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Perché è illusoria la strategia del ministro dei Trasporti

Sono 25 i miliardi destinati dal Pnrr alla costruzione di nuove linee ferroviarie. Si dovrebbe così realizzare un radicale spostamento di traffico merci e passeggeri dalla strada alla ferrovia. Ma è un progetto con molti rischi e vantaggi incerti.

Il “cambio modale” nei progetti del ministero

La strategia che il ministro dei Trasporti sostiene, in ogni sede, per giustificare i 25 miliardi di euro allocati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per nuove linee ferroviarie non ha funzionato in passato e non ci sono ragioni tecniche per pensare che possa funzionare in futuro, se non marginalmente.

La strategia è nota come “cambio modale”, cioè finalizzata a un radicale spostamento di traffico merci e passeggeri dalla strada alla ferrovia. Perché si può affermare senza ragionevoli dubbi che ha fallito in passato? Basta guardare il fortissimo impegno fiscale erogato dallo stato negli ultimi trent’anni per conseguirlo, con risultati deludenti. Abbiamo tasse sul modo stradale tra le più alte d’Europa (e del mondo): lo stato ricava circa 40 miliardi netti annui (che in trent’anni significano 1.200 miliardi). Per le ferrovie la spesa netta, a vario titolo, è stata nell’ultimo decennio di circa 12 miliardi all’anno e ammonta a circa 470 miliardi nel periodo trentennale.

In questo trentennio, i traffici sono cresciuti molto, ma le quote percentuali sono mutate in modo marginale. Nel 2018 la ferrovia soddisfaceva il 6,2 per cento della domanda di trasporto delle persone (in termini di chilometri percorsi), tre decimi di punto in meno rispetto al 1995 prima della “rivoluzione” dell’alta velocità.

Figura 1 – Quote di domanda dei mezzi motorizzati in Italia.

Fonte: elaborazione su dati Commissione Europea.

Perché tanta rigidità al cambio modale sia di merci che di passeggeri? Iniziamo con l’osservare che il fenomeno è simile a quanto è accaduto nel resto dell’Europa, sia per politiche fiscali relative al trasporto su strada, sia per trasferimenti pubblici al modo ferroviario, sia per modestia di risultati.

Il motivo dominante è tecnico e si chiama “rottura di carico”. La strada è un sistema capillare, le linee ferroviarie ovviamente no, quindi qualsiasi viaggio in ferrovia, per merci e passeggeri, richiede con poche eccezioni di cambiare modo di trasporto due volte. La strada è in altre parole un modo di trasporto autosufficiente e diretto, mentre la ferrovia non lo è. Questo aumenta sensibilmente i tempi e i costi non monetari del sistema ferroviario rispetto alla gomma. A titolo di esempio, il cambio modale per le merci spesso comporta, oltre “l’appuntamento” con i mezzi stradali, anche l’immagazzinamento nelle stazioni ferroviarie dei carichi, con la perdita dei fondamentali vantaggi delle tecniche “just in time”.

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Per le merci si aggiunge poi l’evoluzione (per nostra fortuna inarrestabile) del sistema produttivo da merci povere e pesanti (adatte al treno) a merci ad alto valore aggiunto, per le quali un servizio di trasporto diretto è essenziale (difficile far viaggiare abiti di Armani o pc per treno). Per i passeggeri, l’aumento di reddito consente modelli di vita e di consumo complessi, che richiedono spostamenti flessibili nello spazio e nel tempo, molto al di là dei meri spostamenti casa-lavoro.

Costi e risultati attesi

Ma guardiamo più da vicino i numeri che porta il ministro Giovannini a supporto del suo costoso piano di cambio modale. Si traduce in circa 25 miliardi per nuove opere, così suddivisi: 14 al Sud, 4 al Centro, 9,5 al Nord, e 1,5 per “diagonali”. Questa è solo la parte finanziata dai fondi del Pnrr, moltissime altre risorse saranno necessarie per completare le opere. Le somme dovranno essere reperite sul mercato dei capitali, a tassi di interessi non noti, ma che secondo alcune rilevanti fonti internazionali (si veda per esempio il recente dibattito sul tema apparso su The Economist) potranno essere elevati (contribuendo al debito pubblico italiano, che si prevede rimarrà dell’ordine del 160 per cento del Pil anche dopo la fase dei finanziamenti europei).

Quindi si tratta di un piano due volte rischioso: o opere non terminate, quindi di ridotta utilità specialmente nel caso delle ferrovie, o “costi a finire” molto elevati. Certo questo non è politicamente rilevante, il 2026 è relativamente lontano.

Con questi rischi, consideriamo i risultati attesi, solo parzialmente esplicitati nel piano. Appaiono davvero molto ottimisti, essendo i costi certi e i risultati attesi assai meno certi e molto più lontani nel tempo.

