I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno aperto una ferita nel tessuto della nostra democrazia. Ora l’obiettivo più importante è evitare che si ripetano. Dopo l’introduzione del reato di tortura, servono altre misure. Sono note, basta realizzarle.
La democrazia violata
Sono servite le terribili immagini dei circuiti di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere –rimaste intatte nonostante i tentativi di manipolazione nei giorni seguenti la “perquisizione” – a mettere in luce le torture perpetrate, in modo sistematico e premeditato, dagli agenti di polizia penitenziaria nei confronti di detenuti inermi e indifesi.
Siamo nell’aprile 2020, tutta l’Italia è in lockdown per il dilagare del virus e nelle carceri italiane da almeno un mese il clima è molto teso. Si moltiplicano le rivolte, anche violente, da parte di detenuti spaventati dal virus che minaccia di entrare all’interno di istituti penitenziari sovraffollati e scarsamente igienizzati. A Santa Maria Capua Vetere le proteste degli internati, che chiedono mascherine e certezze sulla voce che sta circolando – c’è un positivo al Covid in carcere –, si risolvono in poche ore senza violenze né danni a cose o persone grazie all’intervento del magistrato di sorveglianza. Ma per gli agenti penitenziari non è sufficiente: «Rischiamo di perdere il carcere», scrivono sulle chat interne di whatsapp. Il 6 aprile parte la “perquisizione”, così l’hanno chiamata, con la partecipazione di squadre antisommossa dotate di caschi, scudi e manganelli. Il resto è quanto abbiamo saputo tristemente in questi giorni: detenuti picchiati e umiliati al grido: «Ora lo stato siamo noi».
Eppure, lo stato non tortura. Se lo fa viola l’articolo 13 della Costituzione e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma soprattutto mina le fondamenta stesse della democrazia. Nelle democrazie, infatti, ogni cittadino, anche il più efferato dei criminali, ha diritto al rispetto della propria dignità e all’integrità del proprio corpo. Lo richiede il contratto sociale che, nel rimettere allo Stato l’amministrazione della giustizia e l’uso della forza, alla quale noi come singoli cittadini rinunciamo, esige un rispetto sacrale del corpo di chi si trova, inerme, nelle sue mani. È un principio intangibile e non negoziabile. Fatti come quelli occorsi a Santa Maria Capua Vetere sgretolano fino a frantumare la fiducia che tra individuo e istituzione. Poco importa quale sia l’istituzione. Il sentimento del cittadino di fronte a queste violenze è sempre lo stesso: il terrore di varcare una porta, che sia d’ospedale o carcere, palazzo di giustizia o caserma, e ritrovarsi davanti un uomo dello stato convinto di poter fare qualsiasi cosa, anche contro la legge, con la tranquillizzante sicurezza di rimanere impunito.
Un film già visto e forse destinato a ripetersi
C’è una continuità tra quanto avvenuto durante il G8 di Genova nel luglio 2001 e gli episodi di violenza perpetrati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere? Il déjà vu è inevitabile, troppe agghiaccianti coincidenze con i fatti di venti anni fa, con la “perquisizione” nella scuola Diaz-Pertini e con gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordine in modo sistematico e organizzato su persone private della libertà all’interno della caserma di Bolzaneto – «una zona di “non diritto” in cui le garanzie più elementari erano state sospese» e ove i ricorrenti erano stati «trattati come oggetti nelle mani dei pubblici poteri», secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo. Senza dimenticare poi tutti gli altri casi di persone che, nelle mani dello stato, hanno subito lesioni o peggio e tutti – al di là dell’esito delle indagini e dei processi – pesano comunque ancora sulla nostra coscienza collettiva: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva sono solo alcuni. Nulla è cambiato da quando sono accaduti quei fatti?
L’introduzione del reato di tortura e le difficoltà di accertamento
In realtà, nel frattempo un importante passo in avanti è stato compiuto con l’introduzione, nel 2017, nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, proprio su spinta decisiva delle pronunce di condanna contro l’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione ai fatti di Genova. Così facendo, il nostro paese si è adeguato, seppur con il proverbiale ritardo, agli impegni assunti a livello internazionale sin dal lontano 1989.
La legge non è scritta bene: è ridondante e infarcita di espressioni e (soprattutto) aggettivi inutili come se il legislatore, dopo 28 anni e mezzo di continui ostacoli all’approvazione di un testo, si fosse arreso a votarne uno purchessia, la cui barocca formulazione, però, ha fatto temere a molti un’applicazione più che problematica. Ma da allora la legge contro la tortura è stata applicata. E alcuni, sia pure timidi, risultati si iniziano a vedere: alcune pronunce dei giudici di merito – due condanne in primo grado, con rito abbreviato, pronunciate dai Tribunali di Ferrara e di Siena – hanno per la prima volta applicato la nuova disposizione incriminatrice per violazioni da parte di pubblici ufficiali (nello specifico agenti di polizia penitenziaria) nei confronti di detenuti. Notizia degli ultimi giorni è poi la condanna di cinque carabinieri di Piacenza, imputati anche del delitto di tortura, in relazione ai fatti della caserma Levante.
