In Italia il numero dei laureati è basso. Una delle ragioni è la scarsa diffusione di forme di istruzione terziaria a carattere professionalizzante. Per rimediarvi il Pnrr investe sugli Its. Ma non ne promuove il necessario coordinamento con l’università.
Perché servono gli Its
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dedica ampio spazio all’investimento in istruzione, com’è naturale per un documento che – lo ha detto lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi – rappresenta la sfida di questa generazione per far ripartire l’Italia. Tra le proposte contenute nella Missione 4 (Istruzione e ricerca), in questo articolo ci concentriamo sullo sviluppo del sistema degli istituti tecnici superiori (Its).
Uno dei principali insuccessi del sistema universitario italiano è costituito dal basso numero di laureati: appena il 28 per cento dei giovani di età inferiore a 34 anni raggiunge un titolo di studio terziario (laurea triennale o magistrale), rispetto a una media europea del 44 per cento. Una delle ragioni risiede nell’assenza, in Italia, di una forma di istruzione terziaria a carattere professionalizzante: la quota di giovani che hanno frequentato corsi di questa natura, di breve durata (2 o 3 anni), è trascurabile.
Gli Its, nati nel 2010, rappresentano il tentativo di colmare la lacuna e sono la versione italiana dell’istruzione professionalizzante dopo le scuole secondarie, ampiamente presente in Europa. Si tratta di corsi post-secondari della durata di due anni, che puntano a una formazione tecnica di alto livello in alcune aree tecnologiche avanzate. L’orientamento è laboratoriale, con classi piccole (25-30 allievi), stage e docenti provenienti direttamente dal mondo del lavoro. A febbraio 2021 esistevano 109 istituti, con 723 corsi attivi.
Gli Its forniscono un ottimo sbocco lavorativo: oltre l’80 per cento dei diplomati trova occupazione entro un anno, valori superiori ai corsi di laurea triennali in economia (68 per cento) e ingegneria (77 per cento).
La principale debolezza è data dalla loro scarsa diffusione. Il numero di diplomati nel 2018 è stato di 3.536: davvero pochi se confrontati agli altri paesi europei e alle esigenze del nostro sistema produttivo. Come si può osservare nella figura 1, il ritmo di sviluppo non è mai stato particolarmente vivace. Per il 2019, il Piano nazionale anticipa un numero superiore ai 5.200 diplomati.
Un Piano poco ambizioso
Il Pnrr si propone di investire 1,5 miliardi di euro, con l’obiettivo di raddoppiare il numero di frequentanti nel 2026: per quella data si tratterebbe quindi di arrivare a 37.500 iscritti e 10.500 diplomati all’anno, mantenendo l’attuale tasso di completamento degli studi del 65 per cento. Ipotizzando per semplicità una crescita lineare, il sistema dovrebbe formare cumulativamente 150 mila nuovi studenti e 42 mila diplomati nel quinquennio. L’obiettivo è nettamente inferiore alla domanda di qualificati professionali da parte delle imprese italiane di qui al 2024 (137 mila unità), secondo l’indagine Excelsior di Unioncamere.
L’investimento previsto è molto generoso. Secondo i dati del ministero dell’Istruzione, il costo annuo di uno studente di Its è pari a 6.607 euro all’anno, che si confronta con il costo standard di 7.400 di un laureato tecnico-scientifico; nel Piano si ragiona invece di un costo annuo per studente assai più elevato, pari a 15 mila euro. È evidente che siano stati inclusi costi addizionali per gli investimenti negli spazi e nelle attrezzature (oggi spesso messi a disposizione direttamente dalle aziende), per il monitoraggio da parte dell’Indire, per la formazione del personale e per l’amministrazione: tutte voci plausibili, ma la struttura dei costi andrebbe meglio chiarita. Così come andrebbe fatto uno sforzo per ridurre il tasso di abbandono durante i due anni di studio.