Viene fornito dal ministero solo un dato medio nazionale di base, non espresso in termini economici come avviene con le analisi costi-benefici. Si afferma che i tempi di viaggio in ferrovia diminuiranno del 17 per cento. Il risultato comporterebbe il 66 per cento di aumento dei passeggeri, il 54 per cento di aumento delle merci e la riduzione delle emissioni di CO2 di 3 milioni di tonnellate annue. Poiché il risparmio di tempo di viaggio è la variabile dominante per la scelta modale dei passeggeri (il successo dell’aereo e dell’alta velocità lo dimostrano), il risultato sembra incompatibile con tutta la letteratura sull’argomento. L’elasticità al tempo è al massimo dell’ordine di -2 e qui siamo vicini al doppio. Per le merci la velocità è molto meno rilevante che per i passeggeri, e quindi o quel dato è ancora meno difendibile, o bisogna immaginare altri interventi non descritti, perché il trasporto ferroviario merci è quasi stabile da decenni. Ovviamente, i benefici ambientali (3 milioni di tonnellate CO2 in meno) sono di quella grandezza in funzione degli aumenti di traffico previsti, in quanto si assume che quel traffico venga sottratto a modi più inquinanti. Tuttavia, anche se quel valore fosse verosimile, e non lo è, equivarrebbe al 3 per cento delle emissioni del settore dei trasporti e all’insignificante 0,75 per cento delle emissioni nazionali. E non è dato sapere se nel calcolo si è tenuto conto delle emissioni “di cantiere”, molto elevate, e del rapido calo in atto e previsto delle emissioni dei mezzi stradali, oggetto di interventi rilevanti nello stesso Pnrr.

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Non appare poi approfondito il tema dei confronti intersettoriali dei costi di abbattimento. Ci sono rilevanti indizi che sarebbero molto inferiori in altri settori, alcuni dei quali, pur molto inquinanti, sono addirittura sussidiati (si pensi solo all’agricoltura, che in media riceve dalla sola Europa 6 miliardi all’anno di sussidi).

Nei documenti finora presentati dal ministero mancano le analisi finanziarie (il fatto che vi siano abbondanti fondi europei non sembrerebbe esentarci da considerare questo aspetto degli investimenti), come mancano le analisi degli impatti distributivi (per esempio, trattandosi spesso di linee di alta velocità, quali categorie di reddito avranno i maggiori benefici).

Sono stati proposti due curiosi e inediti indici, che vorrebbero essere “distributivi”: la percentuale di territorio e di popolazione servita da infrastrutture ferroviarie. Ma non sembra essere sensato né ignorare le altre infrastrutture (potrebbero esservi eccellenti infrastrutture di altri modi di trasporto), né i costi dei collegamenti ferroviari rispetto alle alternative (il modo ferroviario presenta forti economie di scala e altri modi potrebbero assicurare piena accessibilità con una frazione dei costi di una linea ferroviaria nuova).

Sono in corso analisi tecniche ed economiche approfondite su molte di queste infrastrutture, di cui si renderà presto conto. Ovviamente una strategia alternativa al cambio modale per ridurre l’impatto ambientale del trasporto stradale consiste nel concentrare gli sforzi direttamente sulla fonte, cioè accelerare lo sviluppo della mobilità elettrica o all’idrogeno, seguendo la rivoluzione tecnologica in corso in tutto il modo, in cui confluiscono, oltre a sostegni pubblici, ingentissimi investimenti privati, con il concreto rischio che l’Italia rimanga estranea a tale processo.

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Il Punto

  1. Quintino Lequaglie

    Il profe ha ragione. Tutti conosciamo la c.d. “rottura di carico”…Ci spiega tuttavia come mai 2 Paesi movimentano 50% merci via rotaia. Uno, molto grande, spedisce fragole dalla California alla sera e dopo 36 ore di viaggio alla stratosferica (?!) velocita’ di 40 mph le sbarca a Chicago. L’altro. nostro vicino di casa, carica un pallet di acqua minerale ad Henniez sul vagone postale per consegnarlo dopo 2 ore in una minuscola stazioncina del Vallese dove il capostazione/bigliettaio/manovratore di scambi/pulitore/factotum lo carica con un lindo muletto toyota sul furgone di un albergatore. Ci spiega il profe x piacere?
    Poi il profe non parla dei pendolari. Quelli che si svegliano alle 4 a Colico per timbrare a Milano alle 8 del mattino. Dei milioni di cristiani espulsi a km di distanza dai valori immobiliari e che pure ogni mattina devono tornare in citta’ da Pomezia, da Frattamaggiore o da Santhia…Ci mettiamo tutti in macchina con il carsharing magari?Chiudiamo tutte le linee come il Piemonte ha fatto. Tanto dividendo la benzina non si spende tanto di piu’ e poi chi non guida puo’ dormire un ora in piu’…sui treni non e’ piu’ possibile a causa di altoparlanti, telefonini e maleducati vari
    p.s.
    un virus affligge l’ipofisi di RFI causando gigantismo (staz afragola rhofiera mediopadana cervignano pioltello domo2 etc etc x un numero infinito)
    solo la sana politica puo’ debellare tale patologia
    con la meta’ dei soldi si farebbero le stesse opere e meglio

