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Quando il migrante diventa un capro espiatorio

Quanto accaduto a Voghera a luglio è emblematico di come si affronta la questione della marginalità, non solo fra gli immigrati. Le risposte a una domanda di sicurezza ingigantita portano a chiedersi quale sia la nostra concezione dei diritti umani.

La sicurezza di Voghera

Talvolta la cronaca ci consegna fatti emblematici per comprendere il tempo in cui viviamo, coglierne le derive, discutere i modi per fronteggiarle. A fine luglio, l’uccisione di Youns El Boussettaoui a Voghera, per mano niente meno che dell’assessore alla sicurezza della città, è stata uno di questi. È necessario aprire una riflessione, prima che il tragico fatto venga consegnato all’oblio.

Vari commentatori, nei giorni successivi, hanno stigmatizzato le derive della “giustizia fai da te”: l’idea che le nostre città siano assediate dal crimine e che i cittadini abbiano il diritto di proteggersi a mano armata, anche nelle pubbliche piazze.

Questa idea di sicurezza dilata il suo significato in maniera incontrollata: diventa lotta al cosiddetto “degrado urbano”, quindi tutela del “decoro” delle nostre belle città e, soprattutto, dei loro centri storici. Inevitabilmente, i responsabili del degrado e dell’offesa al decoro sono individuati nei poveri: senza dimora, mendicanti, vagabondi, persone con problemi psichici. Se poi sono stranieri, quel minimo di rispetto che ancora si è disposti a riconoscere ai poveri italiani scompare del tutto. La povertà, con l’ingombrante disagio che porta con sé, viene trattata come una colpa individuale, anziché essere assunta come una responsabilità collettiva. La difesa dell’ordine pubblico si confonde con la riaffermazione di un ordine sociale che ha come cardine la rimozione dei poveri, del disordine che immettono nello spazio cittadino, dell’imbarazzante spettacolo della voro visibilità nei luoghi del passeggio e del commercio. Si innesta in proposito il noto fenomeno di una percezione enfatica della presenza degli immigrati sul territorio italiano: 3,5 volte il dato effettivo, secondo Eurobarometro (2017). Uno scarto superato soltanto da quello riscontrabile in alcuni paesi sovranisti dell’Est europeo.

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Assistiamo così a una riedizione delle ordinanze urbane contro i vagabondi “inutili al mondo” che hanno costellato la storia delle città europee, con i loro ricorrenti tentativi di cacciarli, disciplinarli, a volte punirli in modo drastico. Fino al bando, e talvolta alla pena di morte.

Espulsioni: la retorica e i fatti

Non è mancato chi ha stigmatizzato il fatto che Youns, con il suo deplorevole curriculum, avrebbe dovuto essere espulso. Qui entra in scena un’altra deriva delle discussioni sull’argomento. La domanda di sicurezza prende spunto dall’incidenza della criminalità straniera: 27,6 per cento degli uomini rinviati a giudizio nel 2017 (ultimo dato disponibile) e 22,7 per cento delle donne. La domanda securitaria viene gridata, ingigantita, rivendicata. Trova un’apparente risposta in provvedimenti enfatici, ad alta visibilità e forte impatto retorico, come le ordinanze sul decoro urbano. Raramente però è affrontata con approcci realistici e strumenti pragmatici.

Espulsioni di massa non saranno mai possibili, in un regime democratico e nel sistema delle relazioni internazionali vigente, e sarebbero comunque costosissime. Anziché ammettere questo semplice fatto, trarne le conseguenze inevitabili, ripiegare su obiettivi più realistici, si innesca la dinamica del capro espiatorio. Il risultato non va al di là dell’eccitazione nei cittadini di sentimenti di ostilità nei confronti degli immigrati non autorizzati, identificati – sbagliando – soltanto con quelli più visibili e stigmatizzabili come Youns.

Se si vuole cercare di rimpatriare un maggior numero d’immigrati sconfitti e alla deriva, bisognerebbe concentrare gli sforzi sui casi non altrimenti recuperabili e per i quali forse il ritorno potrebbe essere una soluzione. Esiste al riguardo lo strumento dei ritorni volontari assistiti, che altri paesi dell’Ue promuovono con maggiore convinzione, investimenti più cospicui, infrastrutture più adeguate. Il Belgio è il primo (1.725 immigrati assistiti per il ritorno volontario nel 2020 e un totale di 82.742 dall’avvio del programma nel 1984): si studi come agisce e si cerchi di importarne le strategie più convincenti.

