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Dal Covid una spinta al lavoro agile*

Un clima ostile ha ostacolato a lungo una nuova organizzazione del lavoro. Tutto è cambiato con la pandemia. Lo smart working ha un grande potenziale di mutamento economico e socio-culturale. Resta da vedere come sarà attuato in Italia.

Cambio di passo con la pandemia

Lina Wertmuller ci ha insegnato che le convenzioni sociali in momenti eccezionali possono, improvvisamente, venire meno. Una guerra, una epidemia o un naufragio e tutto cambia: denaro, potere, relazioni. Qualche volta, come nel caso del lavoro agile, dal giorno alla notte, si compie un salto in avanti, si infrangono anni e anni di routine, si realizzano quei cambiamenti che si sono procrastinati per decenni.

La tecnologia rende possibile già da tempo lo svolgimento di una quota più o meno ampia delle attività lavorative da remoto. Tuttavia, l’innovazione organizzativa e l’attuazione di modalità ibride di lavoro sono state a lungo contrastate a causa del timore di perdere il controllo sul lavoratore. Il clima era ostile, c’era diffidenza, si parlava di rilevazioni biometriche, scanner e video-sorveglianza.

Il Covid è stato il detonatore dell’esplosione del lavoro agile oppure, se preferite, un caso di serendepity: cercando il distanziamento sociale abbiamo trovato un modo nuovo di lavorare, pur utilizzando l’infrastruttura aziendale esistente e i mezzi informatici disponibili. E – sorprendentemente – ha funzionato.

In un nostro recente contributo sul lavoro da remoto (realizzato tramite i dati provenienti da un modulo specifico dell’indagine Inapp-Plus condotta nel periodo marzo-luglio 2021), sono emerse evidenze utili per stimolare riflessioni anche sulla realizzazione del Protocollo nazionale sul lavoro agile per la contrattazione collettiva.

Nel 2020 l’emergenza sanitaria ha portato 8,8 milioni di occupati a lavorare da remoto con una quota pari al 40 per cento, mentre prima della pandemia questa modalità di lavoro riguardava solo l’11 per cento. Nel 2021, invece, i lavoratori da remoto sono stati 7,2 milioni pari al 32 per cento degli occupati (figura 1a). Il 37 per cento dei lavoratori agili non ha beneficiato di accordi preventivi o formali, il 16 per cento ha invece sottoscritto un accordo collettivo e il 14 per cento un accordo individuale; per il 22 per cento è stato adottato un regolamento aziendale. Come la letteratura evidenzia già da tempo, il lavoro da remoto si fonda necessariamente sulla fiducia tra le parti: rari i fenomeni di azzardo morale, prevalenti invece la reciprocità, la solidarietà e la responsabilità.

L’articolazione dei giorni di lavoro agile mostra che sul mese il 16 per cento (3,4 milioni) ha lavorato da remoto tra 1 e 10 giorni, il 9 per cento (2 milioni) da 11 a 20 giorni e l’8 per cento (1,7 milioni) per 20 giorni o più (figura 1a). Passando alla distribuzione settimanale dei lavoratori agili, quasi il 50 per cento è stato impegnato in modalità smart da 3 a 5 giorni e appena l’11,6 per cento un solo giorno (figura 1b). A chiudere il cerchio, la richiesta di lavoro agile espressa dagli occupati (figura 1c): oltre la metà non è interessata a lavorare da remoto, ma molti vorrebbero farlo 2-3 giorni a settimana o più. Tale propensione, da una parte, rassicura dalla temuta fuga dal posto di lavoro, ma dall’altra mostra l’urgenza di intervenire sotto il profilo culturale per rendere il lavoratore, il lavoro e il luogo di lavoro più smart.

L’analisi per professioni

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Vari studi hanno stimato la tele-lavorabilità delle professioni in via indiretta in base alla natura delle prestazioni. Nella figura 2, si illustra, invece, quanta parte dell’attività lavorativa è stata effettivamente resa da remoto, per grande gruppo professionale. La metà degli occupati da remoto dichiara di aver svolto il 40 per cento delle attività lavorative a distanza. Emerge come il 60 per cento delle professioni più qualificate eroghi più del 40 per cento della prestazione da remoto contro solo il 20 per cento delle professioni meno qualificate (legate intrinsecamente alla presenza).

Se da un lato è evidente il rischio di ulteriore segmentazione, dall’altro, il disallineamento tra le stime indirette di tele-lavorabilità e le quote di attività direttamente rese da remoto invita a riflettere sulle potenziali opportunità derivanti da una revisione complessiva dei modelli organizzativi. In altri termini, dobbiamo rallegrarci per il bicchiere pieno per un terzo, ma anche pensare a come intervenire sui due terzi da riempire. Riorganizzando i processi produttivi e ibridando le mansioni, infatti, si potrebbe ricavare una quota di lavoro da remoto anche per molti dei lavoratori oggi esclusi, come la pandemia ha già iniziato a mostrare.

Figura 2 – Quota di attività lavorativa resa da remoto per grandi gruppi professionali, percentuali cumulate

Fonte: Indagine Inapp-Plus, 2021.

Le modalità organizzative e gli strumenti introdotti per agevolare e sostenere il lavoro da remoto sono stati molteplici, ma con alcune distinzioni tra pubblica amministrazione e privato. Nel privato prevalgono l’assegnazione di obiettivi individuali, una reportistica periodica sul grado di conseguimento e l’erogazione di buoni pasto (figura 3), con minori controlli sulle ore lavorate o la presenza. Nella Pa, al contrario, sembrano crescere gli “obblighi” burocratici, sebbene non associati a una complessiva reingegnerizzazione agile dei processi.