  2. mauro

    Il servizio merci và gestito in modo privatistico, con un’attenzione ai tempi di trasporto, alle modalità di carico e scarico, ed ai costi, qualità che sono fondamentali ma tuttora non applicate.
    Ho sempre cercato di inviare attrezzature, ai cantieri in tutt’Italia, utilizzando la ferrovia, ma ho sempre dovuto desistere, per costi e complicazioni di carco e scarico, che alla prova dei fatti, rendevano i vari vettori su strada enormemente competitivi.

  3. Quintino Rainò

    Egregio Professore,
    non entro nel merito della sua analisi, non sarei in grado.

    noto subito che Lei, da uomo del nord, trascura il fatto che l’Italia è lunga, molto lunga.
    Considerando le distanze fra i punti estremi, la distanza fra Siracusa e Milano è di 1400 km, molto di più
    – della Germania (da Monaco ad Amburgo ci sono 818 km al più) ,
    – della Francia (da Marsiglia a Calais ci sono 1069 km al più),
    – della Spagna (da Malaga a Bilbao ci sono 976 km al più)
    – e della Gran Bretagna (da Dover a Edimburgo ci sono 473 miglia all’incirca 760 km ).

    lo stato delle comunicazioni ferroviarie nell’Italia peninsulare e insulare è sotto gli occhi di tutti.
    non esistono linee degne di questo nome che colleghino le due coste, la tirrenica all’adriatica (dalla Toscana alle Marche, dal Lazio agli Abruzzi, dalla Campania alla Puglia) nè la rete delle isole si può dire completa. non solo, le comunicazioni ferroviarie nord-sud sono quelle che sono.
    ora, lei vorrebbe che si aspettassero i mirabolanti progressi nel campo della mobilità elettrica o all’idrogeno, pur di rinviare sine die la soluzione

    non credo che i romani abbiano fatto delle valutazioni esclusivamente di natura economica nel dotare i territori del loro impero di strade ben fatte, e tutte allo stesso “livello tecnologico”. e questo ha poi generato gli scambi e favorito la prosperità delle regioni collegate.

    ma forse il problema è che in questo modo non ci guadagnano i privati, cioè chi vende gli autotreni? d’altra parte questi stessi privati non sarebbero in grado di gestire una rete ferroviaria.

    noi del sud stiamo aspettando.

  4. bob

    ,,per cui secondo Lei Ingegnere mettersi in corsia di sorpasso da Modena a Bolzano e oltre è cosa normale?

  5. luca

    Il Prof Ponti cita dettagli tecnici che non sono comprensibili al ‘grande pubblico’ ma solo ad esperti.
    Mi sembra che abbia sempre avuto una posizione sugli investimenti nelle nuove linee ferroviarie molto critica (potrei sbagliarmi, ma cito terzo valico di Genova e la val di Susa).
    Un piano di investimenti nella ferrovia sembra prioritario, occorre comprendere come e dove.

    • bob

      la mancata realizzazione di uno sviluppo ferroviario in Italia ha nome e cognome che tutti sappiamo! Vorrei chiedere al ingegnere cosa ne pensa della follia tutta italiana dell’abnorme “sviluppo” di inutili aeroporti frutto di una scellerata e mediocre “politica”. . Ci sono scali, la maggior parte dei quali funzionano dietro lauti sovvenzionamenti o meglio sprechi pubblici , con 1-2 milioni di passeggeri quindi ricavi non sufficienti neanche per pagare la carta igienica nei bagni. Le chiedo: una efficiente e funzionale rete ferroviaria e di metro veloce di superficie avrebbe consentito un corretto sviluppo di scali aerei ( in Italia ne basterebbero 10). Per non parlare di territori isolati ( leggesi Appennino) o forme di turismo che un oculato sviluppo di una rete ferroviaria avrebbe favorito e sviluppato ( Svizzera). E’ sottinteso che un lungimirante e intellettualmente onesto Politico non può ragionare con una semplice equazione di costi- ricavi come ha fatto giustamente da tecnico l’ingegnere

  6. Michele Campanelli

    Questa analisi è interessante ma riguarda il passato: sul sito UE è presente la comunicazione New transport proposals target greater efficiency and more sustainable travel, del 14 dicembre 2021, nella quale il link CREATING A GREEN AND EFFICIENT Trans-European Transport Network chiarisce il ruolo dei porti italiani nell’ambito di un ampio progetto da realizzare entro il 2050 con una tappa intermedia nel 2040. I trasporti non integrati in questa rete sono destinati a rimanere marginali.

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