La pandemia ha riportato in Italia migliaia di persone che continuano a lavorare da remoto per imprese straniere. Il fenomeno non potrà che far bene alla ripresa del paese. Ma bisogna prestare attenzione alle disuguaglianze che potrebbe generare.
Linee guida per cervelli in smart working
Il 2020 è stato il primo anno in cui il numero d’italiani all’estero non è aumentato. Chi sognava di partire ha rimandato. Chi aveva già un’offerta di lavoro ha iniziato da casa. Tanti tra coloro che erano all’estero da anni sono tornati in Italia, lavorando da remoto: l’ormai celebre south working.
Nei quindici anni precedenti, gli italiani registrati all’estero erano quasi raddoppiati: da 3 a 5,5 milioni. Più altri milioni non iscritti all’anagrafe “estero”. I dati Istat per il 2020 non sono definitivi, ma la pandemia sembra aver fermato un fenomeno inarrestabile. Almeno per un anno.
Non appena sarà possibile, molti torneranno a studiare, lavorare e a costruire una famiglia all’estero. Ma il south working avrà un futuro anche dopo la pandemia? E se sì, sarà giusto e sensato incentivarlo per far ripartire l’economia italiana?
Innanzitutto, affinché continui dopo la pandemia, occorre la disponibilità dei datori di lavoro. C’è chi ha garantito flessibilità illimitata fin da marzo 2020 (Twitter). Chi l’ha promessa a inizio pandemia per poi cambiare idea (JP Morgan). E ci sono molte medie aziende che vedono nella flessibilità un potenziale vantaggio competitivo (GoCardless).
Si tratta chiaramente di scelte che spettano alle singole imprese, ma il ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle entrate possono fare molto per rendere queste decisioni più semplici. Una recente circolare dell’Agenzia va nella giusta direzione, chiarendo il quadro normativo in una specifica fattispecie: la determinazione della base imponibile di un dipendente fiscalmente residente in Italia e distaccato presso una consociata estera.
Tuttavia, servirebbero linee guida chiare in relazione a molte altre fattispecie e tipologie di contratto. Oltre a documenti più semplici, meno giuridici e digeribili da tutti (molte guide infografiche dell’Agenzia su altri temi sono un ottimo esempio). E a forme di supporto per le piccole e medie imprese straniere che istituiscono libri paga e posizioni Inps e Inail in Italia.
Le ragioni per tornare
Allo stesso tempo, occorre che gli italiani continuino a voler tornare in Italia e a restarci.
La retorica della “fuga dei cervelli” si è sempre concentrata sulle cause economiche: all’estero ci sono università migliori, più posti di lavoro e salari più alti. Tuttavia, come dimostrato dall’eccellente lavoro di Controesodo, da quasi dieci anni tornare in Italia è incredibilmente vantaggioso dal punto di vista economico. Il costo della vita è accessibile e la tassazione per il rientro è la più agevolata nel mondo occidentale (dopo quella polacca). Ciononostante, la rotta non si è mai invertita fino allo scorso anno.
Come documentato da molti studiosi di migrazioni, i soldi sono solo una parte dell’equazione e gli italiani non sono un’eccezione. Partiamo per motivi economici, ma anche per motivi culturali. Per genuina curiosità o alla ricerca di società più aperte e dinamiche. In molti casi, ammettiamolo, anche per moda, orgoglio, invidia ed edonismo.
Fino allo scorso anno, tornare in Italia dopo un’esperienza internazionale era vissuto come una sconfitta. Soprattutto per chi rientrava da una grande capitale o da una grande azienda o università. Una retrocessione da giustificare con imbarazzo davanti a colleghi, amici e parenti.
In poco più di un anno, la pandemia ha riabilitato socialmente e culturalmente tutto ciò che è a misura d’uomo, locale, piccolo, pittoresco, sostenibile. In questo senso, potrebbero esserci le condizioni affinché il rientro di molti lavoratori italiani all’estero continui e diventi strutturale nei prossimi anni. A patto che rimangano gli attuali incentivi economici e fiscali per i lavoratori. E che ci sia chiarezza, trasparenza e cooperazione tra il fisco italiano e i datori di lavoro stranieri.
I rischi. E i possibili vantaggi
Ipotizzando che il trend continui dopo la pandemia, occorre chiedersi se sia giusto e sensato incentivarlo per far ripartire l’economia.
Giusto non è detto che lo sia. Se il south working dovesse prendere piede su larga scala, i salari gonfiati dai contratti stranieri e dalla detassazione italiana potrebbero creare squilibri e tensioni da non sottovalutare. In località con un’offerta di immobili relativamente rigida, i proprietari di case si arricchirebbero a spese dei ceti medio-bassi, che vivono più spesso in affitto. La stessa dinamica di marginalizzazione si applicherebbe a negozi, locali e ristoranti, sempre meno accessibili a chi ha un contratto italiano senza agevolazioni fiscali.
