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Reddito di cittadinanza: quale soluzione per lo squilibrio Nord-Sud

Esiste uno squilibrio territoriale tra i beneficiari del reddito di cittadinanza. Ma il rimedio non è alzare la soglia di accesso per chi vive al Centro-Nord, perché non considera la diversa disponibilità di beni pubblici. La risposta è semmai un’altra.

Il divario territoriale

Una delle questioni emerse nel dibattito sul reddito di cittadinanza e la sua efficacia nel raggiungere chi si trova in povertà riguarda le differenze territoriali nella distribuzione dei beneficiari. In particolare, Massimo Baldini e Giovanni Gallo, nel rapporto che Caritas ha dedicato quest’anno proprio alla misura, confrontano i dati dell’Istat sulla povertà assoluta per ripartizione con la distribuzione dei beneficiari, segnalando uno squilibrio a sfavore delle regioni centro-settentrionali. Stimano infatti che il tasso di copertura delle famiglie in povertà assoluta da parte del reddito di cittadinanza sia pari a circa il 44 per cento a livello nazionale, ma al 52 per cento nel Mezzogiorno e sia viceversa inferiore alla media nazionale nel Centro-Nord. Questo squilibrio si aggiunge a quello, più consistente, a favore delle famiglie piccole o monocomponente e a sfavore di quelle numerose e con minorenni, a causa di una scala di equivalenza penalizzante. 

Si tratta di uno squilibrio solo parzialmente spiegabile dai vincoli in accesso per gli stranieri, che sono numericamente più presenti nelle regioni settentrionali e che costituiscono una buona fetta dei poveri assoluti stimati dall’Istat in queste regioni, dove per altro rappresentano oltre il 20 per cento dei beneficiari (29,1 per cento nel Nord-Ovest, 23,8 per cento nel Nord-Est, 26,7 per cento nel Centro), contro il 10,6 per cento nel Mezzogiorno e il 6,1 per cento nelle Isole. 

Se si confrontano i dati Istat sulla povertà assoluta e quelli di beneficiari, nel Centro-Nord rimarrebbe esclusa anche una buona fetta di poveri assoluti “autoctoni”, mentre, viceversa, nel Mezzogiorno sarebbero inclusi anche un buon numero di “falsi positivi”, specie tra i soli o le famiglie piccole di soli adulti. Si tratterebbe di persone in condizione economica disagiata, ma non in povertà assoluta.

La disparità dipenderebbe sia dallo squilibro strutturale del Rdc, che favorisce i singoli e le famiglie piccole, sia dal fatto che viene utilizzata un’unica soglia di accesso per tutto il territorio nazionale, invece di differenziarla in base al costo della vita, come fa Istat quando calcola l’incidenza della povertà assoluta. Per ovviare al primo aspetto, Caritas, come Alleanza contro la povertà e lo stesso Comitato scientifico di valutazione del reddito di cittadinanza, propongono di modificare la scala di equivalenza. Per ovviare al secondo, il rapporto Caritas – cui si è unita una schiera di commentatori – suggerisce di alzare la soglia di accesso per i richiedenti il Rdc che vivono nel Centro-Nord. 

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No alle soglie differenziate

Si tratta di una proposta a prima vista ragionevole, analoga a quella che periodicamente viene avanzata, in nome dell’equità, di differenziare i salari su base territoriale. Secondo il mio parere, e anche di quello del Comitato scientifico di valutazione del RdC (di cui riprendo qui l’argomentazione, vedi), si tratta di una soluzione basata su argomentazioni che non tengono conto adeguatamente non solo del diverso modo in cui Istat stima la povertà assoluta, rispetto all’indicatore utilizzato per il Rdc, ma soprattutto non considerano il complesso di fattori che contribuiscono al tenore di vita. 

Per quanto riguarda il primo punto, va ricordato che le stime Istat si basano sui consumi e non sul reddito e la ricchezza (mobiliare e immobiliare) e adottano linee di povertà molto diversificate non solo in base alle grandi ripartizioni territoriali, ma anche per ampiezza del comune. Le differenze nel costo della vita per abitazione e beni primari non riguardano, infatti, solo le grandi ripartizioni territoriali, ma anche le città grandi rispetto a quelle piccole, le zone urbane rispetto a quelle rurali e così via. Per questo l’Istat, per ogni tipologia famigliare individuata per età e numerosità dei componenti (39 in tutto), basandosi sul costo stimato di un medesimo paniere di beni, considera ben nove diverse soglie di povertà assoluta. Se anche per il reddito di cittadinanza si adottasse la logica delle soglie differenziate non ci si potrebbe fermare a due, con l’effetto di creare nuove iniquità. 