L’obiettivo di 10.500 diplomati al 2026 non è molto ambizioso: rappresenterebbe poco più del 3 per cento degli attuali laureati, non abbastanza per recuperare il divario dal resto d’Europa. Per colmarlo occorre essere più determinati e mettere in campo la “capacità produttiva” dell’università, potenziando le lauree triennali professionalizzanti. Lo scorso agosto il ministro Manfredi ha opportunamente liberalizzato la possibilità di offrire questi corsi di laurea da parte degli atenei e ha reso più flessibile la struttura dei corsi.
Nel Pnrr il tema del coordinamento fra Its e università e del mutuo riconoscimento dei crediti formativi è appena sfiorato, con un riferimento alla recente positiva decisione degli atenei emiliani di collaborare con gli istituti superiori della regione. Peraltro, tutte le esperienze europee vanno nella direzione di integrare in modo stretto i canali della formazione professionalizzante universitaria ed extra-universitaria, come gli Its.
Il Pnrr non segue questa strada, ripercorrendo invece vecchie strategie di differenziazione dei percorsi, che però nel frattempo sono state messe in discussione ovunque. Le difficoltà del mondo accademico ad attivare percorsi professionalizzanti sono ben spiegate in un contributo di Luciano Modica, da poco scomparso.
Ma senza una maggiore sinergia tra Its e università e un investimento su larga scala degli atenei in percorsi triennali professionalizzanti, capace di vincere quelle resistenze, sarà impossibile colmare il ritardo dell’Italia nella quota di laureati.
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Michele
Non mi trovo del tutto d’accordo con l’autore, da un lato si parla di un numero troppo basso di laureati “appena il 28 per cento dei giovani di età inferiore a 34 anni raggiunge un titolo di studio terziario (laurea triennale o magistrale)” mescolando così lauree triennali con i titoli 3+2. Inoltre dire che “se un italiano su 3 è in possesso della laurea” è “un fallimento” mi pare un vero sproposito! Un volta la laurea era fortemente selettiva, formava attraverso un percorso duro e faceva molte vittime tra gli indecisi, inoltre la leva obbligatoria dava una ulteriore “spazzolata”. Adesso abbiamo ragazzi che dopo 3 anni di studi e una “tesi” davvero ridotta ai minimi termini (quando mi sono laureato io si doveva stare in tesi un anno, doveva essere un lavor sperimentale e si faceva un esame finale prima di discuterla) vengono considerati dei laureati e inseriti nelle statistiche. Già il fatto che si sia arrivi ad avere il 30 percento della popolazione con un titolo universitario mi pare indichi chiaramente che la selezione è sparita in nome della quantità, più laureati è un bene: ma perchè? perchè lo fanno gli atri?. Siamo sicuri che servano più laureati o forse servono, come si dice nella seconda parte dell’articolo, più diplomati con profili tecnici? e, a mio parere meno laureati ma molto più selezionati?
Alex
A mio avviso, l’istruzione professionalizzante è, non da oggi, la carta vincente per una formazione che dia concreti sbocchi occupazionali. Una buona integrazione tra formazione professionalizzante universitaria ed extra-universitaria, come fanno in parecchi paesi europei, privilegiando già da subito l’esperienza in azienda, sul campo, penso rappresenterebbe per tanti giovani un ottimo viatico per il tanto agognato mondo del lavoro. Sarebbe certamente un abbinamento proficuo: formazione teorica e contestuale esperienza pratica di alto livello, darebbero vita ad una ricetta utile e credo molto spendibile.
Claudio
Sono un diplomato its: a mio avviso all’ottima preparazione fornita dai corsi manca uno sbocco normativo: non possiamo accedere alle professioni, non essendo periti, nè geometri, nè ingegneri… Ha senso, dopo 2 anni professionalizzanti, avere in mano un pezzo di carta che nessuno sa apprezzare? Piccolo esempio: il nostro corso di Business English, direi di elevato livello, non è riconosciuto nemmeno nelle graduatorie ATA per la scuola… L’autore diceva: ‘programma non molto ambizioso’