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Perché Quota 102 è un errore

Quota 102 è un provvedimento sbagliato, così come Quota 100. La questione della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro andrebbe risolta attraverso il calcolo contributivo, per equità e chiarezza intergenerazionale. C’è comunque un costo da pagare.

Un provvedimento che costa poco

La politica è l’arte del compromesso. E Quota 102 è la prova che un compromesso che costa poco può essere comunque un cattivo compromesso. Non certo per le ragioni addotte dai sindacati.

Il governo ha ben chiaro che Quota 100 sia stata un errore. Non ha aumentato l’occupazione giovanile, come ammesso anche dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, nella sua relazione annuale. Ha consentito invece a oltre 250mila persone – per la maggior parte uomini, nel settore pubblico e con pensioni medio-alte – di lasciare il lavoro a condizioni favorevoli, a costo della collettività.

Quota 102 ne rappresenta una versione light. Permette di andare in pensione a 64 anni – anziché a 62 – e con 38 anni di contributi. Costa poco, perché Quota 100 ha già largamente svuotato la platea dei possibili percettori. Per esempio, un lavoratore che rimane fuori da Quota 100 perché compie 62 anni a gennaio 2022, pur avendo i 38 anni o più di contributi, dovrà comunque aspettare fino al 2024 per accedere a Quota 102. Chi fra coloro che non potevano uscire con Quota 100 accederebbe nel 2022 a Quota 102? I lavoratori con 64 anni o più che non avevano ancora i 38 anni di contributi, ma che li raggiungeranno nel 2022. Una platea molto ridotta. Da qui il costo contenuto di Quota 102, ma anche l’irritazione dei sindacati e della Lega.

Malgrado sia a buon mercato, Quota 102 – già ventilata durante il secondo governo Conte – rappresenta comunque un errore, un passo nella direzione sbagliata. Perché dà un’ulteriore picconata alla nozione di calcolo contributivo introdotto dalla riforma del 1995 per assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale. Solo per consentire a pochi fortunati di pre-pensionarsi. E finendo per non accontentare nessuno. Andrebbe ascritta a quegli sprechi, di cui parlava Mario Draghi nel suo primo discorso al Senato, che rappresentano un torto alle prossime generazioni, “una sottrazione dei loro diritti.”

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Come risolvere la questione

Meglio sarebbe risolvere definitivamente il problema della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro servendosi proprio del calcolo contributivo, anziché dribblarlo.

Due importanti motivi rendono questa soluzione l’unica scelta giusta. Il primo è l’equità intergenerazionale. Con il passaggio completo al contributivo per chi vuole accedere alla pensione anticipata, i lavoratori otterrebbero sui loro contributi previdenziali esattamente il rendimento che un sistema pensionistico a ripartizione può dare loro, ovvero il tasso di crescita del Pil. Inoltre, i lavoratori potrebbero scegliere come percepire la ricchezza previdenziale a cui hanno diritto, dopo aver raggiunto un ammontare minimo di contributi versati, decidendo quando smettere di lavorare tra un’età minima e (possibilmente) un’età massima di pensionamento. In tal modo, potrebbero avere una pensione minore per più anni, nel caso di un pensionamento anticipato, oppure una pensione più elevata ma per meno anni, nel caso di pensionamento posticipato.

Il secondo motivo è la “chiarezza” intergenerazionale. Troppi lavoratori prossimi all’età di pensionamento sono convinti di aver diritto a una pensione ben più elevata di quella a cui i contributi versati possono dar luogo. Il convincimento deriva dalla comparazione con le generose pensioni del passato. Perseverare, anche solo per poco, con i sistemi di “Quote” accresce la percezione dell’ingiustizia intergenerazionale. Al contrario, abbiamo bisogno di maggior chiarezza e di educazione finanziaria sui temi previdenziali. Abbiamo bisogno almeno di una busta arancione con il calcolo contributivo che mostri ai lavoratori a cosa hanno diritto.

Ovviamente, l’uscita dal mercato del lavoro con il metodo contributivo non è indolore. Costa. Allo stato, che dovrebbe mettere immediatamente in bilancio le risorse necessarie a far fronte a tutte le pensioni in più che si genererebbero in virtù dei pre-pensionamenti. L’Inps si troverebbe a finanziare un flusso addizionale di pensioni, che sarebbero però più basse di quelle erogate in caso di normale uscita dei lavoratori con la pensione anticipata (con 42 anni – 41 per le donne – e 10 mesi di contributi) o con la pensione di vecchiaia a 67 anni. Su un orizzonte temporale ampio, di venti-trenta anni, il costo di pagare pensioni più basse per un maggior numero di anni è equivalente al costo di pagare per meno anni pensioni più elevate. È la logica del sistema contributivo, che richiede un bilancio intertemporale, di più anni, per essere analizzata. Nel lungo periodo, i pre-pensionamenti con il contributivo si ripagano da soli. Non lasciano debiti, diversamente da Quota 100 o Quota 102. Spiegarlo a Bruxelles non sarebbe difficile.