Allo stesso tempo, però, le sedici inchieste aperte negli ultimi tre anni testimoniano la difficoltà dei magistrati a individuare responsabilità e a ricostruire i fatti, quando avvengono all’interno delle mura di una prigione. Contro poche sentenze di condanna, spuntano infatti numerose richieste di archiviazione (come a Modena), indagini senza indagati (sempre Modena), l’impossibilità di riconoscere chi ha alzato le mani o il manganello (Potenza) e torture derubricate a semplici percosse (Pavia), dunque materia per i giudici di pace.
Le difficoltà che avrebbero incontrato i giudici nell’accertamento di queste condotte erano ben note a chi studia questi fenomeni e avrebbero dovuto esserlo anche al nostro legislatore. Uno dei massimi esperti del mondo carcerario, Luigi Manconi, ha ricordato, del resto, come «il carcere e la caserma sono istituzioni totali secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica».
D’altronde, solo la diffusione di video così espliciti nel raccontare le violenze perpetrate dagli agenti penitenziari nei confronti dei detenuti ha aperto una breccia su quanto accaduto nel carcere casertano lo scorso anno. Basti pensare che lo scorso ottobre, quando le attività investigative erano già in corso ma i video non erano ancora stati diffusi, il sottosegretario alla Giustizia del precedente governo aveva definito in Parlamento la perquisizione straordinaria come «una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto». Oggi, invece, la ministra della Giustizia ha emesso un durissimo comunicato accompagnato da una serie di iniziative culminate nella sospensione degli agenti nei cui confronti sono stati emessi i provvedimenti cautelari e in un’ispezione straordinaria all’interno dell’istituto penitenziario casertano.
È necessario intervenire
I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno aperto una ferita nel tessuto della nostra democrazia e come tali andranno accertati e sanzionati, presupposto per giungere all’obiettivo più importante: evitare che si ripetano.
L’introduzione del reato di tortura è stato un importante risultato ma, a causa della sua non felice formulazione e delle difficoltà di accertamento, non ci pare misura da sola sufficiente a garantire che siano provati fatti e responsabilità. Ad esempio, siamo facili Cassandre nel prevedere che i magistrati incontreranno ancora difficoltà non tanto, forse, in questo peculiare caso, a dimostrare l’esistenza dei maltrattamenti quanto, in un contesto “chiuso” come quello carcerario, a identificare i singoli autori di abusi e violenze. Finora ciò è stato determinato con troppa frequenza dalla riluttante collaborazione dei colleghi, figlia di un malinteso “spirito di corpo”.
Sono note le misure immediate che di certo aiuterebbero. Alcune di esse sono già state discusse nei recenti incontri tra i rappresentanti del governo e il capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Ma è urgente trasformare, oggi più che mai, i progetti in provvedimenti.
Bisogna intervenire prima di tutto nella formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria: il contesto carcerario comporta la gestione di processi relazionali e comportamentali molto complessi che possono sfociare in azioni violente. Prevenirle è fondamentale ma, da un diverso punto di vista, la soluzione dei conflitti richiede competenze specifiche e ci pare possa essere una tappa assai rilevante nel trattamento.
Altro accorgimento è certo l’introduzione di un numero identificativo sulle uniformi e sui caschi degli agenti, intervento quest’ultimo sollecitato più volte anche dai giudici di Strasburgo e tutt’ora rimasto inascoltato dal nostro legislatore.
Bisogna poi procedere al ripristino dell’intera rete di videosorveglianza attiva negli istituti, prolungando altresì l’archiviazione delle immagini, finora prevista per pochi giorni. Una misura, quest’ultima, da assumere a tutela dei detenuti, ma anche degli agenti che prestano servizio all’interno delle carceri e che non possono essere abbandonati a loro stessi nello svolgimento del loro delicato compito.
Anche le modalità di verifica e comunicazione all’interno del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria dovranno essere riviste, con protocolli più precisi capaci di individuare i responsabili di ogni singolo passaggio della catena decisionale.
Una diversa consapevolezza del personale penitenziario circa il suo ruolo indispensabile nel reinserimento del condannato e trasparenza nell’esercizio di un potere (a oggi ancora ritenuto) un male necessario, come la signoria sulla libertà dell’uomo sull’uomo. Questa ci pare la doppia chiave per aprire le porte delle carceri e farvi entrare lo spirito voluto dalla Costituzione.
Il primo passo può essere proprio realizzare gli atti concreti che, insieme ad altri, possono tentare di respingere quell’idea che da tempo si fa avanti nel nostro paese, anche grazie ad alcune forze politiche: ossia che i diritti fondamentali non siano essenza stessa di ogni individuo, ma debbano essere conquistati. Chi si trova in carcere evidentemente non li merita.
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Savino
Il comparto sicurezza deve dare sicurezza ai cittadini non far sentire nella sicurezza dell’impunità atteggiamenti squadristici e bullismi vari di cui vantarsi. Se, poi, entriamo nel merito di come avvengono i reclutamenti non per meritocrazia otteniamo tutte le risposte.
Belzebu'
In un paese civile si dovrebbero combattere, con sanzioni pesanti, gli abusi di potere di qualsiasi attore e autorità del pubblico impiego, poichè tipici del fascismo nero come di quello rosso comunista.
I responsabili dei pestaggi nelle carceri, in particolare e poichè addetti al controllo e mantenimento dell’ordine, dovrebbero essere sanzionati con multe salate e subito licenziati senza possibilità di essere riassunti a vita.