L’Italia produce più rifiuti da attività economiche degli altri grandi paesi europei. È lo specchio di un modello orientato al riciclo. I margini di miglioramento sono ampi: richiedono regole precise e una spinta su efficienza e simbiosi industriale.
La distanza dai paesi europei
In un precedente articolo ci siamo occupati dei rifiuti prodotti dalle imprese, guardandoli dalla nuova prospettiva del confronto con le esperienze dei maggiori paesi europei (Francia, Germania e Spagna). Il focus è stato posto sulle tipologie che più di altre contribuiscono a spiegare la maggiore produzione di rifiuti che caratterizza il nostro paese.
Diverse sono le evidenze emerse, con riflessi sulle azioni da realizzare o adeguare. Non sono in discussione i risultati italiani nel riciclo e nell’economia circolare. A richiedere attenzione, però, è la più alta intensità di produzione di rifiuti delle imprese, anche perché, negli ultimi anni, ha corso più del Pil. Si tratta di una conferma del mancato sganciamento tra il ciclo economico e la produzione di rifiuti, che invece sembra documentata in altri grandi paesi, come Francia e Germania.
Il dettaglio sulle singole tipologie di rifiuto consente di comprendere da dove origina la distanza. In particolare, rispetto alla Francia le maggiori differenze, in termini di produzione di rifiuto per unità di Pil, si osservano nelle seguenti tipologie:
- rifiuti da trattamento dei rifiuti
- rifiuti liquidi da trattamento dei rifiuti (percolati, digestati, eccetera)
- fanghi industriali e altri rifiuti liquidi (bonifiche, attività di perforazione, acque di raffreddamento)
- fanghi comuni (acque reflue urbane, lavorazione del cibo)
- rifiuti plastici
Per tali tipologie di rifiuto, che rappresentano circa il 40 per cento della produzione totale delle attività economiche, la distanza tra Italia e Francia è di 17 kg per 1.000 euro di Pil.
Figura 1
Gran parte della distanza – rispetto alla Francia, ma anche rispetto agli altri stati europei – matura in soli due ambiti: i rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti, da un lato; i fanghi industriali e urbani, dall’altro. Ed è qui che vanno ricercate le possibilità di miglioramento in chiave di prevenzione, riciclo/recupero e di gestione più efficiente.
Gli scarti di selezione sono appunto i residui della selezione meccanica dei rifiuti, della produzione di combustibile dai rifiuti (Css) e del compostaggio dei rifiuti organici. I dati per l’anno 2018 evidenziano che ammontano a circa 9,9 kg per 1.000 euro di Pil, superiori rispetto a quelli di Germania (5,6) e Francia (3,1), ma inferiori a quelli della Spagna (13,6). In termini assoluti, per l’Italia, la produzione è di 17,6 milioni di tonnellate.
Una evidenza simile si conferma osservando l’incidenza dei rifiuti prodotti dal trattamento sui rifiuti primari: raggiunge il 18 per cento in Italia, contro il 15 per cento della Spagna, il 12 per cento della Germania ed è assai distante dal 4 per cento della Francia. La più alta intensità di rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti italiana è imputabile soprattutto alle filiere dei rifiuti da rifiuti (scarti e fanghi) e delle plastiche.
Dove migliorare
L’alta incidenza degli scarti non è di per sé un tratto negativo, deve però essere letta alla luce di alcune considerazioni. Da un lato, è un’ulteriore conferma delle peculiarità di un modello di gestione fortemente orientato al recupero di materia. Dall’altro lato, è anche la cartina di tornasole della mancanza di impianti per la chiusura del ciclo. Quest’ultimo aspetto è evidente soprattutto se si guarda ai rifiuti indifferenziati di origine urbana, sottoposti a trattamenti al solo fine di “eludere” il principio di autosufficienza regionale nello smaltimento e poter essere esportati in altre regioni o all’estero. Il peso inferiore degli scarti negli altri paesi è spiegato dal maggiore ricorso al recupero energetico. Una modalità di gestione, questa, che chiude il ciclo dei rifiuti riducendo al minimo i trattamenti intermedi. In Italia, invece, il ricorso al recupero energetico è decisamente residuale (si veda qui).