Al fondo però della vicenda di Voghera s’incontra una seria questione per la nostra concezione dei diritti umani: quali diritti, quanta solidarietà, quale accesso ai servizi sanitari siamo disposti a riconoscere a un immigrato straniero privo dei documenti prescritti, ma affetto con ogni evidenza da disturbi psichici. E quale rapporto riconosciamo tra le cure fornite a lui e il nostro benessere comunitario. Abbiamo visto che cosa può succedere se lo si emargina. Non possiamo neppure nasconderci che in altri casi diventa lui il protagonista di aggressioni violente. Nell’un caso e nell’altro, la qualità della nostra civiltà in termini generali, e della nostra vita sociale sul piano concreto, dipendono dall’attenzione che siamo disposti a dedicare agli abitanti più deboli delle nostre città, compresi quelli disturbanti e non autorizzati.

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Il sentiero stretto delle banche centrali

  1. Luca Cigolini

    Grazie per la chiarezza. Leggendo mi torna alla mente il caso del povero Kabobo, malato psichico protagonista di un episodio di violenza, riproposto ossessivamente da certi nostri media come simbolo della pericolosità degli immigrati.
    Mi chiedo anche con quali mezzi intendiamo cautelarci contro il rischio che importanti cariche amministrative e politiche finiscano in mani tanto inadeguate: basta il voto?

  2. PURICELLI

    Come al solito, non si propongono soluzioni. Quando si parla di una società, si deve intendere una collettività che rispetta tradizioni, leggi, norme e regole che sono in uso. Ogni componente è tenuto ad osservarle ed è tenuto a collaborare per questo col lavoro/impegno previsto necessari a far vivere tale società. Questo comporta impegno ed aspettative in rapporto alla cultura e sensibilità di ciascuno. In occasione di pericoli generali, ognuno è tenuto a prestare la propria opera secondo quanto deciso dalle autorità. Non è così nel caso di un fenomeno immigratorio senza interruzione finchè lo si incoraggia. In natura le forze vanno fin dove le si lascia sfogare ma se creano disagio i responsabili debbono adoperarsi per arrestarlo o renderlo assorbibile. Se occorrono risorse, non è corretto pretendere di addossarle a coloro che non condividono le scelte favorevoli all’immigrazione. Libero ognuno di essere generoso e portare aiuto ma non lo si deve pretendere da chi non concorda con le scelte di accoglimento attuali.

    • Renzo L.

      Primo: va bene rispettare leggi e norme, ma non credo sia dovuto rispettare le tradizioni; ognuno ha le sue purché non violino le leggi.
      Secondo: l’immigrazione non ha certo bisogno di essere incoraggiata, si incoraggia da sola.
      Terzo: se occorrono risorse ce le mette lo Stato con le tasse che tutti devono versare in proporzione ai propri redditi e non a seconda delle proprie idee; alle idee si ricorre quando si vota (purché partano dal cervello e non dall’intestino).

    • Renzo L.

      P.S.: quanto alle soluzioni, l’articolo cita almeno una con esempi concreti:
      “Se si vuole cercare di rimpatriare un maggior numero d’immigrati sconfitti e alla deriva, bisognerebbe concentrare gli sforzi sui casi non altrimenti recuperabili e per i quali forse il ritorno potrebbe essere una soluzione. Esiste al riguardo lo strumento dei ritorni volontari assistiti, che altri paesi dell’Ue promuovono con maggiore convinzione, investimenti più cospicui, infrastrutture più adeguate. Il Belgio è il primo (1.725 immigrati assistiti per il ritorno volontario nel 2020 e un totale di 82.742 dall’avvio del programma nel 1984): si studi come agisce e si cerchi di importarne le strategie più convincenti.”

  3. mahmood

    In tutto questo il Rimpatrio Volontario Assistito è una misura presente anche in Italia, tanto che i fondi ciclicamente non riescono ad essere interamente allocati (e sui beneficiari, ad esempio cittadini bosniaci che giungono a Trieste apposta per fare domanda di RVA, prendere i soldi e tornare in patria si potrebbero fare lunghi discorsi). I rimpatri coatti invece funzionano laddove ci sono accordi con i Paesi di origine (vedi Tunisia, con due charter settimanali che partono da Torino con scalo a Milano, Roma e Palermo prima di giungere a Tunisi), dimostrando che il problema non è di risorse economiche o legittimità costituzionale ma di volontà politica. Il discorso che far rispettare la legalità sia costoso poi è davvero odioso, un rimpatrio coatto costa meno che far scontare la pena di rapina, dovremmo forse lasciar liberi i rapinatori ponendoci il problema economico della detenzione? Secondo qualcuno, soprattutto se interessato, pare di sì. Che questi figuri abbiano spazio costantemente a discapito di chi privilegerebbe un quantomeno vago rispetto della legalità duole.

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