Quanto agli strumenti, le innovazioni principali hanno riguardato l’infrastruttura tecnologica: piattaforme per le riunioni a distanza, dispositivi informatici, attivazione di protocolli di sicurezza informatica e accesso ai servizi interni in via telematica. Minore attenzione si è registrata invece nell’offerta di cicli formativi o nella fornitura di attrezzature ergonomiche, aspetti che avrebbero potuto rappresentare un investimento in previsione di un lavoro da remoto a regime.

L’opinione dei lavoratori

Il lavoro da remoto è stato apprezzato dal 55 per cento di chi l’ha provato e bocciato solo dal 9 per cento. Particolarmente positiva è la valutazione della libertà di organizzarsi nel lavoro e di gestire gli impegni familiari. Al contrario, gli aspetti negativi sottolineati riguardano l’isolamento sofferto, una maggiore difficoltà nel rapporto con i colleghi, l’aumento dei costi per le utenze e il senso di continuo controllo.

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Se il 62 per cento dei lavoratori agili dichiara di poter scegliere quando disconnettersi (il 50 per cento nel pubblico contro il 65 per cento nel privato), i “sempre connessi” sono il 33 per cento (27 per cento nella Pa e 35 per cento nel privato). Fare brevi pause non è un problema per il 78 per cento, ma il 50 per cento può disconnettersi solo per la pausa pranzo. Il 28 per cento lavora la sera, il 22 per cento nei fine settimana e il 23 per cento invece riceve richieste fuori dell’orario concordato. Si è iniziata a diffondere, spontaneamente, una sorta di “galateo digitale”: un insieme di costumi, attenzioni e cautele nelle relazioni lavorative a distanza.

Cambierebbe qualcosa se la propria attività assumesse stabilmente un assetto agile? Ben un occupato su tre si sposterebbe in aree meno congestionate e quattro su dieci vorrebbero avvicinarsi alla natura. Per anni siamo stati esposti a una forza centripeta che portava valori e persone al centro delle città. Al contrario, la tecnologia e il lavoro da remoto stanno producendo una forza centrifuga che potrebbe ridistribuire asset economici e capitale sociale sui territori, ma in quale forma? Varrà anche per le grandi città italiane l’effetto ciambella, ovvero il progressivo abbandono del centro per la periferia? O invece il fenomeno assumerà una configurazione differente, anche in considerazione del valore artistico dei nostri centri storici e della composita articolazione del territorio italiano, un mix di aree interne, piccoli centri e grandi metropoli?

Da questo punto di vista, il punto di approdo dello smart working si può solo intravedere, poiché il suo potenziale è enorme: si pensi alla prospettiva economica e urbanistica, in termini di socialità e costumi, come strumento di work-life balance e di redistribuzione del lavoro sul territorio, o anche come leva per la transizione ecologica e digitale. È pertanto evidente che un cambiamento così radicale richieda un’adeguata elaborazione politica e culturale per trasformarsi in una significativa conquista sociale.

*Le opinioni espresse sono personali e non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza

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  1. Savino

    Pensate che gli inoccupati e i disoccupati siano contenti di vedere che altre persone, che magari ne sanno meno di loro, non solo lavorano, ma lo fanno comodamente da casa propria, togliendo ogni tipo di opportunità di nuova assunzione, poichè l’elemento fiducia rendere impossibile mettere in smart working un neo assunto e, quindi, semplicemente non si assume.

  2. Giuseppe

    Temo che un uso scorretto dello smartworking tolga quel rapporto tra persone , che fanno domande non semplici ed altre che cercano di rispondere sulla base della prpria esperienza, rapporto quindi indispensabile per la risoluzione concreta dei problemi

  3. stefano

    In un Paese in cui la PA non sa neppure se i suoi dipendenti sono in ufficio o a fare la spesa (in orario d’ufficio, ovviamente) parlare di “assegnazione di obiettivi individuali” dando per scontato e quasi secondario il loro raggiungimento, mi sembra surreale. La realtà è totalmente diversa ed è sufficiente parlare con qualche cittadino che ha avuto la necessità di frequentare – a puro titolo di esempio, ma tendo a parlare di quello che conosco di prima mano – uno sportello INPS o l’Ufficio Tecnico di un Comune qualsiasi per averne esperienza diretta e devastante.
    Inoltre, qual è il “diritto” secondo il quale un fornitore di servizi al pubblico può autodeterminarsi l’orario di lavoro facendo prevalere il proprio interesse rispetto a quello per cui è stato assunto ?

  4. Firmin

    Lo smartworking presenta innumerevoli vantaggi per chi lo svolge e per la collettività. Evidenze aneddotiche e indagini interne hanno mostrato che aumenta anche la produttività, se non altro perchè riduce il tempo degli spostamenti e il relativo stress. Presenta però almeno due criticità: (1) l’allentamento delle relazioni coi colleghi (di cui parlano gli autori) , che vale soprattutto per i nuovi assunti; e (2) la riduzione dell’occupazione, già colpita dalla disoccupazione tecnologica incombente. Il lavoro in casa, infatti, taglia tutto l’indotto degli uffici: non solo la ristorazione (come ha detto in modo pittoresco anche Brunetta), ma anche pulizie, manutenzione, affitti, trasporti, ecc. E’ difficile che tutti questi servizi si spostino nelle zone residenziali, almeno nel breve e medio periodo. Esiste poi il tema delle relazioni industriali, che con lo smartworking diventano necessariamente più polverizzate, aumentando il potere di mercato delle imprese e riducendo quello dei lavoratori. Questa modalità di lavoro favorisce inoltre lo spostamento della retribuzione dal tempo di lavoro agli obiettivi raggiunti, riportando in auge il cottimo sotto nuove forme.

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