I fanghi pesano per il 14 per cento sul totale dei rifiuti prodotti dalle imprese (dati 2018). Si tratta di 6,1 milioni di tonnellate di fanghi comuni, a cui si sommano 5,7 milioni di tonnellate di fanghi industriali e altri rifiuti liquidi. Il totale dei fanghi prodotti, pari a 11,7 milioni di tonnellate, è decisamente superiore a quello degli altri grandi Paesi europei: 3,5 milioni di tonnellate in Germania, 2,2 per la Spagna e 2 per la Francia. Anche rapportando la produzione di fanghi al Pil, si nota la più alta intensità di produzione per l’Italia, pari a 9,5 kg per 1.000 euro di Pil, circa cinque volte superiore a quella dei maggiori paesi Ue. Soprattutto dal confronto con la Germania, è evidente che al nostro paese paiono mancare sia i trattamenti per ridurne il volume in principio, come l’essicazione, ma anche il recupero dei nutrienti e del fosforo presenti nei fanghi e il riutilizzo delle acque depurate.
Parte della risposta a queste questioni va ricercata nell’annosa difficoltà a disciplinare la materia, sia per i criteri che consentono lo spandimento in agricoltura dei fanghi sia dei trattamenti che consentono alle sostanze ricavate dai fanghi di non essere considerate rifiuti (end of waste), sostenendone il recupero.
Per quanto concerne i rifiuti plastici, la crescente attenzione alle possibilità di riciclo e di recupero energetico richiede una chiara disciplina, che dica quando i rifiuti cessano di essere tali (end fo waste) e quando gli scarti delle lavorazioni industriali possono essere reimpiegati direttamente senza causare danni alla salute e all’ambiente (sottoprodotti). Non bastano, infatti, le iniziative volte al miglioramento nella qualità della raccolta e alla riduzione dell’uso dei prodotti plastici da parte dei cittadini.
I pochi dati presentati qui tratteggiano un paese con luci e ombre. Nonostante il primato nel riciclo, negli ultimi anni non sono mancate difficoltà nella gestione dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Criticità che si sono tradotte in aumenti dei costi di gestione, rincari dei corrispettivi di trattamento e perdite di competitività per le imprese (si veda qui).
Al di là degli ottimi risultati nel riciclo e nell’economia circolare, non vanno trascurate le questioni della più alta intensità di produzione di rifiuti da attività economiche e della carenza di impianti in grado di “chiudere il ciclo”. In questi ambiti vanno anche cercate le potenzialità di miglioramento puntando a maggiore efficienza e simbiosi industriale.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
mauro
Bell’articolo, però non punterei il dito solo sulla mancanza dell’inceneritore a chiusura del ciclo.
La farraginosità della nostra legislatura è sotto gli occhi di tutti, e solo alcune multiutility, in situazione di monopolio , riescono a fatica a presentare qualcosa di nuovo.
C’ è un enorme ricchezza da estrarre dai rifiuti, a partire semplicemente dal biogas che si può produrre dai fanghi urbani, con una digestione anaerobica massimizzata.
L’incenerimento è solo l’ultima soluzione applicabile, prima occorre percorrere tutte le strade del recupero di materia.
Donato Berardi
Caro Mauro. Condivido il suo pensiero. Preciso però che biogas e termovalorizzazione al lato pratico non sono molto di differenti, due forme di recupero energetico. Perché immagino che il biogas quando finisce in rete diventi un combustibile. Però concordo con lei sul fatto che la digestione anaerobica è una opzione assolutamente efficiente e da sostenere. Nel caso dei fanghi industriali, tuttavia, occorre tenere conto della natura del processo da cui originano e degli inquinanti presenti nei fanghi. Un saluto Donato Berardi