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Bivio difficile per il mercato del lavoro

Lo sblocco dei licenziamenti è un passaggio difficile. Richiede un monitoraggio attento e politiche che modulino intensità e durata del sostegno al reddito rispetto ai tassi di ricollocazione e al ritorno della domanda di lavoro ai livelli pre-pandemia.

Cosa succederà dopo il 31 marzo?

Ci si chiede di continuo cosa succederà il 31 marzo qualora il blocco dei licenziamenti non venisse prorogato. E anche se ciò avvenisse, la medesima domanda si riproporrebbe con riferimento alla nuova scadenza.

La risposta sincera è che precisamente non lo sa nessuno: non il governo, non i sindacati e nemmeno le imprese. Perché molto dipenderà dalla situazione effettiva, sul campo, al momento dello sblocco: se la campagna di vaccinazioni è quantomeno ben avviata, se le restrizioni alla mobilità sono cadute o attenuate, se la congiuntura economica – consumi, investimenti – volge al bello.

Ma poiché le previsioni sono indispensabili, per quanto incerte, per orientare l’azione, allo stato attuale possiamo inferire qualche ipotesi di massima da tre solide fonti informative.

Analizziamo innanzitutto, sulla scorta dei dati disponibili in Inps (Osservatorio precariato), la serie storica dei licenziamenti economici intervenuti interrompendo rapporti a tempo indeterminato (l’aggiustamento delle imprese per i rapporti a termine è già stato ottenuto con la scadenza naturale dei contratti).

Nell’ultimo quinquennio si è oscillato attorno ai 450/500 mila licenziamenti economici all’anno (escludendo, oltre a quelli disciplinari, anche quelli per fine appalto). Nel 2020 tra aprile e settembre i licenziamenti economici sono diminuiti di oltre il 60 per cento rispetto al periodo corrispondente del 2019 (le norme hanno consentito i licenziamenti solo in specifici casi: per esempio, cessazione dell’attività, cambio appalto, superamento del periodo di comporto o licenziamento nel periodo di prova). Dati aggiornati a gennaio 2021 per il Veneto (Osservatorio-La Bussola) evidenziano una contrazione dei licenziamenti (marzo 2020-gennaio 2021 su marzo 2019-gennaio 2020) di poco inferiore al 60 per cento. Da tutto ciò si può dedurre che “manchino”, su base annua – al 31 marzo il blocco dei licenziamenti avrà questa durata – circa 250/300 mila licenziamenti che, in condizioni normali, sarebbero avvenuti e che ora risultano “coperti” dal ricorso alla cassa integrazione e dal divieto.

Questo livello dei licenziamenti attesi può essere ritenuto sottostimato, perché la condizione delle imprese a causa della pandemia è peggiore del “normale”, ma anche – e più probabilmente -sovrastimato, perché le imprese si sono “aggiustate” in altri modi (esodi incentivati, licenziamenti disciplinari o altro).

Posti di lavoro a rischio

Una seconda rilevante fonte di informazioni riguarda i posti di lavoro ad alto rischio di soppressione nascosti dal ricorso alla cassa integrazione. Il IV Rapporto congiunto (Istat-Inps-Anpal-ministero del Lavoro, Inail), appena pubblicato, mostra che tra marzo e aprile 2020 i dipendenti collocati in cassa integrazione sono stati 5,6 milioni: la metà (2,8 milioni) sono rientrati al lavoro entro giugno, altri 2 milioni sono rientrati entro agosto; a settembre (ultimo mese di osservazione) 852 mila erano ancora in Cig. I cassintegrati a zero ore (o quasi), totalmente e continuativamente assenti dal posto di lavoro già da diversi mesi – e quindi a fortissimo rischio di perdita del posto di lavoro – risultavano 125 mila; salivano a 167 mila ammettendo qualche periodo (almeno un mese) di rientro al lavoro o di assenza dal lavoro per altre ragioni.

