Più che un romanzo alla Robin Hood, la vicenda GameStop è la storia di un fallimento regolamentare e di supervisione. Perché negli Stati Uniti sono permesse le vendite allo scoperto senza la disponibilità del titolo sottostante, vietate invece in Europa.
La spirale al rialzo
La vicenda legata a GameStop, il Blockbuster dei videogiochi, è stata descritta come la ribellione dei day traders e dei piccoli investitori contro gli avidi hedge fund manager. Si è parlato anche di esempio di come i social media possano diventare uno strumento per creare “ingerenze” nelle attività di imprese e mercati o anche nuove forme di manipolazione dei mercati. La verità, come sempre, è molto più articolata e la morale della questione si sposterà nelle prossime settimane verso i problemi regolamentari e di supervisione delle vendite allo scoperto made in Usa.
Se non fosse realtà, sarebbe stato un romanzo avvincente, in cui le storie di utilizzatori di social media arricchitisi nella corsa di GameStop dai 20 ai circa 500 dollari per azione si intrecciano con quelle di hedge fund, come Melvin Capital, che sono arrivati a perdere fino al 50 per cento dei fondi in gestione per aver tentato di continuare a finanziare le loro vendite allo scoperto (si stima che solo Melvin Capital abbia perso tra i 4 e i 5 miliardi di dollari). Si tratta di un cosiddetto short squeeze, ovvero di una pressione al rialzo dei prezzi che forza chi aveva scommesso al ribasso a chiudere le vendite allo scoperto (in gran parte senza copertura di titoli) in una spirale al rialzo, poiché chiudere una posizione corta significa acquistare i titoli e restituirli a chi li ha prestati. Più i prezzi salgono, più è costoso mantenere le vendite allo scoperto aperte, che vengono infatti finanziate dai broker a un tasso d’interesse.
Le posizioni short su GameStop nelle scorse settimane si aggiravano intorno ad almeno il 132 per cento del flottante (azioni disponibili per la negoziazione) e circa il 90 per cento di tutte le azioni disponibili (dati ShortSqueeze e Yahoo Finance). Lo stesso per una serie di altre azioni che sono state al centro di elevata volatilità, come Amc e Macerich. Per dare un termine di paragone, in Europa le azioni con posizioni short più elevate hanno una percentuale di posizioni corte su flottante al massimo del 20 per cento. Infatti, i tentativi di replicare le pressioni al rialzo sui titoli europei sono falliti miseramente.
Regole diverse sulle due sponde dell’Atlantico
È forse la prova più schiacciante che la vicenda GameStop non è semplicemente il frutto di una scelta irrazionale da parte di investitori retail. Al contrario, a questi livelli di posizioni short è assolutamente razionale (per investitori con qualsiasi qualifica) dedurre che ci sia una forte probabilità che l’azione vada in uno short squeeze e quindi salga di prezzo. La domanda da porsi è se sia accettabile permettere agli intermediari di finanziare posizioni corte a livelli insostenibili. Infatti, nei giorni di più elevata volatilità, le azioni GameStop sono rimaste classificate come “Threshold Securities”, cioè azioni che hanno un’elevata percentuale di regolamenti falliti (almeno 10 mila azioni a una certa data), ovvero di azioni non consegnate alla controparte alla data prestabilita. Ciò significa che una buona parte delle posizioni corte non avevano preso a prestito l’azione sottostante, che viene poi venduta e riacquistata quando la posizione corta si chiude.
Si tratta chiaramente di un fallimento regolamentare. In Europa, il regolamento Short Selling del 2012 n. 236, articolo 12, proibisce le vendite allo scoperto senza la disponibilità del titolo sottostante (disponibilità diretta o tramite accordo vincolante con terze parti). Negli Usa Il regolamento SHO della Securities and Exchange Commission (§242,203), invece, permette operazioni anche senza disponibilità dei titoli, ovvero solo sulla base di una “ragionevole possibilità” per il broker di ottenere il titolo a scadenza. Inoltre, si concedono 13 giorni al broker per ridurre il numero di regolamenti falliti su un’azione classificata come “Threshold Security”.
Nei prossimi mesi sapremo molto di più di questa vicenda e quanto abbia pesato il ruolo dei social media nello spingere i prezzi al rialzo. È possibile che l’investigazione su manipolazione del mercato si concluda nel nulla, poiché rendere pubbliche le proprie intenzioni di acquisto (o l’acquisto) di azioni in un gruppo social non assurge a manipolazione del mercato, a meno che quelle intenzioni rese pubbliche non siano volutamente false per confondere il mercato.
È indubbio, però, che la miccia della bomba GameStop sia anche la storia di un fallimento regolamentare e di supervisione che sta costando – ed è già costato – tanto a investitori di qualsiasi natura, non importa che abbiano scommesso al ribasso o al rialzo.
* Le opinioni espresse sono esclusivamente riconducibili all’autore e non rappresentano le posizioni delle istituzioni di sua affiliazione.
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emilio
L’analisi qui illustrata è per forza di cose un po’ imprecisa. Comunque sorprende che si parla di inefficacia della regolamentazione e della supervisione solo quando a rimetterci sono gli operatori e non singoli investitori. Questo è il punto fondamentale a mio avviso. La regolamentazione riconosce alle banche dei vantaggi che non riconosce agli investitori privati cd retail ad es. questi non possono operare allo scoperto cosa che possono fare gli operatori. Insomma detto in altre parole se il valori dei titoli sul mercato corrispondesse realmente al valore delle aziende che rappresentano sarebbe molto più stabile nel tempo e questo è a mio avviso il principale fallimento della struttura dei mercati.
Alice
Grazie, Emilio, per il chiarimento.
Giuseppe GB Cattaneo
Corretto. Ottimo. Comunque ogni livello di regolamentazione produce degli affetti che favoriscono o penalizzano qualcuno.