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Ma costa anche ai lavoratori. Andare in pensione prima con un sistema contributivo implica penalizzazioni. Proprio perché il totale della ricchezza pensionistica corrisposta al lavoratore nell’arco della sua vita deve essere la stessa, chi esce prima dal mercato del lavoro prende meno di chi esce dopo. Ovviamente i lavoratori sono poco disposti ad accettare questi tagli. Lo si è già visto con l’Ape volontaria e anche con Quota 100, che prevedeva penalizzazioni sulla parte contributiva della pensione. Cosa fare? Giusto che i “tagli” dell’assegno esistano. Sono dettati dall’equità intergenerazionale implicita nel sistema contributivo. Si potrebbe tuttavia prevedere un ruolo per le imprese nel ridurre il costo del pre-pensionamento dei lavoratori. Nell’ambito della contrattazione aziendale, le imprese potrebbero decidere di compensare, in parte o in tutto, le penalità previste per i pre-pensionamenti versando al lavoratore in uscita una somma, defiscalizzata, commisurata alla decurtazione applicata alle pensioni.

Fare la cosa giusta sulle pensioni è il primo passo verso un necessario miglioramento della sostenibilità intergenerazionale. Soprattutto in Italia.

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  1. Arduino Coltai

    Ottimo articolo. Non si comprende perché un lavoratore, che versa mensilmente la sua quota pensione, debba essere costretto ad andare in pensione a 67 anni. Certo che se decide di andare prima i contributi (eventualmente rivalutati) che ha versato dovranno essere divisi per un numero maggiore di anni e quindi l’assegno che percepirà sarà inferiore. Non si comprende perché non dare al lavoratore la possibilità di decidere quando andare in pensione se alla fine percepirà soldi che sono in definitiva suoi. Lo scorporo della previdenza dall’assistenza sarebbe a questo punto auspicabile, con lo stato a gestire i fondi pensione. Ciascuno poi potrebbe decidere (per tempo se si facesse una riforma organica e non si cambiassero le carte in tavola ogni due anni…) se pagarsi una pensione integrativa.

  2. Anonimo Veneziano

    1) Per le pensione a reddito *non alto* il retributivo ha svolto (impropriamente ma necessariamente, v. punto 3, una funzione di *redistribuzione positiva* anche se tale funzione, in condizioni normali, doveva essere svolta dal gettito fiscale e non quello contributivo. 2) Per le pensioni alte invece il retributivo ha costituito un odioso privilegio.
    3) Tuttavia passare al contributivo senza trasferire la suddetta funzione redistributiva dal sistema retributivo al sistema fiscale sarebbe un grave errore. Il fisco dovrebbe farsi carico della quota integrativa per integrare le pensioni contributive *basse*. Ora …l’evasione fiscale italiana ci colloca nel fanalino di coda dell’Occidente e nel breve termine nessuna operazione, nemmeno draconiana., sarebbe in grado di correggere tale disfunzione, ma ne introdurrebbe solo un’altra: in assenza di un fisco equo, i lavoratori dipendenti di fatto integrerebbero con il loro gettito fiscale le pensioni contributive “basse” degli evasori (autonomi) 4) Per i motivi anzidetti, un eventuale passaggio al contributivo richiede sempre la propedeutica creazione di due distinte misure di integrazione delle pensioni basse, distinte in base alla tipologia della contribuzione: una maggiorazione per le pensioni (o quote di pensione) da lavoro dipendente, che verrebbero integrate solo dalla fiscalità dei lavoratori dipendenti e una diversa maggiorazione per le pensioni da reddito autonomo (o per le quote di lavoro autonomo) integrate solo dal gettito fiscale dal lavoro autonomo.
    Solo una distinzione di questo tipo sarebbe equa perche’ veramente redistributiva verso chi ha bisogno e non a favore dei furbetti tinti poveri… e non sarebbe vissuta come l’ennesimo sopruso a danno di chi paga correttamente le imposte.

    • Lorenzo

      Il suo ragionamento generale va più che bene. Dovrebbe solo togliere l’inciso fra parentesi riferito agli evasori.

