Il piano firmato da Biden non guarda solo all’emergenza, ma contiene elementi per una riforma del sistema di welfare statunitense, per ridurre povertà e diseguaglianze. Certo con alcuni rischi. Ma dopo quattro anni l’America torna a essere un esempio.

Cosa c’è nell’America Rescue Plan

Durante le primarie del 2020, esponenti della sinistra del Partito democratico statunitense come Bernie Sanders, Elizabeth Warren e Alexandria Ocasio-Cortez parlavano di Joe Biden come del candidato dell’establishment, eccessivamente moderato, incapace di rappresentare le istanze della gente comune e pertanto, come Hillary Clinton quattro anni prima, destinato a perdere contro Donald Trump. Invece, dopo neppure due mesi dal suo insediamento come presidente, Joe Biden ha introdotto un pacchetto di stimoli da 1.900 miliardi di dollari, descritto dallo stesso Bernie Sanders come “il provvedimento legislativo più importante per le famiglie lavoratrici (“working families”) approvato in molti decenni”.

L’American Rescue Plan approvato dal Congresso americano e firmato dal presidente l’11 marzo include assegni di 1.400 dollari per le persone con reddito inferiore a 75 mila dollari (150 mila per le coppie) e per ciascun figlio a carico, maggiori crediti d’imposta per figli minorenni (che diventano assegni per i percettori di redditi bassi che non pagano imposte), l’estensione fino a settembre dei sussidi straordinari di disoccupazione per 300 dollari a settimana (che si sommano ai sussidi statali), trasferimenti per 350 miliardi ai governi locali di stati, contee e città, 130 miliardi per le scuole, 160 miliardi per rafforzare la campagna di vaccinazione e di test per il Covid.

L’obiettivo principale è alleviare le difficoltà finanziarie causate dalla pandemia, in particolare tra i redditi più bassi che più hanno sofferto le ripercussioni delle chiusure. Questo ne spiega l’impostazione, basata in larga misura su trasferimenti diretti alle persone, senza particolari condizionalità. Per esempio, una coppia sposata con due figli minorenni riceverà un assegno di 1.400 dollari moltiplicato per quattro persone, cioè 5.600 dollari. Se vi si somma il credito d’imposta aggiuntivo di mille dollari per ciascun figlio, si raggiunge un totale di 7.600 dollari. Questi trasferimenti rappresentano una iniezione di liquidità importante per un numero elevato di individui e famiglie, soprattutto per quelle con reddito più basso. Ciò spiega l’alto grado di approvazione verso il provvedimento da parte dei cittadini americani (pari al 70 per cento secondo il Pew Research Center), inclusi tanti elettori del Partito repubblicano, nonostante il pacchetto sia stato approvato al Senato con i soli voti dei democratici.

Uno degli elementi più caratterizzanti del pacchetto sono proprio i crediti d’imposta per i figli a carico, aumentati da 2 mila a 3 mila dollari per ogni figlio minorenne di età superiore ai 6 anni, e a 3.600 dollari per i figli minori di 6 anni. Non solo: la nuova legge trasforma i crediti d’imposta in assegni per i percettori di redditi bassi (i quali normalmente non beneficiano dell’importo massimo del credito perché le loro imposte sono troppo basse) e prevede che i fondi vengano trasferiti alle famiglie attraverso assegni mensili. Ricercatori del Center on Poverty and Social Policy della Columbia University stimano che grazie al provvedimento il tasso di povertà infantile medio verrebbe quasi dimezzato, dal 14 per cento attuale a circa il 7,5 per cento, e la riduzione sarebbe ancora più drastica tra le minoranze afro-americane (dal 24 all’11 per cento) e ispaniche (dal 22 al 12 per cento).

Per il momento, la misura vale solo per il 2021, ma vari esponenti del Partito democratico hanno espresso l’intenzione di renderla permanente. Se ciò dovesse accadere, si tratterebbe di fatto dell’istituzione di un reddito minimo per i bambini – un’espansione dello stato sociale di portata storica che, oltre a ridurre la povertà, potrebbe anche avere effetti positivi di lungo periodo sulla mobilità sociale tra i gruppi più disagiati.