In sintesi, come accaduto in molte grandi città europee, di fronte ad affitti e servizi in costante crescita, migliaia di persone si troverebbero costrette ad abbandonare i centri più in voga tra i south workers, esacerbando le tensioni sociali che già preoccupano in molte parti del paese. Questo non vuol dire che si debba ostacolare il fenomeno. Anzi, sottolinea l’importanza di correggere, con adeguate politiche di urbanistica, edilizia sociale e redistribuzione, le distorsioni che potrebbe generare in certi mercati.
Alcuni hanno anche sostenuto che il south working sarebbe controproducente, in quanto tutto il valore aggiunto generato dal lavoratore continuerebbe a finire all’estero. I south workers genererebbero soltanto un aumento dei consumi interni (la casa, il ristorante, la vacanza) e del gettito fiscale associato a queste attività in Italia. Tuttavia, i datori di lavoro stranieri continuerebbero a beneficiare del loro talento, della loro produttività e delle loro innovazioni. Lasciando il potenziale di crescita economica dell’Italia al palo: esattamente dove sta da 30 anni a questa parte.
Dal punto di vista della teoria economica, è una preoccupazione sensata, che però perde di vista l’ovvio. Se il mondo potesse essere cambiato premendo un tasto come in un videogame, chiunque sceglierebbe lo scenario in cui gli expat rientrano in massa nelle imprese e nelle università italiane. Dove il rientro dei cervelli le rilancia ai vertici delle classifiche internazionali, risolleva la produttività dell’economia e, di conseguenza, i salari di tutti i lavoratori. Anche quelli che non sono mai emigrati.
Purtroppo, il mondo moderno è più complesso di un videogame: cambia passo dopo passo, attraverso piccoli miglioramenti marginali. I south workers continueranno sì a generare valore aggiunto all’estero, ma i loro consumi e le loro tasse avranno comunque un impatto positivo sulla crescita economica nel breve periodo.
Inoltre, lavorare per un’impresa straniera da remoto non significa vivere in isolamento su Zoom o Google Meet. Significa partecipare alla vita sociale, culturale e politica del luogo di residenza. Vuol dire lavorare accanto ad altre persone e talenti condividendo spazi e idee. Implica organizzare attività sportive e culturali, fare volontariato, presentarsi alle elezioni locali.
Nel medio periodo, inevitabilmente tutte queste interazioni faranno sì che il talento, la produttività e il potenziale d’innovazione dei south workers si trasmetta alle persone e al tessuto economico e sociale che li circondano.
Anno dopo anno, questi spillovers genereranno nuove idee, nuove imprese, nuovi modi di lavorare e di produrre. E non sembra assurdo pensare che una proporzione di south workers inizi un giorno a lavorare per un’organizzazione italiana o si metta in proprio. Tutti effetti che avrebbero un chiaro effetto positivo sul potenziale di crescita dell’economia italiana e sulle prospettive di rilancio del paese dopo la pandemia.
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Savino
La pessima classe dirigente del sud può stare serena: i figli di quelle terre non torneranno e non pesteranno gli orticelli coltivati. E’ una questione di mentalità e di stile. Per fortuna, i nostri ragazzi non vivono di mediocrità.
Elena Militello
Grazie per aver colto l’essenza del South Working®, oltre i toni giornalistici, da parte di tutti noi di South Working-Lavorare dal Sud (southworking.org).
Rosa
In realtà la normativa sul rientro dei cervelli rimane lacunosa in merito alla questione dei lavoratori distaccati. Questa fattispecie non é esplicitamente disciplinata dalla disposizione normativa, prestandosi dunque a diverse interpretazioni, fra tutte il “principio di continuità” dell’attività svolta dall’impatriato, in particolar modo per i contratti di telelavoro.
Si prenda ad esempio un cittadino AIRE residente all’estero dal 2010. Questi viene temporaneamente dislocato dalla sua azienda estera in Italia nel 2020 per seguire un progetto in loco attraverso un accordo di “smart working” e, fermandosi più di 183 giorni, acquisisce la residenza fiscale italiana. Ad inizio 2021, l’azienda, in virtù della buona performance, decide di trasferire il lavoratore in italia con un nuovo contratto italiano e un nuovo titolo e il lavoratore si iscrive nell’anagrafe italiana.
Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate, non ravvisando per il 2020 il rientro in Italia contestualmente all’inizio di una “nuova” attività, può negare il beneficio, perché la permanenza in Italia nel 2020 va ad interrompere la durata di soggiorno all’estero richiesta.
Questo può creare dei vulnus giuridici pericolosissimi perché in caso di accertamento fiscale si sarebbe costretti a ripagare non solo il beneficio ottenuto, ma anche una penale elevata. La normativa andrebbe adeguata, primo perché la pandemia nel 2020 ha di fatti obbligato molti a soggiornare in Italia più del dovuto, e ricordiamo il governo di allora ha regolato solo la posizione dei frontalieri, secondo perché un periodo di prova in telelavoro può di fatti servire a dimostrare all’azienda che il lavoratore é sufficientemente indipendente per essere trasferito senza problemi, fermo restante che questi abbia di fatti soggiornato all’estero PRIMA DEGLI ACCORDI DI TELELAVORO per un periodo minimo di due anni.