Non si dispone ovviamente di informazioni attualizzate “in tempo reale” (mediamente le imprese comunicano a Inps l’effettivo ricorso alla Cig a distanza di oltre un mese e mezzo dalla fine del mese osservato), ma dalla dinamica complessiva nei mesi successivi a settembre si può inferire che il numero di cassintegrati continuativi a zero ore non dovrebbe essersi modificato radicalmente rispetto ai valori rilevati a settembre. È vero, peraltro, che a rischio licenziamento non sono solo i cassintegrati continuativi a zero ore. Il ricorso alla Cig consente infatti alle imprese un’estrema flessibilizzazione dell’uso della forza lavoro: di fatto, la cassa equivale da un lato alla trasformazione temporanea di rapporti di lavoro a tempo indeterminato in rapporti di lavoro intermittente, dall’altro alla trasformazione temporanea di rapporti di lavoro a tempo pieno in rapporti di lavoro a part-time. Nel momento in cui si sbloccano i licenziamenti, e viene meno la possibilità del ricorso alla Cig gratuito (per le imprese), si generano situazioni in cui il rientro al lavoro (a tempo pieno e continuo) di alcuni lavoratori si accompagna al licenziamento di altri. Per questa ragione l’identificazione dei posti di lavoro a rischio di licenziamento con il numero di cassintegrati a zero ore (e continuativi) può comportare una sottostima anche di rilievo. D’altro canto, però, non necessariamente tutti i cassintegrati a zero ore in un dato momento saranno licenziati perché molto dipende dalla situazione pandemica ed economica nel momento dello sblocco.

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L’attività delle imprese

Una terza rilevante indicazione viene dall’indagine Istat sullo stato di attività dichiarato delle imprese con più di tre dipendenti in media d’anno. Tra ottobre e novembre 2020 poco meno del 70 per cento delle imprese risultava “totalmente aperta” e il 24 per cento “parzialmente aperta” (con limiti quindi di spazi, orari e accesso della clientela). Le imprese “chiuse” risultavano essere il 7,2 per cento, pesando per il 4 per cento sugli addetti; tra queste l’1,7 per cento sulle imprese totali prevede di non riaprire e occupa lo 0,9 per cento degli addetti complessivi, pari a circa 120 mila lavoratori. A livello settoriale, emergono situazioni particolarmente critiche nelle attività artistiche, sportive e di intrattenimento, dove quasi la metà delle imprese risulta chiusa, e nelle attività dei servizi di alloggio e ristorazione, in cui è chiuso un quarto delle imprese.

Sulla base di quanto ricavabile dalle tre fonti citate appare credibile mettere in conto l’apertura, ad aprile, di un flusso di licenziamenti attorno a 200-300 mila. In concreto, per qualche tempo il flusso ordinario di licenziamenti economici (pari a circa 40-50 mila al mese) potrebbe risultare raddoppiato o triplicato.

Due osservazioni aggiuntive sono utili:

a. non si tratterà di un flusso simultaneo quanto di un flusso che si svilupperà nell’arco di tempo di qualche mese, in funzione dell’esaurirsi o meno delle settimane disponibili di Cig-Covid o della possibilità di ricorrervi ancora, nel caso di imprese con accesso alla Cig ordinaria, anche dopo l’esaurimento della Cig-Covid;

b. il flusso riguarderà nella sua stragrande maggioranza (due terzi del totale) i lavoratori delle piccole e piccolissime imprese (sotto i 15 dipendenti), come si ricava dall’osservazione dei dati sulle distribuzioni sia dei cassintegrati a zero che dei licenziamenti.

Gli strumenti di sostegno

Il rinvio dello sblocco dei licenziamenti allontana il problema, ma non lo muta affatto, anzi lo incrementa. Per gestire adeguatamente il passaggio – come occorrerà fare, prima o poi – servono strumenti di sostegno del reddito e strumenti di accompagnamento alla ricollocazione.

Per quanto riguarda il sostegno al reddito, l’importo della Naspi – cui avranno diritto tutti i licenziati, per periodi di tempo diversi, in funzione dell’anzianità lavorativa, fino a un massimo di 24 mesi – nei primi tre mesi, per i lavoratori a full time, è molto spesso superiore a quello della Cig (per effetto dei diversi tetti); successivamente il rapido décalage (-3 per cento al mese) lo riduce significativamente, a differenza della Cig che rimane invariata a prescindere dalla durata. Sarebbe utile quindi un intervento – almeno temporaneo, fino al ritorno a una consistenza dei percettori di Naspi analoga al periodo pre-pandemico – quantomeno di riduzione o cancellazione del décalage.

