), “Breaking through the glass ceiling in academia: a model simulating more positions available and gender quotas”, mimeo).
Perché promuovere la parità
Fin qui abbiamo documentato la situazione. Le domande rilevanti che emergono sono almeno due:
1) perché si verifica questo fenomeno della leaky pipeline?
2) perché dovremmo preoccuparci della diversità di genere ai vertici dell’accademia?
Proviamo a dare una risposta alle due domande concentrandoci sulla disciplina che meglio conosciamo, l’economia. La produttività scientifica delle ricercatrici è inferiore a quella dei ricercatori? L’evidenza empirica disponibile dà una risposta negativa: Donna Ginther e Shulamit Kahn su dati statunitensi dimostrano come le differenze di genere nell’ottenere la “tenure” (un contratto a tempo indeterminato) rimangono anche quando si includano indicatori di produttività. Recenti studi su dati italiani ci dimostrano che non sono le differenze di produttività a contare. Replicando le analisi di due precedenti studi sull’accademia italiana per i soli settori disciplinari degli economisti emerge che, anche controllando per gli indicatori di produttività scientifica comunemente usati, le economiste hanno una probabilità di avanzare nella carriera accademica inferiore di 6-14 punti percentuali (a seconda dei controlli inseriti) rispetto ai loro colleghi maschi.
C’è oramai una solida evidenza empirica, raccolta nel volume Women in Economics, che dimostra la presenza di bias (pregiudizi) importanti nella valutazione della ricerca fatta dalle donne: ad esempio, le economiste ricevono meno credito per il loro contributo nei lavori con coautori (Sarsons). Ci sono poi forme di “discriminazione istituzionale”: l’adozione di un “tenure clock” neutrale nei confronti del genere in corrispondenza della nascita di un figlio o il fatto che le donne assumano più compiti di servizio sono alcuni degli esempi. Anche la presenza di più donne nelle commissioni di abilitazione non necessariamente aiuta la promozione delle candidate, anche perché rende i commissari uomini più severi nei loro confronti.
La consapevolezza su questi temi sta crescendo: alcune associazioni accademiche e università adottano misure a sostegno della parità di genere, come ad esempio commissioni dedicate allo status delle donne all’interno delle singole discipline, programmi di mentoring e di sviluppo professionale rivolti alle giovani ricercatrici, linee guida per la parità di genere nei convegni, monitoraggio continuo della presenza delle donne nelle discipline per gradi e adozione formale di “programmi di uguaglianza di genere”. Alcune esperienze internazionali si distinguono per un approccio molto propositivo, come ad esempio l’introduzione di programmi premiali (e conseguenti maggiori fondi governativi) per quelle università che raggiungono l’uguaglianza di genere. Sono però esperienze ancora sporadiche e allo stadio iniziale nell’accademia italiana.
La diversità di genere in economia è importante non solo per ragioni di equità. Gli studi in ambito economico influenzano le scelte dei governi in termini di politiche economiche. Come affermava tempo fa Janet Yellen, recentemente nominata segretaria al Tesoro dal presidente eletto Usa, Joe Biden, “quando l’economia è messa alla prova da nuove sfide, spero che la nostra professione sia in grado di dire che abbiamo fatto tutto il possibile per attrarre le persone migliori e le idee migliori”. La pluralità di punti di vista è essenziale non solo per generare conoscenza solida e rilevante, ma anche per disegnare risposte articolate e condivise ai problemi. Ne abbiamo sicuramente bisogno, oggi più che mai.
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Catullo
Sarebbe da capire perchè invece in altre situazioni la presenza femminile invece la fa da padrona. Penso all’ambito scolastico almeno fino alla fine delle scuole medie superiori e certi ambiti sanitari. Nella mia, ormai lontana carriera scolastica, non ho mai avuto un solo preside uomo ed anche adesso credo che la preside donna sia la regola e anche nell’ambiente ospedaliero di fatto la presenza femminile è preponderante ho seguito una persona per un intervento di endocrinologia e in quel reparto non c’era neppure un uomo a cominciare dalla primaria (che peraltro era molto in là con gli anni, ma quando vanno in pensione i medici??) fino alle tirocinanti. Si potrebbe capire come questi settori riescono ad attirare la parte femminile e vedere se è possibile replicare in altri contesti. Un solo dubbio mi viene questi settori attirano più donne o respingono gli uomini, perchè i pochi conoscenti uomini che lavorano nell’istruzione parlano tutti di un ambiente fatto da donne per donne, ma questo è un altro argomento.
bob
“Nella seconda metà del XIX secolo, il neonato Stato italiano si trovò alle prese con il problema di imporre agli italiani l’obbligo di frequentare la scuola. In quel periodo, come è noto, l’analfabetismo era dilagante.
Tra gli avversari dell’istruzione obbligatoria era soprattutto la Chiesa cattolica- L’obbligo scolastico era dunque percepito dalle gerarchie ecclesiastiche come una vera e propria iattura; un male da impedire a ogni costo…”.
” Nell’aprile del 1945, il governo provvisorio decretò l’emancipazione delle donne, che ne consentiva la nomina immediata a cariche pubbliche. Nelle elezioni del 2 giugno 1946, tutti gli italiani votarono contemporaneamente.”
Cara ricercatrici nei tempi della Storia gli anni sono secondi e i secoli minuti! Titolare con enfasi che è stata eletta una “rettrice” sottolinea l’arretratezza culturale di questo Paese. La cosa grave e misera che non sono discorsi fatti al Bar dello Sport, ma titoli su dei più “importanti” quotidiani. Meglio sorvolare poi sulla medioevale norma delle “quote rosa” la più grande offesa che si può fare non solo alle donne, ma all’intelligenza delle persone in genere.
Il vero dramma di questo patetico Paese non è l’emergenza sanitaria o la crisi economica è il baratro culturale dove è ulteriormente precipitato, ci vorranno lustri per risalire, presupponendo che possiamo riuscirci
Luca Neri
Ho letto gli articoli citati. In Italia, la differenza tra uomini e donne nella probabilità di essere promossi attribuibile al sesso dei valutatiori risulta dell’1%-2%. Questo risibile effect size dovrebbe indurre maggior prudenza nell’interpretazione dei risultati perchè potrebbe benissimo essere spiegato da bias di confondimento o selezione residui che non sono controllati. Inoltre questa differenza non è affatto in grado di spiegare la grande differenza nei pathway di carriera tra uomini e donne e non è coerente tra i paesi presi in considerazione. L’articolo mostra altri risultati.che contrasterebbero la vostra interpretazione ma vengono ignorate.