In secondo luogo, non si può ignorare la diversa disponibilità di beni pubblici nelle varie aree del paese (servizi per l’infanzia, tempo pieno scolastico, servizi sanitari, servizi sociali, trasporti, lo stesso funzionamento dei centri per l’impiego oltre che le possibilità occupazionali). Le stime dell’Istat non prendono in considerazione questo aspetto, che però fa una grande differenza per la qualità della vita e per lo stesso costo di soddisfacimento dei bisogni, a parità di reddito. Queste differenze sono per certi versi speculari a quelle del costo della vita. In altri termini, le aree con il costo della vita più basso, ad esempio riguardo ai costi dell’abitare, hanno spesso anche una dotazione di servizi pubblici inferiore a quella delle aree a costo della vita più alto, o devono sostenere costi aggiuntivi per accedervi. È una questione sollevata anche da chi contesta l’opportunità di diversificare i salari su base territoriale per tener conto del diverso costo della vita.

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Inoltre, un’analisi contenuta nell’ultimo rapporto annuale dell’Inps, di cui si è dato conto anche su questo sito, mette in dubbio che vi sia una indebita sovra-rappresentazione del Mezzogiorno tra i beneficiari. Basata su dati a livello comunale, la ricerca utilizza una serie di indici della vulnerabilità sociale e del disagio economico dei comuni di riferimento e dell’incidenza di alcune caratteristiche “a rischio” nella popolazione (istruzione, età, reddito, appartenenza etnica). Ne emerge che il divario Nord-Sud nell’incidenza comunale dei beneficiari può essere largamente spiegato dall’incidenza, più o meno marcata, degli indicatori di povertà e da un mercato del lavoro caratterizzato da alta disoccupazione e bassa istruzione. In altri termini, la “sovra-rappresentazione” dei beneficiari nel Mezzogiorno non è dovuta a una eccessiva generosità della soglia nei loro confronti o a un maggior lassismo dei controlli, bensì a una maggiore concentrazione nel Mezzogiorno di contesti locali caratterizzati da scarsità di risorse economiche (mercato del lavoro) e di capitale umano e sociale. Contesti che esistono anche nel Centro-Nord, ma in misura più ridotta. Ne consegue, tra l’altro, che i beneficiari del Mezzogiorno hanno meno possibilità di trovare una occupazione nella loro area di residenza di quelli del Centro-Nord.

Una ipotesi di soluzione

Per tener conto delle differenze nel costo della vita senza creare nuove iniquità, e insieme ridurre il possibile effetto di disincentivo al lavoro di un sostegno monetario comparativamente (anche a livello internazionale) generoso per i singoli e le famiglie piccole di adulti, si potrebbe considerare la parte monetaria del Rdc come costituita da due livelli. Il primo, garantito come Lep (livello essenziale di prestazione) a livello nazionale, con una soglia di reddito e un importo massimi per una persona sola leggermente più bassi di quelli attuali, il secondo definito a livello regionale. Occorrerebbe però rovesciare la logica della normativa che, così come toglie un euro per ogni euro guadagnato disincentivando il lavoro, ne toglie uno per ogni euro ricevuto a livello locale. 

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  1. Maurizio Cortesi

    Analisi molto dettagliata e convincente tranne che nella proposta finale: quali regioni il Molise? La Basilicata, l’Umbria per non parlare di Valle d’Aosta ecc? Ma lo stesso vale per i Puc che sono riservati ai comuni che a grande maggioranza hanno pochi abitanti o poco territorio e a volte entrambi. L’incapacità di riformare la struttura istituzionale si ripercuote sull’implementazione delle riforme sociali e fiscali. L’inversione del Titolo V della costituzione aveva senso se accompagnata da un riordino strutturale che eliminasse sì le province-senza lasciarne qualcuna ribattezzandole città metropolitane che tranne nel caso di Milano e Napoli non hanno affatto una densità abitativa da città- ma anche accorpasse drasticamente i comuni e riducesse le regioni. Piuttosto perché non pensare a differenziare il Rdc per genere dando di più alle donne invece che eliminare l’Iva sugli assorbenti? Faccio questo esempio per rispondere alla prevedibile reazione che cosi si disincentiva il lavoro femminile già inferiore al resto d’Europa soprattutto al Sud, perché il punto è come si finanzia il Rdc e qui rientra l’altra riforma fondamentale che è quella fiscale dalla imposta patrimoniale anche sulla prima casa alle aliquote agevolate Iva.

  2. Francesco Rocchi

    Articolo interessante, ma la tesi è che l’RdC non dovrebbe variare in funzione territoriale, ma poi la proposta è di variarne una quota, presumo abbastanza significativa da marcare una differenza visibile, su base regionale.

    Mi sembra una contraddizione.

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