Per quanto riguarda le politiche attive, per favorirle seriamente occorre evitare ogni irrealistica enfasi e attesa miracolistica, segnali di un dibattito con i piedi nelle nuvole. L’efficacia delle politiche attive – oltre che fondamentalmente condizionata dalle dinamiche della domanda di lavoro – si dispiega nel tempo. Concretamente, oggi si possono proporre queste osservazioni circa lo stato delle cose sul terreno:

a. non partiamo dal nulla. Spesso si continua a denunciare l’arretratezza qualitativa e quantitativa dei servizi per l’impiego (rispetto ai corrispondenti francesi o tedeschi) senza tener conto dei mutamenti di recente intervenuti. A partire dal Jobs act e successivamente con il “Piano straordinario di potenziamento dei Cpi” varato con il decreto legge 4/2019 e ulteriormente incrementato nel 2020 (decreto ministeriale 22 maggio 2020), il personale dei centri per l’impiego (escludendo i navigator che dipendono da Anpal Servizi e che fanno riferimento a un’infelice governance nazionale) è stato molto potenziato. Entro il 2021 dovrebbe determinare oltre 10 mila assunzioni; molte regioni hanno già provveduto, con l’immissione soprattutto di giovani (elemento decisivo per cambiare il volto di un servizio) lontani naturalmente, per background formativo e culturale, dalla vecchia postura burocratica del “collocatore”. Certo, tutto ciò non avviene ovunque nel territorio nazionale e con il medesimo ritmo: c’è spazio per miglioramenti come pure per un’adeguata pressione nazionale sui territori renitenti, attivando un po’ di corretta sussidiarietà;

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b. non è l’incontro domanda-offerta la criticità essenziale delle politiche attive. Non ci sono software risolutivi, di qualsiasi provenienza, che possano accoppiare imprese e lavoratori felicemente, velocemente e con soddisfazione di tutti. Anche su questo fronte lo spazio per innovare e migliorare è ampio: la criticità comunque non è rappresentata dalle risorse quanto dalla governance del sistema e dall’intelligenza che richiede. Non dobbiamo attendere il Next Generation EU, quanto risolvere strozzature informatiche, giuridiche e di potere burocratico – in poche parole: istituzionali – che ostacolano l’efficace messa a regime della circolazione delle informazioni sulla domanda e sull’offerta di lavoro, al servizio di lavoratori e imprese;

c. la criticità essenziale, dal lato dell’offerta, è piuttosto la formazione, sia iniziale che (ancor di più) nel corso della vita lavorativa, per sviluppare competenze e abilità che sostengano l’occupabilità. In prima linea non ci sono i centri per l’impiego, che non hanno la “mission” più difficile, quella di progettare i percorsi formativi per rendere un disoccupato effettivamente occupabile. In prima linea ci sono le imprese: infatti per il successo di questa “mission” – per la quale non bastano le indicazioni generiche rilevabili da indagini statistiche come Excelsior – è indispensabile il loro apporto conoscitivo e il loro impegno nel declinare operativamente i propri fabbisogni professionali, responsabilizzandosi rispetto ai circuiti formativi, oggi a carico – quasi sempre in maniera esclusiva – di intermediari indipendenti (agenzie, enti di formazione, istituzioni scolastiche, università). Individuare le professionalità utili e coerenti con la futura domanda delle imprese e del sistema è attività necessariamente decentrata, localizzata e rischiosa. A chi ne sottovaluta la difficoltà è sufficiente ricordare che non siamo (stati) capaci nemmeno di prevedere e provvedere all’evoluzione della domanda di professioni medico-infermieristiche, le più facili da identificare e senza alcun vincolo dal lato dell’offerta (i candidati medici rifiutati in nome del numero chiuso sono legioni). Risultano quindi del tutto comprensibili le difficoltà a identificare in concreto – e non solo per titoli – i percorsi formativi efficaci da proporre all’offerta di lavoro.

