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Sull’inflazione il rischio è nelle aspettative

La crescita dell’inflazione è determinata da due fattori: la pressione sui costi delle imprese e le aspettative sul futuro. È proprio questo secondo aspetto quello più critico. E le banche centrali si trovano davanti a un delicato crocevia.

La pressione sui costi

L’inflazione, come gli aerei, ha due motori principali. Il primo riflette le pressioni sui costi delle imprese (di tipo salariale o legate al prezzo dei beni intermedi); il secondo motore è quello delle aspettative.

La crescita dell’inflazione che si osserva negli Stati Uniti e, in parte, nella zona euro è oggi principalmente legata al primo motore, quello della pressione sui costi. La pandemia ha generato una compressione della domanda da parte dei consumatori di molti beni di consumo, che è stata in parte forzata dalle restrizioni, ma anche guidata da risparmio precauzionale. Oggi si avverte una carenza di diversi beni. Ad esempio, è difficile acquistare una bicicletta, o una macchina, perché diverse componenti necessarie per la produzione scarseggiano. Negli Stati Uniti la crescita dei prezzi delle auto usate è uno dei fattori principali che alimenta la ripresa inflazionistica.

Con la rimozione di molte restrizioni, la domanda accumulata (cosiddetta “pent-up demand”) negli ultimi 18 mesi si sta riversando sui mercati in un periodo concentrato, invece di distribuirsi su un lasso di tempo più lungo. La disponibilità all’acquisto online, consolidata durante la pandemia, permette alla domanda di accelerare nel breve periodo in modo molto più rapido che in passato. Semplicemente, le catene internazionali dell’offerta non sono in grado di tenere il passo dell’impennata della domanda. In più, molte imprese stanno ricostituendo le loro scorte, contribuendo a una impennata dei prezzi alla produzione e dei prezzi all’ingrosso.

Secondo il Bureau of Labor Statistics negli Usa l’inflazione (nei prezzi dei beni di consumo) è aumentata del 5 per cento nei dodici mesi terminati a maggio, l’incremento più grande dall’agosto 2008. Ignorando i prezzi di alimentari ed energia, che tendono a essere più volatili, l’inflazione è stata del 3,8 per cento nello stesso periodo. È stato il più forte aumento della cosiddetta “inflazione core” da giugno 1992. Nella zona euro l’ultimo dato di maggio 2021 segnala un indice di inflazione Hicp (al netto di alimentari ed energia) del 2 per cento esatto, in linea dopo molti anni con l’obiettivo della Banca centrale europea.

Cosa accadrà domani

Molti si chiedono se la spinta inflazionistica sia temporanea o meno. Ad esempio, il prezzo dei futures sul legname (un importante bene intermedio nelle costruzioni) per la consegna di luglio sono già precipitati nei giorni scorsi del 41 per cento rispetto al picco raggiunto all’inizio di maggio.

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La risposta, però, non dipende tanto dal primo motore dell’inflazione (quello dell’eccesso di domanda) bensì soprattutto dal secondo motore, quello delle aspettative. In generale, l’inflazione corrente dipende dalle aspettative sull’inflazione futura. Il motivo principale è che i contratti salariali, in termini nominali, sono fissati per un periodo predeterminato di tempo. Immaginate i sindacati o un lavoratore al tavolo della contrattazione con l’impresa. Poiché il salario di oggi, espresso in euro, sarà tale per un certo orizzonte temporale (il lavoratore non ricontratta il proprio salario ogni mattina quando si presenta al lavoro), l’aspettativa di un rialzo futuro dei prezzi induce i lavoratori o i sindacati a richiedere un salario nominale più alto già oggi, per proteggerne il potere d’acquisto. Ciò esercita una spinta al rialzo dei costi delle imprese e quindi, a catena, sui prezzi. Con una logica simile, se le imprese si aspettano che i prezzi dei beni intermedi necessari alla produzione possano salire in futuro, cercheranno di aumentare le scorte oggi, facendo crescere l’eccesso di domanda per semilavorati, e a catena i prezzi dei beni intermedi e dei beni finali di consumo.

Il ruolo delle banche centrali

Le aspettative di inflazione dipendono in modo cruciale dal comportamento atteso futuro da parte delle banche centrali. Negli Usa la Fed si trova a un crocevia molto delicato.