I rischi

La preoccupazione che l’American Rescue Plan sia un “cavallo di Troia” legislativo di impronta progressista che va ben oltre l’emergenza Covid è il motivo dell’opposizione dei repubblicani al Congresso (nonostante l’esclusione dell’aumento del salario minimo da 7,25 a 15 dollari l’ora, che Biden aveva incluso nella proposta iniziale).

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Le dimensioni del pacchetto, tuttavia, hanno destato preoccupazione anche tra alcuni economisti di ispirazione democratica, come Olivier Blanchard e Larry Summers.

Uno stimolo pari al 9 per cento del Pil mette infatti gli Stati Uniti in condizione di accelerare la ripresa e riportare il Pil sulla traiettoria pre-pandemia già entro il terzo trimestre del 2021, evitando una stagnazione a bassa crescita e bassa inflazione. Le azioni delle autorità americane sono anche un esempio di coordinamento tra politica fiscale e politica monetaria che, specialmente se visto insieme alla vigorosa campagna vaccinale, dà il senso di un cambio di passo importante e di una ritrovata leadership.

Ma l’American Rescue Plan crea anche rischi non trascurabili. In primo luogo, lo stimolo fiscale si tradurrà in un deficit di bilancio stimato a livelli pari al 15 per cento del Pil (simile al deficit del 2020) e in un ulteriore aumento del debito pubblico, che, già senza includervi il piano, era stimato a oltre il 100 per cento del Pil a fine 2021, un livello raggiunto solo alla fine del secondo conflitto mondiale. Da un lato, un aumento del deficit e del debito pubblico è la risposta di politica fiscale anticiclica che ci si aspetta, soprattutto da paesi, come gli Stati Uniti, che hanno spazio fiscale per farlo e in periodi in cui la politica monetaria ha armi spuntate. Inoltre, sebbene il debito sia a livelli storicamente elevati, la spesa per interessi è ai minimi storici e l’emissione nuovo debito è particolarmente conveniente, grazie ai bassi tassi di interesse. Non sembrerebbero quindi esserci ragioni sufficienti per preoccuparsi delle sostenibilità del debito pubblico statunitense.

Tuttavia, è lecito interrogarsi su quali potrebbero essere le dinamiche del debito pubblico se i tassi di interesse dovessero aumentare. Si tratta di una preoccupazione realistica, dato che i tassi non sono una variabile esogena ma rispondono alle dinamiche economiche.

Nell’ultimo periodo, ad esempio, i tassi sui titoli di stato sono già in ripresa, trainati dalle aspettative di inflazione. Un intervento della Federal Reserve diretto a controllare i tassi di interesse a lungo termine potrebbe essere interpretato come un segnale di perdita di indipendenza della banca centrale. Inoltre, alcuni ipotizzano che lo stimolo possa surriscaldare l’economia e generare tensioni inflazionistiche. Si pensi, ad esempio, al possibile aumento dei consumi una volta eliminate tutte le restrizioni, spinto dai maggiori risparmi accumulati durante la pandemia e dai favorevoli corsi azionari. O al ruolo che l’ingente liquidità presente nel settore finanziario potrebbe giocare una volta che le condizioni macroeconomiche e sanitarie migliorino.

In questo scenario, un aumento rilevante dei tassi diventerebbe più probabile. Un intervento restrittivo della Federal Reserve diretto a contrastare l’aumento dei prezzi potrebbe generare tensioni sui mercati finanziari, ridurre lo spazio fiscale attraverso un aumento della spesa per interessi e mettere a repentaglio la sostenibilità del debito, specialmente alla luce delle recenti proiezioni di un significativo aumento dell’indebitamento pubblico.