Il passaggio è indubbiamente difficile. È una seria prova per tutti gli attori istituzionali e sociali coinvolti: richiede un monitoraggio tempestivo e ravvicinato (e gli strumenti ci sono, basta attivarli e saperli interpretare) e la predisposizione di politiche che modulino intensità e durata degli strumenti di sostegno del reddito in funzione del successo dei tassi di ricollocazione e, più generale, del ritorno della domanda di lavoro ai livelli pre-pandemici.

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Covid e lavoro, cambiamenti transitori o strutturali?*

  1. Jal

    Come in tempo di guerra dovrebbe essere dichiarato lo stato di emergenza nazionale, quindi azzeramento di tasse e contributi.
    Tutti uguali a casa senza stipendio garantito.

    La politica e la costituzione servono a frenare e frenano le capacità individuali.

    L’Italia si rimetterebbe in piedi da sola solo se potesse resettare tutto.

    Ovviamente non sono d’accordo i ladri di stato.

  2. Alberto Isoardo

    Mi sembra che l’Italia abbia un approccio masochista al tema perchè, pur di non cambiare idea, anche il novello governicchio Draghi che, per la sua composizione è un altro governicchio come il Conte2, continua a rilanciare nuove chiusure capaci di protrarsi nel tempo abbinandole a ristori ipotetici ed insufficienti, come se tutti i soldi in arrivo dalla UE potessero essere usati per i mancati guadagni.
    Bisogna capire che i ristori sono insufficienti e meno che meno in grado di eliminare il problema licenziamenti che incombe in quanto non si può ipotizzare di impedire alle attività economiche di funzionare e contestualmente bloccare i licenziamenti.
    Mi aspettavo un cambiamento radicale ma le leve del potere sono rimaste in mani per nulla convincenti.
    I singoli soli possono massimizzare la cura della propria salute quindi questo voler sempre chiudere attività renderà il Paese realmente invivibile per le fasce sociali più disagiate. Ma ovviamente ministri e casta gonfi di privilegi non se ne accorgono e mostrano un atteggiamento paternalistico nel voler decidere al posto nostro.
    Non sono certo gli Speranza o i La Morgese a fare rinunce o sacrifici! Inoltre vietare per decreto di lavorare è immorale soprattutto sapendo di non sanare la mancanza di reddito.

  3. Paolo

    Penso che fra gli strumenti potenzialmente utili in questa fase ci sia l’annullamento della norma circa l’obbligo di causali per i rinnovi di contratti a termine: Le imprese forse possono assumersi rischi, ma non a fronte di contratti a tempo indeterminato.
    Su tutto il resto concordo appieno. La formazione e le professionalità sono essenziali. Lo shock potrebbe essere utile per spingere le persone a riqualificarsi.

  4. Oscar Mancini

    Interessante. Grazie Bruno

  5. Roberto De Vincenzi

    Sempre interessante quello che scrivi. Un solo dubbio sui dati citati e linkati dall’Osservatorio INPS. La tabelle riporta le cessazioni totali (volontarie e involontarie). Nelle selezioni possibili per creare la tabella è necessario considerare la ‘Motivazione delle cessazioni’. Lo sottolineo perché nel tuo testo si parla di licenziamenti.

  6. raffaele delvecchio

    Se mi chiedo che cosa ci manca, penso a questo brano di un’intervista di O. Bianchi a Trentin ” stabilire un rapporto personale con il disoccupato che cerca lavoro, aiutandolo…nel seguire un’esperienza formativa, nel fare i conti con gli insuccessi e i fallimenti”(Annali F.Di Vittorio, 2004, 41).
    Se mi chiedo di quanto dobbiamo aumentare l’organico delle strutture, leggo di 10 volte (Treu, L’Osservatore Romano, 4.9.2020). I numeri sono un alfabeto abbreviato; sulla genesi e lo svolgimento di questo gap quantitativo e qualitativo P: Ichino scrive almeno da 40 anni.
    Nell’ultima parte dell’intervento di Anastasia, interlocutore autorevole e affidabile, si dice che una gran parte delle informazioni è nelle mani dei privati: e allora perché non studiare un intervento delle parti sociali, concretamente vicino ai problemi di quella che La Pira chiamava la “povera gente”?
    rdelvecchio

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