La crisi innescata dal Covid-19 ha colpito duramente il settore culturale. E gli effetti sull’occupazione si fanno sentire, soprattutto tra i lavoratori autonomi. Le politiche necessarie per migliorare una situazione di incertezza lavorativa strutturale.

I numeri dell’occupazione nel settore cultura

La crisi ha colpito duramente il settore culturale. A titolo di esempio, l’ultima rilevazione dell’International Council of Museums (Icom), aggiornata a ottobre 2020, indica che almeno il 30 per cento dei musei di tutto il mondo ha risposto alle chiusure tagliando personale (il 10 per cento degli istituti lo ha dimezzato). Le prospettive sono cupe: per il futuro, il 30,9 per cento ridimensionerà il personale a tempo indeterminato; il 46,1 per cento dei musei farà a meno del personale con contratti freelance e temporanei.

In Italia, con un calo medio dell’occupazione del 2,9 per cento nell’intero settore dei servizi, il settore culturale ha perso il 10,5 per cento delle posizioni lavorative. Le ore lavorate sono diminuite del 14,9 per cento contro un -8,9 per cento nei servizi. Si tratta del peggior calo registrato, dietro a quello del settore turistico.

Autonomi, la categoria più colpita

Tuttavia, questi dati si riferiscono solo al lavoro dipendente. L’impatto sull’occupazione è senz’altro maggiore se consideriamo l’altissima percentuale di lavoratori autonomi presenti nel settore culturale e che, come dimostrano i dati Istat sull’occupazione totale, sono tra le tipologie più colpite (-2,58 per cento per gli autonomi contro un -0,03 per cento tra febbraio e ottobre tra i permanenti, senz’altro anche per effetto del divieto di licenziamento introdotto dal governo). Gli autonomi non solo perdono ore di lavoro, ma sono privi di quelle forme di tutela tipiche del lavoro dipendente, come la cassa integrazione o l’indennità di disoccupazione o di malattia.

Non disponiamo per il momento di dati sull’impatto della crisi da Covid-19 su questa specifica categoria di lavoratori, ma le statistiche europee pre-pandemia mostrano chiaramente perché sarebbe fuorviante limitare lo sguardo ai soli lavoratori dipendenti. Come confermano le cifre Eurostat 2019 appena pubblicate, gli autonomi rappresentano il 32 per cento dell’occupazione culturale (Ue-27), ossia più del doppio – e, in Italia, circa due volte e mezzo in più (48 per cento) – della quota di lavoratori autonomi presenti nell’occupazione totale (14 per cento).

Gli autonomi sono in proporzione di più tra gli artisti e gli autori, sia a livello europeo (45 per cento), sia a livello nazionale (50 per cento).

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In Italia, i dati Inps confermano ulteriormente la condizione cronica di fragilità e di intermittenza per alcune tipologie di lavoratori culturali. La relazione trasmessa nel 2019 alle commissioni Cultura e Lavoro della Camera con numeri relativi al 2017 indica che nello spettacolo i lavoratori a tempo indeterminato rappresentano poco meno del 30 per cento del totale degli assicurati, quelli a tempo determinato il 50 per cento, mentre il restante 20 per cento opera con rapporti di lavoro autonomo. Ma sono soprattutto le cifre relative alla retribuzione media annua e al numero medio di giornate lavorative che restituiscono la gravità della situazione: per gli attori (circa 73 mila), la retribuzione media annua è di 2.836 euro per 16 giornate; per i circa 31 mila direttori, maestri di orchestra e orchestrali, di 5.988 euro per 44 giornate; per i 9.502 cantanti, 10.696 euro di retribuzione media annua, per una prestazione media di 62 giornate. Nessuna sorpresa, dunque, se in questa, come in altre categorie di lavoratori artistici e culturali, domini il regime che prevede di mantenere più posizioni lavorative, una condizione indispensabile per raggiungere un livello di reddito sufficiente al sostentamento.

Questa fotografia porta ad almeno tre considerazioni in termini di politiche pubbliche: la prima riguarda la produzione di statistiche dettagliate sul lavoro culturale che permettano un monitoraggio attento e regolare e quindi l’adozione di misure adeguate a diverse tipologie occupazionali. La seconda fa riferimento al necessario supporto nel breve termine a queste professioni, e in particolare ai lavoratori autonomi, al fine di non disperdere un capitale umano e culturale costruito nel tempo. È una strada che si sta percorrendo, anche se non è semplice identificare i lavoratori che hanno diritto a un sostegno, sia per questioni statistiche sia per l’elevata quota di sommerso.

La terza considerazione riguarda la necessità di uno “sguardo lungo” per capire se e come ovviare a una situazione di incertezza lavorativa strutturale ma migliorabile (vedasi statuto di Intermittents du spectacle in Francia o lo statut d’artiste in Belgio), anche per portare alla luce il lavoro in nero. Il recente disegno di legge proposto in Trentino per un contributo previdenziale a favore degli artisti e quello attualmente in discussione in Parlamento come primo passo alla revisione dello statuto italiano dei lavoratori dello spettacolo sembrano andare nella giusta direzione.

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