Per il decisore pubblico lo scienziato è un consulente prezioso per calibrare il proprio potere, più o meno ascoltato in funzione dei tempi e dei temi. Quello della salute costringe più di altri la politica a tenere conto dell’opinione scientifica.

In due precedenti contributi (qui e qui), abbiamo provato a spiegare perché lo stato è legittimato ad imporre ai cittadini l’obbligo vaccinale anti-Covid pur di tutelarne i diritti individuali di salute e i correlati interessi collettivi e perché lo stato corrisponde un’equa indennità a tutti coloro che dovessero patire danni dalla somministrazione del vaccino e ciò a prescindere se la somministrazione sia avvenuta in forza di un “obbligo” o in ragione di una “raccomandazione”. Cercheremo adesso di approfondire il rapporto tra il decisore pubblico – nell’esercizio dei tre tradizionali poteri statuali (legislativo, giudiziario ed esecutivo) – e la scienza medica, cioè le relazioni tra il legislatore, i giudici e il sistema di governance della ricerca scientifica, che si fonda su una struttura complessa di organismi preordinati a monitorare e vigilare sulla ricerca stessa.

La “riserva di scienza

Sia l’alluvionale normativa (primaria e secondaria) – prodotta da stato, regioni ed enti locali – sia la correlata giurisprudenza fin qui formatasi in materia risentono infatti di un principio immanente del nostro ordinamento, secondo cui la persona ha il diritto di essere curata efficacemente e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica attraverso una legislazione generale dello stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale e sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili (sentenze della Corte costituzionale n. 169/2017, n. 338/2003, n. 282/2002 e n. 5/2018). Secondo i documenti delle istituzioni sanitarie nazionali e internazionali, l’obiettivo da perseguire nell’ambito di pandemie virali, come quella odierna, è la cosiddetta “immunità di gregge”. Il rimando alla cosiddetta “riserva di scienza” è pertanto doveroso per assumere decisioni pubbliche ufficiali in un ambito caratterizzato, per il suo stesso statuto epistemologico, da un ineliminabile margine di incertezza. Da qui l’affermazione secondo cui “la libertà della politica legislativa trova un limite […] nella scienza“.

Se questa è la cornice di riferimento sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica fin qui utilizzata, venendo al tema, la questione è se la campagna vaccinale in atto, sempre più proiettata verso l’uso di strumenti a forte incentivazione come il green pass, abbia un solido fondamento scientifico in relazione ai basilari canoni di  “appropriatezza” – in termini di efficacia terapeutica – e di “sicurezza” della cura. Secondo un approccio della scienza medica contemporanea, la scelta della terapia più adatta si basa sull’evidence based medicine (Ebm), cioè sulle migliori prove di efficacia clinica e, in particolare, di studi clinici a carattere sperimentale, randomizzati e controllati (Rct, randomized controlled trial), che costituiscono il cosiddetto gold standard della ricerca medica. La medicina basata sulle prove, secondo la definizione ripresa dal Consiglio di stato, è “l’integrazione delle migliori prove di efficacia clinica con l’esperienza e l’abilità del medico ed i valori del paziente” (Ord. n. 7097/2020). In tale contesto, il decisore pubblico (legislatore, governo, giudice) che non ha la competenza per entrare nel merito della discrezionalità tecnico-scientifica sottesa all’Ebm (la storia un giorno ci dirà se l’adesione alla “pratica basata sull’evidenza” ha aiutato o ostacolato la risposta della salute pubblica al Covid-19), può solamente fondare il proprio convincimento sulle informazioni ufficiali, veicolate dalle competenti autorità pubbliche (Aifa, Iss e Oms) con il solo filtro della “ragionevolezza scientifica”.

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La “ragionevolezza scientifica”

L’Istituto superiore di sanità (Iss), a una delle osservazioni più diffuse secondo cui i prodotti in uso nella campagna vaccinale sarebbero inefficaci nel prevenire l’infezione da Sars-Covid ma agirebbero solo sui relativi sintomi, ha così risposto: “l’efficacia complessiva della vaccinazione incompleta nel prevenire l’infezione è pari al 63,2 per cento, mentre quella della vaccinazione completa è pari al 78,1 per cento. Questo risultato indica che nel gruppo dei vaccinati con ciclo completo il rischio di contrarre l’infezione si riduce del 78 per cento rispetto a quello tra i non vaccinati”. Sul sito dell’Iss si legge altresì che “un’autorizzazione condizionata garantisce che il vaccino approvato soddisfi i rigorosi criteri Ue di sicurezza, efficacia e qualità, e che sia prodotto e controllato in stabilimenti approvati e certificati in linea con gli standard farmaceutici compatibili con una commercializzazione su larga scala”.

La risposta alla domanda se alla luce di siffatte informazioni dell’Iss, di indubbia autorevolezza istituzionale e scientifica, le scelte del decisore pubblico per superare la pandemia virale debbano essere consequenziali per calibrare l’applicazione dell’art. 32 della Costituzione arriva dal giudice delle leggi, secondo cui “le decisioni sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro appropriatezza, non potrebbero nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica del legislatore” (sentenza n. 282/2002).

A fronte dell’esigenza di valutare l’attendibilità di uno studio scientifico piuttosto che un altro, si deve scongiurare il relativismo terapeutico basato su nebulose intuizioni curative – più o meno verificabili – del singolo medico, su pseudo conoscenze del paziente o addirittura su valutazioni di mera opportunità politica del decisore pubblico, in quanto le decisioni sul merito delle scelte terapeutiche, in relazione alla loro “appropriatezza”, dovrebbero prevedere “l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali e sovra-nazionali – a ciò deputati, dato l’essenziale rilievo che a questi fini rivestono gli organi tecnico-scientifici” (sentenza n. 274/2014), anche al fine di evitare che la discrezionalità tecnica del decisore pubblico trasmodi in un’incontrollabile, e dunque insindacabile, arbitrio.

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Del medesimo avviso è il Tar del Friuli – Venezia Giulia che nei giorni scorsi, respingendo il ricorso di un medico che aveva rifiutato di vaccinarsi con (sentenza n. 261/2021), ha affermato che le evidenze scientifiche assurgono a limite alla discrezionalità legislativa e danno vita, sul versante del controllo di costituzionalità, a un modello di sindacato ove è la cosiddetta “ragionevolezza scientifica” a divenire il criterio di valutazione della legittimità delle scelte operate dal decisore pubblico.

In sostanza, anche per il decisore pubblico, che ne sta facendo un uso quotidiano, la scienza medica professata dalle istituzioni a ciò preposte, se certamente non equivale alla verità, è sicuramente il miglior metodo a disposizione di chi la sta cercando.

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