Una seconda preoccupazione riguarda il rischio che la dimensione dello stimolo e dell’aumento del debito lascino poco spazio per eventuali futuri aumenti della spesa che si potrebbero rendere necessari per fronteggiare nuovi shock. L’incertezza che circonda la pandemia è ancora tale da lasciare ampi margini di incertezza sulla ripresa economica. Inoltre, alcuni effetti della crisi non si sono ancora pienamente manifestati e rischiano di emergere quando alcune delle misure contenitive dovranno essere gradualmente rimosse. Si pensi, ad esempio, al rischio che alcune imprese si vedano costrette a chiudere una volta venuti meno gli aiuti pubblici o agli effetti sul mercato immobiliare e sui consumi quando saranno eliminate le moratorie su mutui e affitti, recentemente estese dall’American Rescue Plan. Infine, lo stimolo potrebbe avere effetti trainanti sulle economie di molti paesi, ma la domanda estera potrebbe comunque rimanere debole, specialmente se la ripresa in Europa procede a un ritmo più basso. E una forte ripresa dell’economia statunitense trainata dall’American Rescue Plan potrebbe richiedere un rialzo dei tassi di interesse per rallentare l’inflazione, che a sua volta potrebbe avere conseguenze sui mercati finanziari, specialmente nei paesi emergenti, come insegna l’esperienza del taper tantrum nel 2013.

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Un terzo aspetto è collegato a un possibile effetto spiazzamento degli investimenti pubblici, specialmente in infrastrutture, per i quali diventerà più difficile reperire risorse, tanto più in uno scenario in cui i tassi di interesse virino verso l’alto (Biden ha già segnalato la sua intenzione di lanciare un robusto piano di investimenti in infrastrutture).

Limitare il numero di beneficiari?

Alla luce di questi rischi, non trascurabili, una domanda legittima è se sia possibile raggiungere obiettivi simili impiegando meno risorse, ma in modo più efficiente. Ad esempio, parte dell’efficacia dello stimolo dipende dalla propensione individuale a spendere il sussidio ricevuto. Una serie di analisi recenti, basate sul Cares Act dello scorso marzo, mostra chiaramente che la propensione al consumo è maggiore tra le famiglie a basso reddito e con poca liquidità. Al contrario, individui più ricchi o con risparmi da parte tendono a spendere solo una piccola frazione del sostegno ricevuto. Il piano attuale prevede ancora un’allocazione degli aiuti relativamente incondizionata, dato che la soglia per l’eleggibilità è fissata a un livello di reddito relativamente elevato. Il rischio, quindi, è che una parte non trascurabile degli aiuti sia diretta a famiglie che non ne hanno strettamente necessità e che si trasformino in risparmi, invece che in maggiori consumi. D’altra parte, disegnare politiche che siano in grado di beneficiare prevalentemente coloro che ne hanno più necessità – e quindi massimizzare il ritorno per ogni dollaro speso – è molto complesso e rischia di tradursi in ritardi ed eccessiva burocrazia. I primi trasferimenti del piano di Biden, invece, sono già stati depositati nei conti correnti, a pochi giorni dall’approvazione del Congresso. Tuttavia, se l’urgenza dovuta all’esplosione della pandemia giustificava un approccio diretto a elargire aiuti a più persone possibile nel minor tempo possibile, a quasi un anno di distanza è lecito chiedersi se sia possibile migliorare il targeting della manovra per ridurne i costi.

In sintesi, il piano firmato da Joe Biden ha molti elementi per far sì che la sua portata non si limiti alla gestione dell’emergenza, ma sia in grado di riformare il sistema di welfare statunitense, cominciare a ridurre la povertà e le forti diseguaglianze di reddito che sono andate aumentando negli ultimi decenni, favorire la mobilità sociale, e, forse, ripristinare la fiducia dei cittadini nello stato. Tuttavia, i rischi non mancano e rendono il piano una scommessa, ma probabilmente una scommessa che vale la pena tentare. Grazie a un sistema di welfare più generoso e alle misure già in atto, l’Europa non ha la necessità di intervenire in maniera così massiccia. Tuttavia, le diverse prospettive di ripresa tra i due lati dell’Atlantico indicano che, dopo quattro anni, gli Stati Uniti sono tornati un esempio da analizzare.

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