  3. Maurizio

    Grazie Prof.
    Da persona nata negli anni 80 non posso che essere d’accordo con un calcolo pienamente contributivo per permettere di andare prima in pensione, questo darebbe libertà alle persone di scegliere senza lasciare il conto ai più giovani.
    Rimane comunque un problema di disuguaglianza intergenerazionale molto grave dovuto ai “diritti acquisiti” del vecchio sistema retributivo. Ho letto su alcune analisi che il costo del retributivo è di circa 40 miliardi / anno, la domanda è: è possibile calcolare in modo corretto questo costo? Avrebbe senso economico (senza far scendere nessuno sotto la soglia di povertà!) ricalcolare tutte le pensioni con il retributivo?
    Credo che un paese in crisi demografica come l’Italia dovrebbe iniziare a preoccuparsi di quello che succederà tra qualche anno quando ci saranno più pensionati (boomers + nati 30-50) che lavoratori lavoratori (nati 70-2000 in poi). Grazie

  4. Roberto

    Con la sua proposta finale vorrebbe far pagare alle aziende la scelta del lavoratore di anticipare la pensione, non lo trovo corretto e ben poche aziende sarebbero disposte ad accettare. Io credo che permettere una flessibilità in uscita con il contributivo sia giusto però deve essere solamente il lavoratore a pagarne le conseguenze, se esce prima, o a beneficiarne in caso di uscita posticipata, senza nessun aiuto da parte di stato o aziende. L’unica cosa che dovrebbe fare lo stato è informare adeguatamente e per tempo il lavoratore (con la busta arancione o altri sistemi online) della sua situazione pensionistica nelle varie ipotesi di uscita dal lavoro.

  5. Enrico D'Elia

    Non riesco ad appassionarmi alla contrapposizione tra retributivo e contributivo. E’ stato dimostrato da tempo che i due sistemi danno esattamnete gli stessi risultati adottando opportuni tassi di attualizzazione. Il vero tema è quale frazione del Pil (ovvero del reddito dei lavoratori e delle imprese in attività) siamo disposti a riservare ai pensionati. In questo momento siamo vicini al 17%, nel giro di 50 anni poremmo arrivare al 20%. Di per se, retributivo e contributivo non creano risorse, ma solo “opzioni” sulla futura pensione. Ed eventuali fondi pensioni privati non sfuggono a questa banale realtà. Se al momento del ritiro non ci saranno risorse sufficienti qualsiasi sistema previdenziale diventa insostenibile. Sarebbe il caso di riconoscere onestamente che i contributi che paghiamo oggi servono solo a pagare le pensioni attuali e non ci garantiscono assolutamente nulla per il futuro, se non una “ragionevole aspettativa” di essere gentilmente ricambiati dalle generazioni future.

  6. Maurizio Razzolini

    Io aggiungerei anche un’altra ipotesi: quella della pensione differita. Si pensa sempre di accedere alla pensione quando si lascia il lavoro ma, ad esempio, un lavoratore che ha iniziato a 18 anni matura i 42 anni di contribuzione a 60 anni. Perché non dovrebbe avere la possibilità di dire: lascio il lavoro, mi mantengo in qualche modo fino ai 67 anni e da quel momento mi prendo la pensione intera come uno che ha cominciato a lavorare a 25 anni. Anzi un po’ di più perché il montante contributivo rimasto nelle casse dell’INPS ha continuato a maturare incrementi come tutti i contributi.

  7. Silvestro

    Ognuno ha le proprie ragioni di manifestare il proprio accordo o disaccordo su quello che sta succedendo per le persone che hanno il diritto alla pensione ritirandosi dal mondo del lavoro ma non lo possono fare perché chi ci governa continua a spostare il traguardo pensando di aver trovato la quadra a salvaguardia delle casse dello stato, Le voragini del debito pubblico non si risanano di certo con l’allontanamento dell’elargizione del diritto acquisito.
    Io mi pongo questo quesito e lo pongo anche a voi .
    Uno stato che incassa 35-43 anni di contributi e ne distribuisce mediamente per le pensioni 20-25 cosa fa con la differenza che rimane in cassa?
    Finiamola con questa farsa di scale che continuano a generare astio, differenze sociali e tanta povertà.
    Riformiamo il sistema pensionistico totale con equità verso tutte le forme pensionistiche nazionali.
    Lavorare 41 anni continuativi quando il lavoro è fortemente in crisi è assai difficile e chi ha raggiunto quel traguardo non può essere massacrato in continuazione e pagare per tutti. Equità ed equilibri sociali sono degni di una democrazia innovativa.

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