Dalla fine dello scorso anno è operativo un nuovo regime di politica monetaria, cosiddetto di average inflation targeting. La Fed si impegna a tollerare periodi di inflazione al di sopra del target del 2 per cento per eventualmente compensare periodi precedenti in cui è rimasta al di sotto del target. Rimane indefinito, però, per quanto a lungo la Fed abbia intenzione di farlo. Il rischio più grande è che l’incertezza si rifletta in un circolo vizioso di maggiori aspettative di inflazione che alimentano quella corrente, la quale a sua volta alimenta maggiori aspettative. Il tutto rafforzato dalla spinta potente del piano di espansione fiscale messo in atto prima dall’amministrazione Trump e poi da quella Biden.

Il dilemma centrale per la Fed è dunque come gestire un periodo temporaneo di inflazione al di sopra del target senza perdere credibilità. Ma qui il dilemma ha due facce. Da un lato, per la Fed è necessario dimostrare che il nuovo regime di average inflation targeting è una cosa seria. Un anno fa, vi si è impegnata proprio per stimolare, allora, le aspettative di inflazione (e quindi spingere al ribasso i tassi di interesse reali) e con ciò consumi e investimenti. Il “futuro” di un anno fa però è oggi. Perciò la Fed non può facilmente rimangiarsi quella promessa e operare con il freno di un rialzo dei tassi appena l’inflazione accenna a riaffacciarsi. Ma il gioco è molto delicato. Prima del board meeting del 16 giugno, le pubblicazioni ufficiali della Fed indicavano un’aspettativa mediana di tassi di interesse invariati fino alla fine del 2023. Oggi quelle aspettative sono state riviste, indicando un possibile rialzo già prima della data indicata.

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Nella congiuntura attuale sembra quasi impossibile che la Fed possa rimanere in linea con le aspettative dei membri del proprio board. In questa operazione chirurgica di gestione temporanea dell’inflazione, potrebbe perdere il controllo delle aspettative e quindi essere presto costretta a rialzare i tassi di interesse in modo brusco (oltre a ridurre in modo massiccio l’acquisto di titoli all’interno del programma di Quantitative easing), inducendo una contrazione dell’economia. La figura 1 descrive l’andamento delle aspettative di inflazione a cinque anni, in costante crescita da marzo 2020.

Il rialzo dei tassi di interesse negli Usa avrebbe ovvie ripercussioni su tutta la curva dei rendimenti mondiali, inclusa la zona euro. Con l’aggravante che il livello di debito pubblico in diversi paesi europei, e soprattutto in Italia, viaggia verso livelli storicamente mai raggiunti. A quel punto il dilemma per la Bce sarà ancora più stringente che per la Fed. Rialzare i tassi di interesse anche di pochi punti avrà conseguenze molto costose sul finanziamento del debito. Se l’inflazione dovesse salire in modo stabile al di sopra del target del 2 per cento, le pressioni sulla Bce perché abbandoni la politica monetaria ultra-espansiva si faranno molto forti. Sarà quello il vero momento “whatever it takes” per la presidente Lagarde.

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Cambio di rotta nella politica della concorrenza Usa

  1. Firmin

    Le aspettative sono il colpevole perfetto per l’inflazione, come il maggiordomo nei peggiori gialli. Rispetto a un maggiordomo hanno anche il vantaggio di non essere direttamente misurabili, al pari della felicità e del benessere. I fisici, che sono più seri degli economisti, hanno capito almeno un centinaio di anni fa che non si possono costruire teorie su oggetti che non siano almeno legati meccanicamente a fenomeni osservabili. Altrimenti sarebbe legittimo affermare che le particelle subatomiche (non osservabili per definizione) siano guidate da gnomi e fate che si divertono a determinare esattamente i fenomeni osservabili (strisce di vapore nelle camere a bolle, vaghe ombre su una lastra fotografica,
    effetti devastanti sugli esseri viventi
    ecc.). Nel caso dell’inflazione, se si sostituisce la parola “aspettative” con “potere di mercato” di chi fissa i prezzi i conti tornano meglio. Un eccesso di domanda (di beni, lavoro, fondi, ecc.) genera un aumento dei prezzi indipendentemente dalle aspettative (razionali o meno) delle parti. Quindi, invece di combattere il mulino a vento delle aspettative sarebbe il caso di riequilibrare le forze in campo come qualsiasi mediocre arbitro. Ma comprendo che gli arbitri non vincono i Nobel mentre Lucas&co si.

  2. Articolo interessante, complimenti.

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